L'inizio della guerra in Libia

A che punto è la guerra in Libia

La guerra in Libia è un conflitto iniziato nel 2011 a seguito dello scoppio della cosiddetta primavera araba. La prima fase della guerra in Libia è caratterizzata dal rovesciamento del governo guidato da Muammar Gheddafi, rais al potere per 42 anni il Paese. Successivamente, l’intera Libia cade nel baratro delle divisioni tribali e, da allora, non riesce a trovare stabilità e governi in grado di essere riconosciuti da tutte le parti in causa.

All’inizio del 2011 il mondo arabo è sconvolto da un’ondata di proteste in grado di mettere in discussione la sopravvivenza di governi e regimi apparentemente stabili. Si tratta della cosiddetta “primavera araba“. Il primo a cadere è il presidente tunisino Ben Alì. Subito dopo, nei primi giorni di febbraio, le proteste travolgono anche il presidente egiziano Mubarack, costretto a lasciare dopo più di 30 anni di governo.

Le manifestazione ben presto si allargano anche ad altri Paesi arabi: Yemen, Bahrein, Iraq, fino a giungere in Siria ma anche in Libia. Qui al governo vi è il rais Muammar Gheddafi, al potere dal 1969. Il Paese nordafricano fino a quel momento appare stabile, grazie anche agli ingenti introiti del petrolio che garantiscono un’economia molto forte. Il reddito pro capite dei libici è il secondo assoluto a livello continentale e il sistema di welfare abbraccia molti ambito della vita quotidiana.

La Libia con Gheddafi dal 1977 è governata dal sistema denominato “Jamahiriya”, che in arabo vuol dire “Repubblica delle Masse”. Si tratta di un articolato sistema amministrativo, dove non esiste una vera e propria costituzione e le leggi principali traggono spunto dal “Libro Verde”, l’opera scritta dallo stesso Gheddafi nel 1977 in cui si teorizza, tra le altre cose, una democrazia diretta. Il rais rinuncia in quell’anno ad ogni carica, dandosi l’appellativo di “Guardiano della Rivoluzione”. Nel febbraio 2011 però, l’onda lunga della primavera araba inizia a scuotere anche le dune del Sahara libico.

Il 16 febbraio a Bengasi un gruppo di giovani risponde a un appello lanciato su internet da diversi blogger per radunarsi contro l’arresto di un avvocato impegnato nella difesa delle vittime di Abu Salim. Si tratta del carcere dove nel 1996 diversi prigionieri perdono la vita. In quel 16 febbraio si registrano i primi scontri in strada. Il giorno la situazione degenera. Ancora oggi il 17 febbraio viene visto come giorno di inizio della protesta in Libia. Oltre Bengasi, diverse manifestazioni si hanno in altre città della Cirenaica come Al Beyda, Tobruck e Derna.

Gheddafi da queste parti non è molto popolare, né radicato come in Tripolitania. Negli anni ’90 l’est della Libia è attraversato da un’onda islamista repressa poi dal rais. Da quel momento il potere gheddafiano vede nell’Islam radicale un nemico. La repressione lascia il segno: quando la Cirenaica si infiamma, molti gruppi allora emarginati si uniscono alle proteste.

Per questo, ai blogger e ai giovani, nelle piazze si uniscono anche diversi gruppi tribali. Per loro è l’occasione unica per mettere in discussione il potere gheddafiano. Le tribù storicamente costituiscono un’ossatura molto importante della società libica. Le ragioni del clan familiare prevalgono su quelle di Stato e su quelle nazionali. Lo stesso Gheddafi nel suo libro verde dedica al valore della tribù un intero capitolo. E la pax garantita durante i suoi 42 anni di potere, è figlia soprattutto della spartizione delle ricchezze del petrolio tra i vari gruppi tribali della Libia. I clan familiari della Cirenaica in tal senso, si sentono più penalizzati ed emarginati rispetto a quelli della Tripolitania. Ben presto quindi, la rivoluzione si trasforma in una resa dei conti tra tribù.

