Crocifissi vietati, chierici costretti a camminare in incognito senza talare, squadroni all’assalto di chiese. Il cattolicesimo come ragione di discriminazione sul posto di lavoro, l’abiura come via di salvezza da morte certa. E tante, tante stragi di innocenti. Scene di persecuzione religiosa che potrebbero ricordare la Nigeria degli anni bui della guerra a Boko Haram o il Siraq caduto sotto il controllo del Daesh, ma che non hanno avuto luogo né in Africa né in Medio Oriente, non sono accadute nel XXI secolo e non hanno avuto nulla a che fare con il terrorismo islamista. Questa è la storia della più feroce persecuzione religiosa del Novecento: la guerra cristera nel Messico degli anni Venti.
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Nel 1917, mentre il pianeta era in guerra, il Messico si avviava verso l’uscita da un conflitto fratricida durato ben sette anni e scoppiato a causa del malcontento trasversale che si era accumulato nel corso della lunga dittatura di Porfirio Díaz. Per sette anni, dal 1910 al 1917, messicani di ogni credo e ceto si erano combattuti per decidere il fato del paese. Risultato: quasi tre milioni di morti.
Nel 1917, sebbene gli scontri sarebbero durati altri tre anni, il vincitore era già emerso: erano i costituzionalisti di Venustiano Carranza, l’equivalente messicano dei giacobini, che quell’anno promulgarono la nuova carta fondamentale del Messico. Una carta avanguardistica dal punto di vista dei diritti sociali, ma estremamente, o meglio, intrinsecamente anticlericale.
Gli eredi di Carranza, Álvaro Obregón e Plutarco Calles, avrebbero rapidamente utilizzato ambiguità e disposizioni della nuova costituzione per muovere una guerra all’acerrimo nemico della galassia liberale, ovvero la Chiesa cattolica, e per dare seguito al sogno recondito di dar vita ad una chiesa nazionale, indipendente dal papato, plasmata dall’esperienza del Culto della Ragione e dell’Essere supremo dell’era giacobina e ispirata ai valori massonici dei padri fondatori del nuovo Messico.
Né Obregón né Calles potevano immaginare l’accesa e ampia resistenza della popolazione al piano di scristianizzazione della società, cominciato con l’eloquente tentativo di far saltare in aria la Madonna di Guadalupe, un simbolo nazionale ancor prima che cattolico, nel 1921. Ma le politiche anticlericali, in seguito divenute vere e proprie persecuzioni ai danni dei fedeli, avrebbero determinato lo sprofondamento del martoriato Messico in una nuova guerra civile.
L’inizio della guerra cristera si fa risalire tradizionalmente al 1926, anno della proclamazione della legge Calles, ma il terreno fu preparato nei sei anni precedenti. Attentati. Piccole compressioni della libertà di culto. Adozione di linguaggio avvelenato. Accuse alla Chiesa cattolica di essere una forza antinazionale.
Nel 1921, a un anno di distanza dall’insediamento alla presidenza di Obregón, un tale a libro paga governativo, Luciano Pérez, introdusse un ordigno nella basilica di Nostra Signora di Guadalupe allo scopo di distruggere il simbolo del cattolicesimo messicano, ossia il mantello miracoloso della Vergine di Guadalupe. L’attentato fallì clamorosamente (o miracolosamente?), giacché la bomba, pur riducendo in cenere l’altare, lasciò intatto il mantello, ma il messaggio raggiunse la Chiesa cattolica.
Di lì a poco, per l’intera durata dell’arco presidenziale, Obregón avrebbe avviato una persecuzione morbida della popolazione cattolica basata sul principio della rana bollita: piccole ma costanti e crescenti compressioni della libertà di culto. A mandato terminato, nel 1924, il presidente era riuscito a rimuovere l’insegnamento della religione cattolica dalle scuole pubbliche, a rimpatriare parte del clero straniero e a imporre una serie di limitazioni alla presenza del sacro nella vita pubblica.
