I Janjaweed sono una milizia formata soprattutto da membri di etnie arabe e arabofone residenti in Darfur, regione storica occidentale del Sudan. Il loro nome diventa tristemente famoso negli anni 2000, quando i combattenti si rendono protagonisti di abusi, omicidi di massa e, secondo il governo Usa, anche di un vero e proprio genocidio contro le etnie africane del Darfur. Tra i vari capi milizia, uno risulta agli arresti in quanto ricercato dalla Corte Penale Internazionale: si tratta di Ali Kushayb. Uno dei fondatori invece, Musa Hilal, è di nuovo da poco libero in Sudan dopo l’arresto nel 2017. Un altro capo discusso, Hemeti, è invece a capo di una delle più importanti forze paramilitari sudanesi.
Per comprendere l’origine della milizia Janjaweed occorre tener conto del contesto storico del Darfur. La regione fino agli inizi del XX secolo è di fatto autonoma, erede del Sultanato del Darfur retto da sempre da etnie africane. Tra queste spicca quella dei Fur, la quale dà il nome alla regione, dei Zaghawa e dei Masalit. Una volta accorpato dai britannici al Sudan nel 1916, il Darfur si ritrova quindi a essere una zona a maggioranza africana in un Paese a maggioranza araba. Anche se le popolazioni africane e arabofone condividono l’appartenenza alla religione musulmana, tra le parti iniziano a esserci tensioni.
Anche perché se i Fur sono agricoltori sedentari, le etnie arabofone stanziate nel Darfur sono formate da pastori di cammelli e di bestiame nomadi. Tra queste popolazioni si distinguono soprattutto le etnie dei Baggara e degli Abbala. Nel dopoguerra si creano quindi problemi relativi al controllo delle terre e delle risorse idriche. Le recriminazioni però hanno anche natura politica. Le popolazioni africane del Darfur avvertono spesso una certa emarginazione da parte del governo centrale di Khartoum. Si formano quindi organizzazioni il cui obiettivo è la tutela degli interessi delle tribù del Dafur. A queste si contrappongono alleanze di tribù arabofone che rivendicano diritti sulle terre per il proprio bestiame.
Le tensioni diventano aspre tra gli anni ’60 e ’80. Sul finire degli anni ’80 gli arabi si coalizzano all’interno del cosiddetto “Arab Ghatering”, un’ampia alleanza politica e militare tra le varie tribù arabofone della zona. Secondo lo studioso Luca Pierantoni, è da questa formazione, pur non coinvolta inizialmente in episodi di violenza, che ha poi preso piede la milizia Janjaweed.
Non c’è una data precisa in cui viene annunciata la fondazione dei Janjaweed. Intorno al 1988 si notano in Darfur alcuni gruppi arabofoni in grado di seminare paura nei villaggi Fur. Si tratta di combattenti animati dall’astio contro le popolazioni africane. Al termine della guerra tra Ciad e Libia nel 1988 si usa per la prima volta il termine Janjaweed. Proviene dall’unione delle parole arabe Jinn (demone) e Alawid (cavallo) e indica dunque “demone a cavallo”. Un riferimento alle loro più tristemente note modalità di incursione nei villaggi, effettuate con miliziani armati a cavallo.
Si parla di Janjaweed con la fine del conflitto tra Libia e Ciad in quanto, dopo la vittoria ciadiana, uno degli alleati di Gheddafi, Acheikh Ibn-Oumar, ripara nel confinante Sudan e viene accolto in Darfur dallo sceicco Musa Hilal. Quest’ultimo è il capo della tribù Rizeigat, una delle più importanti tra i Baggara. Hilal, secondo diversi rapporti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali, ha spesso incitato alla rivolta contro le popolazioni africane del Darfur. È quindi lui, anche grazie al contrabbando di armi dal Ciad, ad iniziare ad armare i miliziani a cavallo.
Le milizie imperversano nel Darfur lungo tutto il decennio successivo. Gli scontri riguardano soprattutto il possesso delle terre per il pascolo e il controllo delle risorse idriche. A testimonianza delle violenze perpetuate dai Janjaweed c’è anche l’arresto di Musa Hilal, trasferito nel carcere di Port Said. Il governo guidato da Omar Al Bashir però, come denunciato in un rapporto di Human Rights Watch, complessivamente tollera il gruppo.