Molte di queste passano all’attacco in quei giorni di febbraio sfruttando la prima iniziale destabilizzazione del Paese. A Bengasi e nel resto della Cirenaica le rivolte, giorno dopo giorno, prendono una piega sempre più violenta. Sedi istituzionali e caserme in diverse città dell’est della Libia sono assaltate e saccheggiate, in più occasioni le forze di sicurezza devono abbandonare il campo. Il 21 febbraio una prima manifestazione è organizzata anche a Tripoli, ma epicentro delle rivolte è sempre la Cirenaica. In un discorso televisivo, Saif Al Islam Gheddafi, secondogenito del rais e suo potenziale erede, chiede a tutti di ritornare alla calma promettendo riforme.

Il 22 febbraio invece, a comparire in video è Muammar Gheddafi in persona. Nel suo discorso smentisce le voci che lo danno in fuga in Venezuela, diffuse dall’emittente del Qatar Al Jazeera. Gheddafi prepara quel video in tutti i minimi particolari. Nulla è lasciato al caso, a partire dal luogo in cui il video è registrato, ossia la caserma bombardata di Bab Al Azizia, raggiunta dai missili americani nel 1986 e davanti alla quale è eretta una statua raffigurante un pugno che tiene in mano un jet Usa.

Nelle sue parole ad emergere è l’ira per quello che definisce come un tentativo da parte delle potenze straniere di impadronirsi delle ricchezze della Libia: “Lotteremo casa per casa, vicolo per vicolo, città per città, persona per persona”, grida dall’interno delle macerie della caserma distrutta.

A livello internazionale intanto monta la pressione contro il rais. Questo soprattutto dopo le notizie, apparse su Al Jazeera e riprese da numerosi network televisivi, di presunti bombardamenti contro i manifestanti e fosse comuni dove vengono sepolte le persone uccise. Notizie che in un secondo momento si scopriranno false. Ma in quel mese di marzo del 2011 contribuiscono ad aumentare la pressione contro Gheddafi. Francia e Gran Bretagna in particolare, premono per un intervento militare volto a creare una no fly zone in tutta la Libia. Nel frattempo, sotto il profilo politico, la comunità internazionale riconosce quale governo della Libia quello retto dal cosiddetto Cnt, Comitato Nazionale di Transizione.

Il 17 marzo 2011 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adotta la risoluzione 1973, con la quale si autorizza l’imposizione di una no fly zone. Il 19 marzo aerei francesi ed inglesi attuano primi bombardamenti, pochi giorni dopo l’intervento viene posto sotto l’egida della Nato ed anche l’Italia, nonostante gli storici rapporti con la Libia di Gheddafi, ne prende parte.

Pur se ufficialmente l’intendo è quello di creare una zona con divieto di sorvolo, in realtà l’intervento dell’alleanza atlantica favorisce sul campo l’avanzata dei gruppi anti Gheddafi. Il conflitto ben presto s in uni trasforma in una guerra tra tribù. Una prima svolta arriva il 23 agosto, con l’esercito rimasto fedele al rais costretto a ritirarsi dalla capitale Tripoli. Diversi ribelli entrano quindi a Bab Al Azizia, decapitando i simboli del potere gheddafiano.

Dopo la caduta di Tripoli, Gheddafi batte in ritirata. Nel frattempo, il Cnt si organizza sotto il fronte politico con un governo guidato da Mahmoud Jibril. All’inizio di ottobre, l’unica roccaforte rimasta in mano ai gheddafiani è Sirte, città natale del rais. Il 20 ottobre le forze ribelli la circondano, mentre gli aerei della Nato bombardano la zona. All’interno di Sirte si trova lo stesso Muammar Gheddafi. Il rais compie forse un errore risultato nel tentativo di salvarsi la vita. Accende infatti un telefono satellitare per chiamare qualcuno in grado di portarlo in salvo via mare. Una chiamata forse, si dirà negli anni successivi, indirizzata verso Damasco. La telefonata è però intercettata ed il convoglio viene individuato e bombardato. A quel punto, Gheddafi prova a mettersi in salvo assieme al figlio Mutassim e ad altri fedelissimi all’interno di una canaletta.