Obregón fu succeduto da Calles, il capofila dell’ala radicale dei costituzionalisti, che della marginalizzazione del cattolicesimo avrebbe fatto il punto focale della propria presidenza. Autore e promotore della legge omonima del 1926, il Capo di Stato elevò qualitativamente la persecuzione: da morbida e velata a dura e pubblica.
La legge Calles, che ancora oggi è considerata una delle legislazioni più anticlericali che siano mai state prodotte in un regime (semi) democratico, fu il fondamento giuridico che diede giustificazione alla lotta senza quartiere al cattolicesimo. Dal ventre di questa norma fu partorita una serie di disposizioni molto severe, alcune punibili con ammenda, altre con l’incarcerazione e altre ancora con l’esilio, tra le quali l’obbligo di apostasia per i dipendenti pubblici, l’espropriazione con annessa nazionalizzazione di chiese, conventi e monasteri, e l’accelerazione della campagna di espulsioni dei chierici di nazionalità straniera iniziata da Obregón.
La legge Calles consacrò l’inizio di una persecuzione di Stato, legale e istituzionalizzata, a geometria variabile. Perché gli Stati federati, in quanto tali, furono lasciati liberi di applicare la legislazione a propria discrezione, e così fecero. Mentre alcuni preferirono moderare il liberticidio, limitandosi a privare i chierici del diritto di voto o a imporgli di sposarsi, altri, come il Chiapas, sfruttarono la legge per giustificare la chiusura di chiese, la messa al bando di ogni libro religioso, il divieto di esporre di croci in luogo pubblico, la ridenominazione di città e villaggi, la cancellazione delle festività cattoliche e persino l’assassinio del clero.
Ad accompagnare la progressiva implementazione della legge Calles, la comparsa di gruppi paramilitari specializzati nell’assalto alle chiese, nell’uccisione di chierici politicamente attivi e nella perpetrazione di violenze ai danni dei fedeli. Essere cattolici era diventato impossibile. E fu così che il primo agosto 1926, dopo aver tentato (infruttuosamente) la via della disobbedienza civile e del boicottaggio economico, le campane del Messico suonarono per l’ultima volta su ordine dell’allora papa Pio XI. L’inizio della clandestinità e della guerra di coloro che credevano in Cristo Re, i cristeros.
L’inizio della guerra cristera, o cristiada, viene fatto risalire al 1926, l’anno della legge Calles e dell’entrata in clandestinità della Chiesa cattolica. A partire da quell’anno, per tre anni, un esercito di circa ottantamila di guerriglieri, supportato da un circuito di milioni di persone, avrebbe resistito alla persecuzione della presidenza Calles al grido “¡Viva Cristo Rey!“.
Guidato da un noto reduce della rivoluzione messicana, Enrique Gorostieta Velarde, l’esercito cristero passò rapidamente dalle scorribande e dalle imboscate alla guerra semi-simmetrica. Il processo di professionalizzazione supervisionato da Gorostieta portò alla nascita di divisioni, all’addestramento dei soldati all’utilizzo delle più svariate armi e allo spostamento del conflitto dalle campagne alle città.

L’avanzata cristera, lungi dallo spaventare Calles, ebbe come effetto la radicalizzazione dell’intero esecutivo. Il Presidente messicano, nolente ad abrogare la legislazione e a porre fine alla persecuzione, cominciò a colpire il morale dei guerriglieri alzando l’asticella delle brutalità commesse dai paramilitari e dal governo stesso. Massacri, saccheggi, uccisioni sommarie. Abbassamento dell’età dei condannati a morte.
Fu nel contesto di escalation del conflitto che avvennero le eclatanti impiccagioni di José María Robles Hurtado e Cristóbal Magallanes Jara, due presbiteri carismatici e di fama nazionale, e la sconvolgente esecuzione di José Sánchez del Rio, un quattordicenne giustiziato per aver rifiutato di fare pubblica apostasia.
