Con la sua morte è diventato uno shahid, ovvero un martire. Il martirio, soprattutto per i musulmani sciiti, rappresenta ben più di un simbolo. È un emblema sociale, religioso e sacro. Così, il decesso del potente generale Qassem Soleimani, avvenuto il 3 gennaio 2020 e causato da un attacco americano nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, in Iraq, ha assunto diversi significati. Quello messianico, per i tanti iraniani che per quattro giorni di lutto piangono la scomparsa di uno dei più brillanti ed efficaci strateghi militari che la Repubblica islamica abbia mai avuto. E quello politico, che assume i tratti di un epilogo inevitabile, che da almeno due anni ha fatto salire la tensione tra gli Stati Uniti e Iran. Perché prima di Donald Trump, nessun presidente americano aveva osato un’azione così roboante – tanto audace quanto rischiosa – verso un Paese considerato nemico dell’America ma con cui l’America, almeno formalmente, non è in guerra. Prima di Trump, l’ipotesi di un’eliminazione così spettacolare era stata esclusa per il timore di esacerbare una tensione internazionale già alta, che nella regione (e non solo) avrebbe potuto costituire una minaccia concreta alla pace. Il governo iraniano ha definito l’operazione ordinata da Trump un vero e proprio “atto di guerra” e ha, ovviamente, minacciato ritorsioni.
Soleimani, capo delle forze al Quds, il corpo speciale delle Guardie rivoluzionarie iraniane, incaricato di compiere operazioni all’estero, non è stato soltanto un capo militare di primissimo piano, ma anche il custode di informazioni di intelligence riguardanti operazioni svolte (spesso in segreto) fuori dal territorio iraniano. Oggi, il generale nato a Rabor resta una figura chiave per il Paese: braccio destro della Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, per molti, quando era in vita rappresentava una personalità di spicco che, per rilevanza politica e militare, superava persino quella del presidente eletto Hassan Rouhani, dal temperamento pubblico sicuramente più mite, politicamente meno conservatore e più incline al dialogo e alla diplomazia.
Ma per comprendere come si è arrivati alla morte del generale Soleimani è necessario analizzare i rapporti tra Iran e Stati Uniti che, dal 2015 in poi, hanno mutato il loro aspetto e la loro sostanza più di una volta.
Nell’aprile del 2015, a Losanna, in Svizzera, era stato annunciata la prima bozza di un accordo che si sarebbe poi concretizzato nel luglio successivo. In quella circostanza, era stata presentata una serie di parametri generali sul nucleare iraniano tra i rappresentanti della Repubblica islamica e quelli dei Paesi del cosiddetto “5+1”, ovvero i cinque stati che hanno il potere di veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, cioè gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito, la Russia e la Cina, insieme alla Germania. Tra i parametri decisi a Losanna e siglati nell’estate dello stesso anno, era prevista una significativa riduzione della capacità dell’Iran di arricchire l’uranio e, di conseguenza, la rimozione delle sanzioni internazionali imposte sull’economia del Paese. L’accordo era stato raggiunto a Vienna, in Austria, il 14 luglio del 2015 e, una volta approvato, aveva preso il nome di Piano d’azione congiunto globale, il cui acronimo è PACG o JCPOA. Tutti, però, hanno imparato a conoscerlo semplicemente come “accordo sul nucleare iraniano”, una formula storica sul piano internazionale, che sembrava avere attenuato le tensioni tra Stati Uniti e Iran. Oltre ai 5 Paesi +1, aveva preso parte all’accordo anche l’Unione europea. Ma, prima di arrivare all’approvazione dell’estate del 2015, occorre ricordare che i negoziati del piano d’azione congiunto globale sul programma nucleare iraniano erano iniziati nel 2013, con l’adozione del “Piano d’azione congiunto”, cioè un accordo provvisorio, firmato nel novembre di quell’anno tra l’Iran e i Paesi del 5+1, quando i leader dei due principali stati coinvolti erano Barack Obama e Hassan Rouhani. Nel corso dei venti mesi successivi, l’Iran e gli stati del 5+1 avevano proseguito le trattative fino a raggiungere l’accordo di Losanna.