Questo per due motivi. Da un lato c’è l’interesse di Khartoum di tenere a bada i gruppi ribelli Fur mentre, dall’altro lato, fomentare dispute etniche e tribali permette all’esercito di controllare meglio la situazione, seguendo la strategia del “Dividi et Impera”.
Ma a partire dal febbraio del 2003, i due principali gruppi di combattenti nel Darfur iniziano ad alzare il tiro. Da un lato il Justice and Equality Moviment (Jem) e dall’altro l’Esercito di Liberazione del Sudan (Sla) compiono diverse azioni nei confronti delle forze governative presenti nel Darfur. Particolarmente importante è l’assalto alla città di El Fashir, capitale del Darfur settentrionale, avvenuto il 25 aprile 2003.
Dopo questo episodio, Bashir fa passare la linea dura da parte del suo governo. Ma in quel momento l’esercito non ha mezzi ed effettivi tali da avviare una battaglia nella regione. Infatti il Sudan nel 2003 è ancora impegnato anche nella guerra civile nel sud del Paese, formata da regioni a maggioranza cristiana.
Decide così di affidarsi ai Janjaweed. Non è un caso che Musa Hilal venga liberato proprio nell’aprile del 2003. La milizia ottiene appoggio, soldi e armi da parte del governo. Inizia una campagna spietata contro le forze rivali nel Darfur. Ma in realtà a essere presi di mira non sono i combattenti di Jem e Sla. La furia viene scatenata soprattutto contro i civili. Il piano dei Janjaweed è tanto semplice quanto agghiacciante: far sparire le etnie africane da aree molto vaste della regione. Una pulizia etnica in piena regola, tanto che nel 2004 l’allora segretario Onu Kofi Annan paragona la situazione nel Darfur a quella del Ruanda nel 1994 e a quella dell’ex Jugoslavia degli anni ’90.
La guerra nel Darfur va avanti in due fasi. La prima è inquadrabile tra il 2003 e il 2006, terminata con gli accordi tra il governo e una parte dello Sla. La seconda invece tra l’estate 2006 e il 2009. Sei anni dove sarebbero morte almeno 400.000 persone e due milioni di profughi sono costretti a lasciare le proprie case.
Le prime accuse di genocidio contro i Janjaweed arrivano nel 2004. L’8 aprile di quell’anno viene siglato un primo cessate il fuoco tra le parti. Osservatori Onu riescono ad entrare nel Darfur e annotano una situazione molto grave. In un rapporto del 25 aprile 2004 i membri delle Nazioni Unite parlano della devastazione di numerosi villaggi Fur, rasi al suolo e senza più persone al loro interno. Contestualmente, diversi villaggi abitati da arabi appaiono invece risparmiati dalla furia delle milizie. È il segno di una vasta opera omicida perpetuata dai Janjaweed.
Il termine genocidio però viene usato solo dal congresso Usa nel 2006. Le Nazioni Unite, pur parlando di crimini contro l’umanità, non attribuiscono ai Janjaweed un vero e proprio genocidio. Le accuse sono però molto gravi. Nel 2007 parte un’inchiesta da parte della Corte Penale Internazionale. Sotto accusa il ministro sudanese per gli affari umanitari, Ahmed Haroun, e il comandante Janjaweed Ali Kushayb. Poco più tardi anche il presidente Omar Al Bashir risulta tra gli indagati.
Difficile ancora oggi capire il rapporto tra i Janjaweed e il governo sudanese. In un’intervista rilasciata a Human Rights Watch nel 2004, Musa Hilal si dichiara un semplice “coordinatore” ma non un capo militare. Nega quindi ogni ruolo nell’addestramento e nel comando dei Janjaweed, compiti invece spettanti all’esercito regolare. Alcune testimonianze però affermano il contrario. Ancora oggi i diversi ruoli avuti in questa fase cruenta della guerra del Darfur appaiono incerti. Di sicuro c’è soltanto l’esistenza di un collegamento tra i miliziani e il governo.
I Janjaweed non sembrano avere comunque un unico leader e coordinatore. Al contrario, secondo anche una testimonianza resa da un leader tribale arabofono dichiaratosi neutrale nel conflitto, ci sarebbero diversi gruppi corrispondenti grossomodo alle divisioni in tribù e clan delle etnie arabofone coinvolte. Il gruppo di Musa Hilal sarebbe quello maggiormente responsabile delle violenze. È probabile che diverse milizie interne ai Janjaweed siano coordinate con ufficiali dell’esercito presenti nella regione. Esiste una lista del dipartimento di Stato Usa stilata nel 2007 in cui vengono fatti i nomi dei principali personaggi legati ai Janjaweed.