La morte di del Rio, datata 10 febbraio 1928, fu pensata per dare il colpo di grazia alla resistenza cristera, per mostrare che la presidenza non si sarebbe fermata davanti a nulla, ma finì col produrre l’effetto contrario. Strati sempre più ampi della popolazione, sconvolti dal martirio del quattordicenne, scesero in piazza, mandando in tilt le arterie del paese e/o arruolandosi nell’esercito di Gorostieta. Il Messico sembrava incamminarsi verso una nuova guerra civile. Stati Uniti e Chiesa cattolica osservavano con preoccupazione, facendo pressioni alla presidenza Calles affinché cedesse alle richieste legittime e sensate dei cristeros.
Il 17 luglio 1928, dopo quasi cinque mesi di crescente conflittualità, ha luogo l’inaspettata svolta. Obregón, da pochi giorni rieletto alla presidenza con il 100% delle preferenze (era l’unico candidato), viene avvicinato da uno sconosciuto al parco della Bombilla, nella capitale, e ucciso a colpi di arma da fuoco. A sparare è un cristero di nome José de Leòn Toral, forse agente su mandato di una misteriosa suora, che verrà catturato e giustiziato di lì a breve.
Il baratro sembra alle porte. L’assassinio di Obregón ha galvanizzato ulteriormente la cristiada, l’esercito di Gorostieta è tanto vasto e professionale che da qualche tempo sta riuscendo a sconfiggere le truppe regolari messicane sul campo, come nella battaglia di Tepatitlán, i liberali sono spaventati dalla prospettiva di altri omicidi politici e, per la prima volta, si spaccano sulla questione cattolica.
Contravvenendo agli ordini di Calles, presidente-ombra, il capo di Stato ad interim Emilio Portes Gil avvia un tavolo negoziale con Dwight Whitney Morrow, ambasciatore degli Stati Uniti in Messico, e padre John Burke, presbitero americano agente su delega vaticana. Le trattative hanno esito positivo. Vengono firmati gli accordi, o los arreglos, che danno forma a una pace basata su diversi punti, tra i quali l’entrata in inattività permanente della legge Calles e la concessione della grazia ai cristeros.
Il 27 giugno 1929, dopo quasi due anni di silenzio, le chiese riaprono i loro portoni e le loro campane tornano a suonare. È l’inizio del ritorno della normalità, anche se la guerra si protrarrà in alcune regioni, a bassa intensità, fino al 1934. Sarà Lázaro Cárdenas, il “papà dei messicani”, a pacificare definitivamente il Paese, a riabilitare ufficialmente il cattolicesimo e a condannare gli autori della persecuzione. Calles, ad esempio, fu esiliato negli Stati Uniti con l’accusa di aver mosso una guerra alla cittadinanza e di aver creato uno Stato nello Stato, il cosiddetto maximato.
Cárdenas ereditò un Paese allo stremo, profondamente diviso ed economicamente lacerato da due guerre civili. La cristiada, a conti fatti, avrebbe lasciato a terra 100-300 mila morti, reso impossibile la messa in diciassette stati per assenza di clero (334 sacerdoti operanti nel 1935, contro i 4.500 del 1926) e provocato un’ondata migratoria negli Stati Uniti che, si stima, avrebbe coinvolto il 5% dell’intera popolazione messicana.
Parlare pubblicamente della cristiada è stato un tabù fino all’arrivo del Duemila, quando a squarciare il velo dell’omertà è stato il presidente Vicente Fox, in carica dal 2000 al 2006, e quando sono arrivate le prime canonizzazioni dei “santi della guerra cristera” da parte dell’allora pontefice Giovanni Paolo II. Il 16 ottobre 2016, infine, è giunta la canonizzazione più attesa dalla popolazione messicana: quella del piccolo José Luis Sánchez del Río. A perenne memoria di ciò che fu, affinché non riaccada di nuovo.