In base a quanto stabilito nel trattato approvato nel 2015, l’Iran accettava di ridurre le sue riserve di uranio a medio arricchimento, di tagliare del 98% le riserve di uranio a basso arricchimento e di ridurre di due terzi le sue centrifughe a gas per 13 anni. Secondo il patto, poi, la Repubblica islamica avrebbe potuto arricchire l’uranio soltanto al 3,67% e concordava di non costruire alcun nuovo reattore nucleare ad acqua pesante per lo stesso lasso di tempo. Inoltre, le attività di arricchimento dell’uranio avrebbero dovuto essere limitate a un singolo impianto, utilizzando centrifughe di prima generazione per circa dieci anni. Secondo i patti, altre apparecchiature, poi, avrebbero dovuto essere convertite per evitare il rischio di proliferazione nucleare. Per monitorare e verificare il rispetto di questo accordo da parte dell’Iran, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica si impegnava a verificare che Teheran rispettasse gli accordi. Il punto centrale di questo patto prevedeva che la Repubblica islamica, in cambio del rispetto degli impegni presi, ottenesse la cessazione delle sanzioni economiche imposte da Stati Uniti, Unione europea e Consiglio di sicurezza Onu, emanate con la risoluzione 1747, proprio a causa del suo programma nucleare.
A dare un peso particolare alla riuscita di quel trattato, era stata la svolta storica che quel patto aveva rappresentato. Per tutte le nazioni coinvolte. I Paesi occidentali, i loro alleati e Israele, da sempre, avevano sostenuto (e temuto) che la Repubblica islamica volesse sviluppare un’arma nucleare molto potente. Teheran ha sempre negato di aver avviato un programma di quel tipo, ma per molti aveva mantenuto nel corso del tempo un atteggiamento ambiguo (soprattutto durante la presidenza dell’incendiario Mahmoud Ahmadinejad), rifiutando, per esempio, i controlli degli ispettori internazionali sui suoi territori. La risoluzione del 2015 era stata accolta positivamente dalla gran parte delle potenze, tranne dai due nemici giurati della Repubblica islamica in Medio Oriente, ovvero Israele e l’Arabia Saudita. In sostanza, l’accordo era stato voluto e firmato da Obama sulla base di uno scambio molto semplice: con la riduzione della capacità di arricchire l’uranio da parte della Repubblica islamica, privandosi della possibilità di costruire la bomba nucleare, gli Stati Uniti e gli altri Paesi firmatari avrebbero rimosso le disposizioni che rallentavano la sua economia. Ma l’elezione (inaspettata) di Donald Trump alla Casa Bianca nel novembre 2016 ha cambiato tutto, soprattutto in tema di politica estera.
Già durante la sua campagna elettorale, nel 2016, Trump aveva espresso il suo parere fortemente negativo rispetto all’accordo siglato un anno prima dal suo predecessore. Insieme a una parte consistente dei conservatori americani, l’ex tycoon riteneva che il patto non fosse abbastanza favorevole agli Stati Uniti e che la rimozione delle sanzioni avrebbe soltanto rafforzato Teheran (che, in quel modo, secondo la visione di Trump, avrebbe avuto più denaro da investire nei suoi programmi missilistici e nelle sue campagne di aggressione in altri Paesi del Medio Oriente). Una volta eletto presidente, Trump non ha mai nascosto la sua aperta ostilità nei confronti della Repubblica islamica. Così il presidente americano ha alzato i toni e si è scontrato apertamente più con la Guida suprema che con Rouhani (che all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 2017, la prima di Trump, aveva mantenuto argomentazioni più pacate rispetto al suo omologo americano).
La decisione ufficiale di Trump di abbandonare il patto siglato nel 2015 è arrivata l’8 maggio 2018, quando il presidente ha annunciato l’uscita degli Stati Uniti da un negoziato molto delicato, durato circa 12 anni. In base a quanto riporta uno studio condotto dall’Ispi, la scelta del capo della Casa Bianca sarebbe stata guidata dalla politica che ne ha contraddistinto tutta la sua campagna elettorale, cioè quella dell’America First, secondo la quale le decisioni degli Stati Uniti vengono prese esclusivamente in base a motivazioni di interesse nazionale, senza tenere conto né di impegni assunti in precedenza con gli alleati, né di considerazioni di sicurezza collettiva. In base a quanto riporta il Post, nel giorno in cui Trump ha annunciato l’uscita dell’America dal patto, l’Iran non aveva compiuto alcuna violazione consistente dei termini del trattato. Il primo a “violare” l’accordo era stato proprio il presidente americano che, tempo prima, aveva deciso di reintrodurre unilateralmente le sanzioni tolte nel 2015. La scelta americana di lasciare il patto, nei mesi successivi ha avviato una crisi importante nelle relazioni tra le due potenze. Ma non solo. L’Unione europea, in particolare, che nel 2015 aveva contribuito alla negoziazione dell’accordo e che a partire dal 2016 aveva instaurato con l’Iran un dialogo importante e su più livelli, aveva espressamente manifestato il proprio disappunto per la decisione dell’ex tycoon e si era così impegnata a mettere a punto strumenti e misure in grado di aggirare (in parte) le sanzioni americane e salvaguardare le già precarie relazioni economiche e commerciali con la Repubblica islamica. La sopravvivenza del legame economico era la condizione posta da Teheran a Bruxelles per continuare a rimanere parte dell’accordo, nonostante l’inadempienza americana.