A partire dal 2007 l’Onu invia sul campo almeno ventimila caschi blu. Le violenze iniziano ad attenuarsi, anche se la situazione rimane critica e migliaia di profughi devono lasciare il Darfur. Le Nazioni Unite il 27 agosto 2009 dichiarano ufficialmente conclusa la guerra. Ma la milizia Janjaweed non viene smantellata. In parte è assorbita all’interno dell’esercito, in parte è posta sotto l’ala dei servizi segreti.
Musa Hilal per un certo periodo diventa anche consulente del ministero dell’Interno, a conferma degli stretti rapporti tra i miliziani e il governo. Ma si assiste anche alla scalata di Mohamed Hamdan Dagolo, detto Hemmeti. Nel 2007 arriva a far ammutinare un gruppo di miliziani Janjaweed sotto il suo comando. Questo per via del mancato pagamento degli stipendi promessi da Khartoum. Da quel momento in poi acquisisce molta popolarità tra i combattenti, ma anche in ambito governativo. Viene considerato come un potenziale leader militare su cui poter avere fiducia in caso di ulteriore destabilizzazione della situazione.
Si entra in una fase di scontro interno tra Hilal ed Hemmeti. Il primo, divenuto nel frattempo anche responsabile dell’amministrazione del Darfur settentrionale, viene arrestato nel 2017. Segno di come il duello tra i due principali capi degli ex Janjaweed viene vinto da Hemmeti. Nella regione comunque, anche dopo la guerra, si continua a morire. Tra il 2013 e il 2014 vengono segnalati più di 3.300 villaggi Fur dati alle fiamme.
Che la situazione in Sudan sia tutt’altro che pacifica lo dimostra anche il via libera, da parte del presidente Bashir, alla nuova Forza di Supporto Rapido (Rsf). Al vertice viene messo proprio Hemeti. Di fatto adesso molti miliziani Janjaweed hanno una divisa e continuano a imperversare nel Paese. Non solo nel Darfur, ma anche in altre regioni dove si registrano tensioni con il governo centrale.
L’unico capo Janjaweed oggi preso in custodia è Ali Kushayb, arrestato nel 2020 nella Repubblica Centrafricana. Tutti gli altri, oltre ad essere liberi, sono sempre più al timone del Sudan. Dopo l’arresto di Hilal nel 2017, Hemeti riesce ad occupare con le sue Rsf una vasta porzione di territorio nel Darfur Settentrionale dove insistono le più grandi miniere di oro. In tal modo il comandante si appropria della principale fonte economica del Sudan.
Secondo Alex de Waal, uno dei principali studiosi di Sudan, le Rsf di Hemeti costituiscono un “ibrido di milizia etnica e capacità di fare impresa”. Lo stesso leader della forza paramilitare ha una società assieme al fratello con la quale controlla molti affari nel Paese. Dai proventi della vendita dell’oro, fino alle concessioni minerarie. Sempre secondo de Waal, Hemeti ha oramai il controllo di buona parte dell’economia sudanese.
Circostanza che coincide con una grande influenza politica. Nell’aprile del 2019 è il suo consenso all’azione dell’esercito a consentire la buona riuscita del colpo di Stato che rovescia Bashir. Successivamente diventa numero due del consiglio transitorio. Il 3 giugno le sue Rsf sono considerate responsabili della repressione contro i manifestanti, costata la vita a 100 persone a Khartoum. Lui nega e parla anzi di un’indagine indipendente che mostra la sua innocenza e che, al contrario, prova la responsabilità di militari desiderosi di macchiare la sua immagine.
Ma, a prescindere da questi episodi, la presa di Hemmeti sul Sudan è evidente. Nel secondo golpe del 2021 il suo ruolo è importante e gli analisti lo presentano come uno dei veri nuovi leader del Paese africano.
Sempre nel 2021 arriva la grazia per Musa Hilal. Oramai lo sceicco è libero e non deve pagare più nulla alla giustizia. In definitiva, i Janjaweed nonostante i gravi crimini di cui sono accusati, oggi sotto altre vesti non solo non sono stati processati ma di fatto sono diventati uno dei gruppi più influenti del Sudan.