Lo Yemen è dove è scoppiato uno dei primi conflitti della Terza guerra mondiale a pezzi. Un conflitto che non è ancora terminato, che ha provocato oltre 15mila morti dal 2014 al 2022, e contrappone e coinvolge una costellazione eterogenea di potenze e attori nonstatuali.
In Yemen, più che per la bandiera da sventolare sugli edifici di Sanaa, si combatte per la penisola araba, il Mar Rosso e il Corno d’Africa. Sunniti contro sciiti. Americani contro russi. Terroristi islamisti contro tutti. E i rivoluzionari yemeniti, guidati da Abdul Malik al-Houthi, contro la coalizione internazionale a guida saudita.
Abdul-Malik Badruldeen al-Houthi nasce a Saada, Yemen settentrionale, il 22 maggio 1979 – sebbene altre fonti indichino il 1982 – all’interno di una famiglia numerosa – otto fratelli – della tribù houthi. Allevato allo zaydismo, una variante dello sciismo diffusa soltanto nello Yemen, al-Houthi cresce subendo l’influenza del padre Badreddin, religioso con un ampio seguito popolare e cofondatore del Partito della Verità, e del fratello Hussein, un parlamentare.
Gli al-Houthi erano dalla parte degli ultimi tra gli ultimi, non esitavano a criticare la presidenza Saleh e, sembra, avevano dei legami con l’Iran khomeinista e il suo braccio armato libanese, Hezbollah. La fondazione del Partito della Verità prima e di Ansar Allah dopo, in entrambi i casi per promuovere lo zaydismo e per limare l’autoritarismo del neonato Yemen, era la più eloquente espressione della vocazione politica e ribellistica di questa famiglia.
L’ultimo dei fratelli al-Houthi cresce assistendo ai tentativi del padre Badreddin di ritagliare degli spazi nel panorama politico yemenita per se stesso e i propri figli, in particolare il carismatico Hussein, e osservando la rinascita dello zaydismo, su impulso della propria famiglia, destinato a diventare una forza rivoluzionaria.
Durante la seconda metà degli anni Novanta, mentre Abdul-Malik è ancora ideologicamente in fasce, Ansar Allah sta sconvolgendo lo scenario politico, riportando la società allo zaydismo e sfidando l’autorità del presidente Ali Abdullah Saleh. La discesa in campo dell’ultimo degli al-Houthi, complice un doloroso lutto, sarebbe avvenuta di lì a breve.
Abdul-Malik entra ufficialmente in politica nel 2004, l’anno dell’inizio della rivolta di Ansar Allah contro la presidenza Saleh e dell’assassinio di suo fratello Hussein. Lo scenario dinanzi al quale si trova è dei più complicati: la famiglia è senza una guida, complice la dipartita prematura di Hussein e la malattia del padre Badreddin, e il governo sta aumentando la repressione sull’opposizione con il pretesto della Guerra al terrore dell’amministrazione Bush.
Sostituire Hussein non è facile, ma Abdul-Malik riesce nell’ardua missione e a trasformare progressivamente la ribellione di Ansar Allah in una guerra civile. Gli scontri si estendono dallo Yemen settentrionale all’intero paese. Gli Houthi fanno proseliti nelle forze armate. Lo stato sociale parallelo costruito negli anni da Ansar Allah si rivela fondamentale nel persuadere gli indigenti – che compongono la maggior parte della popolazione – a parteggiare per Abdul-Malik.
Abdul-Malik, entro il 2009, è il nemico pubblico numero della presidenza Saleh. Vittima di piani omicidi e di cacce all’uomo, sul suo fato è un continuo susseguirsi di indiscrezioni. Quando viene dato per ferito, quando viene dato per morto. Ma Abdul-Malik è vivo e vegeto, si nasconde in quella fortezza che è lo Yemen settentrionale e la sua resistenza riaccende inevitabilmente l’interesse per la questione yemenita di un antico amico: l’Iran.
Nel 2011, all’acme della primavera di rivolte contro gli antichi regimi che sta investendo il mondo arabo, Abdul-Malik cavalca con successo l’arrivo del vento della ribellione in tutto lo Yemen. Per un momento, la causa di Ansar Allah diventa la causa di tutti gli yemeniti. È rivoluzione. Il presidente Saleh rassegna le dimissioni. Ma dietro l’angolo, contrariamente ai pronostici più rosei, si cela un’epoca di instabilità.
A fine 2011, a guerra civile vera e propria all’orizzonte, Ansar Allah è in controllo di due governatorati, sta combattendo per il terzo e sta avviando i preparativi per l’assedio di Sanaa, la capitale. Ma la conquista del potere si rivelerà più ardua del previsto a causa dell’ingresso di attori come l’Arabia Saudita, preoccupata dallo scenario di una “provincia iraniana” sotto i propri occhi, e Al-Qāʿida, sbarcata nello Yemen per nutrirsi del caos, fare proseliti e perseguire obiettivi geostrategici.
Nonostante l’aggravarsi della situazione, il nuovo presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi apre un canale di comunicazione con Abdul-Malik. Obiettivo: raggiungere un compromesso con gli aspiranti rivoluzionari, pacificare il paese e ripulirlo dal terrorismo. Ma i negoziati non vanno a buon fine: Abdul-Malik chiede maggior potere politico, che Hadi non vuole (o non può) concedere. E tra il 20 e il 22 gennaio 2015 scoppia la crisi.
Il 20 gennaio Abdul-Malik si pone a capo di un commando di fedelissimi che prende possesso del palazzo presidenziale, mentre Hadi si trova al suo interno. Il 22 Hadi dichiara il fallimento delle trattative e si dimette. Il mese successivo la svolta (apparente): Abdul-Malik dissolve il parlamento e proclama la nascita del Comitato rivoluzionario. Una vittoria destinata a non durare, giacché in marzo una coalizione internazionale a guida saudita inizierà a bombardare lo Yemen allo scopo di rovesciare il neonato ordine.
Dopo il periodo di totale isolamento vissuto durante l’era Trump, coincidente con il massimo supporto degli Stati Uniti alla causa saudita, Abdul-Malik ha incontrato il favore della presidenza Biden. Ripresa del dialogo con Ansar Allah, appaltato alla diplomazia delle Nazioni Unite. Depennamento di Abdul-Malik dall’elenco dei terroristi globali – firmato da Mike Pompeo. Sullo sfondo, probabilmente, il ritorno alla strategia obamiana del dialogo con l’Iran.