Nel discorso pronunciato da Trump alla Casa Bianca, contestualmente alla firma del memorandum presidenziale che ufficializzava l’uscita dellìAmerica dall’accordo, l’ex tycoon aveva reiterato le accuse all’Iran di essere il principale sponsor statuale del terrorismo e di agire solo con lo scopo di destabilizzare l’equilibrio sociale in Medio Oriente. Nella stessa circostanza, Trump annunciava la reintroduzione delle sanzioni verso Teheran e dopo il suo discorso, Mike Pompeo delineava la nuova strategia statunitense nei confronti dell’Iran e gli obiettivi americani: porre fine alle attività di destabilizzazione regionale del regime teocratico di Teheran, impedire che potesse continuare a finanziare gruppi terroristici, vietare che si potesse dotare di missili e altri sistemi di armamento e, infine, proibire ogni accesso alla tecnologia per lo sviluppo dell’arma nucleare. Al momento dell’uscita, era parso subito chiaro che le motivazioni addotte dall’amministrazione Trump per giustificare la propria decisione non erano legate a reali difficoltà nell’implementazione dell’accordo. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica, infatti, aveva verificato l’effettivo mantenimento delle promesse da parte di Teheran. In base a quanto riportato dallo studio Ispi, a determinare la decisione di Trump di lasciare il patto sembrava essere stata piuttosto la volontà da parte dell’amministrazione di dare attuazione a una linea di politica estera che individuasse nell’Iran il nemico numero uno, la principale minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati in Medio Oriente. L’idea dell’amministrazione repubblicana sembrava essere quella di chiedere all’Iran di abbandonare il proprio programma missilistico, di ritirare il proprio sostegno ad alcuni movimenti filo-iraniani presenti in altre aree della regione (in particolare Hezbollah, in Libano) e di accettare un accordo che, a differenza di quello siglato nel 2015, prevedesse diverse scadenze temporali.
L’approccio unilaterale da parte di Washington è stato (ed è rimasto) una delle cause principali della crisi tra i due Paesi dal secondo dopoguerra a oggi. Anche perché la reintroduzione delle sanzioni americane, subito dopo l’abbandono del patto, aveva iniziato ad avere conseguenze dirette sull’economia iraniana, in particolare rendendo più difficile la vendita del petrolio. Nell’immediato, la scelta di Trump, che spingeva per il massimo isolamento del Paese, era sembrata la più corretta dal punto di vista americano. La destabilizzazione più grande che aveva seguito la decisione di Trump si era concretizzata, infatti, direttamente nella politica iraniana: l’uscita degli Stati Uniti aveva indebolito la parte di regime che aveva negoziato e voluto l’accordo, ovvero la fazione più moderata e meno conservatrice (quella del presidente Rouhani), favorendo i conservatori (tra cui Khamenei e le Guardie rivoluzionarie, il corpo militare guidato da Soleimani), contrari a scendere a patti con l’Occidente e con gli americani.
Con il rafforzamento dell’area più conservatrice iraniana, la speranza di rinegoziare un trattato e un cambio ai vertici della teocrazia si erano trasformate in ipotesi praticamente impossibili. Secondo quanto riportato da Il Post, a partire dall’estate del 2019, le Guardie rivoluzionarie iraniane avevano iniziato a compiere diversi attacchi contro petroliere straniere nel Golfo Persico e, in particolare, nello Stretto di Hormuz, il tratto di mare che divide il Golfo persico da quello dell’Oman. In quelle circostanze, erano state sequestrate navi ed equipaggi e, per la prima volta, veniva violato l’accordo sul nucleare del 2015 e veniva abbattuto un drone americano. Il 20 giugno 2019, in risposta a quell’azione, Trump aveva annunciato di aver approvato e poi annullato un’operazione militare contro la Repubblica islamica.
