Oggi le guerre non sono più fra Stati, ma contro entità indefinite. Sono grandi macchie che si muovono, che travalicano i confini. Ideologie e crimine più che eserciti e territori, dove lo Stato come entità è più che mai minacciato o del tutto assente.
Questa assenza di entità geografiche distinte, rende impossibile parlare di guerra in singoli Stati. Parlare di guerra in Siria mentre il confine con l’Iraq segue una linea desertica e priva di controllo, è impossibile. Così come parlare di Afghanistan come Stato definito dalle carte geografiche è di per sé esercizio inutile.
Non si può parlare di Afghanistan senza Pakistan, di Siria, senza Iraq. Così come non si può più parlare di una guerra in un singolo Stato africano della fascia del Sahel quanto in realtà sono semplici linee sulla carta. Tracciati nel deserto, che scompaiono, come sabbia nel vento.
Le guerre del nostro tempo hanno completamente destrutturato i confini nati nello scorso secolo. Quei simboli di sicurezza, di Stato, di autorità definita su un territorio, sono stati spazzati via da qualcosa di molto più complesso. E quelle tre aree del mondo, rappresentano perfettamente questo scenario.
La nascita dello Stato islamico avviene in Iraq. Nel carcere di Camp Bucca, dove sono detenuti criminali comuni, jihadisti e ribelli baathisti si crea il terreno fertile per il Califfato. Da qui, a macchia d’olio, le bandiere nere si avventano prima sull’Iraq, dove l’esercito si scioglie consegnando gli arsenali agli islamisti. Poi si unisce alle prime rivolte siriane fondendosi in un unico grande blocco che valica il confine con la Siria.
Daesh è il superamento ideologico dell’accordo di Sykes-Picot del 1916. Non si può più parlare di Siria e di Iraq: non c’è una guerra all’Isis con un limite territoriale. E oggi, la sacca di resistenza di Daesh, è proprio in quella zona d’ombra tra i due Paesi. Il Siraq appunto. Che non cancella le peculiarità dei singoli popoli, ma fa comprendere la porosità del Medio Oriente, dove il confine, nel deserto, viene valicato da fenomeni che distruggono lo Stato.
Come è appunto il sedicente Stato islamico, che si sostituisce alle due creazioni occidentali, per formare una massa nera fatta di ideologia, di fondamentalismo, di terrore, ma che non si riconosce nei territori statali creati con il righello. Un mostro che era perfettamente rappresentato da Abu Kamal, al centro perfetto tra i due Stati.
L’amministrazione americana, ai tempi di Barack Obama, coniò il termine Afpak per indicare l’area strategica di Afghanistan e Pakistan. La guerra, infinita e terribile, che l’Occidente ha voluto combattere in Afghanistan, non può essere letta senza comprendere il nesso logico con il Pakistan.
Il confine fra i due Paesi è più che poroso. I due Paesi, soprattutto con la lotta dei talebani, sono una stessa area strategica. Non c’è barriera che tenga, non c’è limite. Le etnie si fondono e così le lotte, i traffici e le armi. Il terrorismo islamico così come la guerriglia travalicano il confine. I droni americani hanno bombardato per anni il Pakistan. Osama bin Laden era lì, non nei monti dell’Afghanistan. E Islamabad influenza gran parte delle frange estreme che hanno insanguinato quella parte di mondo.
Quello che le potenze stanno facendo in quest’area, è proprio la ricerca di salvaguardare il concetto di confine. Perché il terrore si espande e si infrange sui limiti degli Stati. La Cina, in questo senso, è emblematica. Il muro fisico e giudiziario che sta creando nello Xinjiang serve proprio a evitare che il Khorasan si allarghi. Perché qui i Talebani non riconoscono l’autorità statale. Ma non la riconoscono neanche i miliziani dello Stato islamico, che sognano una provincia del Califfato che unisca Pakistan, Afghanistan, Asia centrale, India e parte della Cina dell’etnia uigura. Sono solo sogni? Sì, ma sogni che mietono vittime.
Non a caso anche l’India è entrata, con la spinta degli Stati Uniti, in questa lotta al terrorismo islamico. Donald Trump ha voluto fortemente un maggiore coinvolgimento indiano in Afghanistan. Per sfruttare la guerra con il Pakistan, ma anche come segno tangibile che è tutto, terribilmente, connesso. E c’è chi parla di Trump come creatore dell’Afpakindia.
Il Sahel è forse l’emblema di questa dissolvenza degli Stati. Di questa distruzione del confine come pensato nello scorso secolo per aree del mondo che non ne conoscevano l’esistenza.
Il “bordo del deserto”, questo il suo significato in arabo, è oggi preda di problemi enormi dove gli Stati sono semplici entità geografiche. Il terrorismo dilaga dove trova terreno fertile, unito da ideologie che non hanno niente a che vedere con l’identità nazionale. Dove esistono etnie autonomiste, esse si uniscono all’islamismo come forma di finanziamento (vedi i Tuareg). E le forze armate dei Paesi occidentali, si muovono fra Stati, non nel singolo Stato. Non esiste missione in Niger che non abbia un occhio sulla Mauritania, sul Mali o sul Ciad. L’operazione Barkane della Francia insegna.
È una fascia, non un gruppo di Stati. E in quest’area geografica, gli Stati semplicemente non esistono nel concreto, sfumano nel deserto o nelle grandi aree al principio della savana. Qui non c’è autorità nazionale, c’è altro. E quest’altro ha più valore di ogni governo. È il fallimento del mondo teorizzato dagli Imperi coloniali.