Un altro terreno di scontro (militare e politico) tra Iran e Stati Uniti è rappresentato dalla Siria, dove l’America aveva mantenuto un piccolo contingente militare con il fine di assicurarsi la definitiva sconfitta dello Stato islamico e di frenare la crescente (e indisturbata) presenza iraniana nel Paese, garantita proprio dalle Guardia rivoluzionarie e dalle milizie guidate da Soleimani (che in Siria entrava e usciva di continuo). La principale preoccupazione statunitense era quella che Teheran avesse l’intenzione di creare un corridoio sciita tra la Repubblica islamica e la parte meridionale del Libano, passando da Iraq e Siria. Se il progetto fosse stato portato a compimento, l’influenza nella regione avrebbe potuto cambiare gli assetti geopolitici della zona. Poi c’è stato l’annuncio del ritiro americano dal Medio Oriente, ritrattato in svariate circostanze dal presidente Trump stesso.
In molti, nelle ore successive all’attacco, si sono chiesti quali fossero le vere motivazioni legate al tempismo in cui il capo della Casa Bianca abbia ordinato di uccidere proprio adesso il generale Soleimani. In un primo momento, le ragioni sembravano essere legate a presunti attacchi contro obiettivi americani in Libano e in Iraq. Secondo quanto riportato dalla stampa statunitense, la decisione di intervenire e colpire Soleimani sarebbe stata presa da Trump la settimana prima del lancio del drone, dopo l’uccisione di un contractor americano in una base militare irachena, durante un bombardamento compiuto dalla milizia filo-iraniana Kataib Hezbollah, mentre non è ancora stato chiarito che ruolo abbia avuto l’assedio all’ambasciata americana a Baghdad compiuto nei giorni scorsi da gruppi sciiti, sempre filo-iraniani. Ma l’ipotesi più diffusa attribuisce la causa della morte di Soleimani alla frustrata situazione tra i due Paesi. Un epilogo considerato quasi inevitabile, anche se inaspettato, perché il decesso di Soleimani per l’Iran rappresenta necessariamente un punto di svolta.
Ciò che, invece, non è ancora stato chiarito sono le intenzioni dei due Paesi sulle prossime mosse. Nessuno sa con certezza se l’Iran abbia davvero intenzione di rispondere all’attacco di Trump con un conflitto concreto e sicuramente violento nella zona. Né esiste la certezza che il presidente americano non abbia sottovalutato l’operazione. Di certo, per ora, c’è il simbolo di una morte che nel Paese e nell’intera area lascerà sicuramente il segno. Nei quattro giorni di esequie pubbliche, celebrate in onore del generale che, per 22 anni, è stato comandante delle forze al Quds, il fiore all’occhiello delle truppe d’élite (con sede nell’ex ambasciata americana a Teheran), la partecipazione è considerata inferiore soltanto a quella dei funerali del fondatore della Repubblica islamica, l’ayatollah Ruhollah Khomeini, nel 1989.
Secondo un’analisi di Guido Olimpio per il Corriere della Sera, fonti iraniane citate dal New York Times sembrerebbero confermare un giudizio condiviso dagli esperti. Khamenei vorrebbe rispondere in maniera netta all’azione degli Stati Uniti e, quindi, non vorrebbe affidarla a fazione amiche, ma firmare un’operazione militare come Paese. Prima di tutto, per ragioni di prestigio. Sui tempi, invece, non ci sarebbe ancora un’idea chiara: nello stato a maggioranza sciita, infatti, vige un periodo di lutto da osservare, utile a evitare mosse avventate e a logorare (con l’attesa) l’America.
A salutare Soleimani, infatti, non resteranno soltanto le (rare) lacrime di Khamenei, ma anche le bandiere e gli slogan che affollano le strade. Fotografie, bandiere, disegni e ritratti del generale che ammantano ogni angolo del Paese. Da Teheran a Isfahan, fino a Qom, la città santa dove, nei giorni scorsi, sul minareto della moschea di Jamkaran, una preghiera incessante ha accompagnato l’innalzamento della bandiera con il suo volto. E, infine, l’emblematica illustrazione di Soleimani, che raffigura il suo arrivo in paradiso, accolto da Hussein, il nipote di Maometto ucciso nel massacro di Kerbala, simbolo dell’islam sciita, e dai padri della Repubblica islamica. Che, sorridendo, lo accolgono.