Un gruppo di ribelli in avanzata verso Sirte individua il convoglio, riconoscendo anche Gheddafi. Le immagini successive alla sua cattura diventano tristemente famose in tutto il mondo. Il rais è malmenato e trascinato via sopra un pick up. Nella tarda mattinata di quel 20 ottobre, sul web vengono diffuse le immagini del suo corpo oramai privo di vita. Difficile ancora oggi dire se il rais viene ucciso a sangue freddo oppure se rimane vittima del linciaggio. Anche Mutassim viene assassinato, i loro corpi nei giorni successivi rimangono esposti all’interno di una cella frigorifera del mercato di Misurata. Il 23 ottobre le operazioni militari sono considerate concluse.

La morte di Gheddafi chiude la prima fase del conflitto, ma la stabilizzazione della Libia è ben lontana. Eppure, la comunità internazionale considera a un certo punto terminata la vicenda. A Tripoli si insedia un nuovo governo, guidato prima da Ali Tarhouni e successivamente, dal 24 novembre 2011, dal premier Abdel Rahim el-Kib. Compito di quest’ultimo è quello di organizzare le elezioni, previste per il mese di luglio dell’anno successivo.

In Libia però non mancano episodi di violenza. Senza un esercito e senza vere forze di Polizia, lo Stato è azzerato. Bande e tribù controllano i vari territori, il Paese diventa una vera e propria polveriera. In un contesto del genere il 7 luglio 2012 si tengono però le elezioni. Le consultazioni vedono l’avanzata delle formazioni vicine alla Fratellanza Musulmana ed alle posizioni più islamiste. Una circostanza quest’ultima che mette in allarme il fronte più laico e inizia a far intravedere una svolta molto più conservatrice nel Paese nordafricano.

Il parlamento eletto nomina a novembre del 2012 Ali Zeidan quale nuovo premier: compito principale del nuovo organo legislativo libico, è quello di scrivere una nuova costituzione nel giro di 18 mesi.

Ma l’ascesa delle posizioni più radicali non è soltanto legata alla sfera politica. In tutta la Libia iniziano infatti a prendere spazio i gruppi jihadisti, soprattutto in Cirenaica. A Bengasi l’11 settembre 2012, militanti islamisti cingono d’assedio il consolato Usa. Al suo interno in quel momento si trova, tra gli altri, l’ambasciatore a stelle e strisce in Libia, John Christopher Stevens. L’assalto per lui risulta fatale. I manifestanti appiccano un incendio e le fiamme non lasciano scampo al diplomatico, morto probabilmente poco dopo per intossicazione da monossido di carbonio.

A rivendicare l’attacco è il gruppo Ansar al Sharia, uno dei più pericolosi attivi a Bengasi. Ma è in tutto il Paese nordafricano che la pressione islamista aumenta e fa crescere il senso di insicurezza all’interno della popolazione.

All’inizio del 2014 ad irrompere sullo scenario libico è un ex generale prima fedelissimo di Muammar Gheddafi e, a partire dagli anni ’90, ritenuto invece suo oppositore. Si tratta di Khalifa Haftar, tra i più vicini al rais quando all’epoca della guerra in Ciad ma, dieci anni dopo, comparso nella lista dei suoi nemici. Sconfitto a Wadi Al Dum nel 1987, Haftar è rimasto in un campo di prigionia per tre anni. Per la sua liberazione sarebbe stato decisivo l’intervento delle forze armate Usa. Da quel momento, i rapporti tra Haftar e Gheddafi sono risultati deteriorati ed il generale è andato a vivere negli Stati Uniti.

Nel febbraio del 2014, Haftar si presenta alla guida di alcune milizie in seguito autoproclamatesi Libyan National Army. Il generale, in particolare, ha intenzione di costituire un vero e proprio esercito per provare a riunificare il Paese. Anche perché nel frattempo città importanti come Bengasi sono cadute in mano a milizie islamiste. Con i suoi uomini, Haftar minaccia di entrare a Tripoli e sciogliere il parlamento con la forza. Sotto la pressione delle milizie di Zintan, alleate di Haftar, la Camera nata con le elezioni del 2012 è costretta all’autoscioglimento e ad indire nuove consultazioni.

Queste ultime sono organizzate il 26 giugno 2014. La partecipazione, per via anche della situazione di insicurezza generale nel Paese, è molto bassa: appena il 18% dell’elettorato si reca alle urne, i risultati però ridanno la maggioranza alle forze laiche e moderate. Il nuovo parlamento si insedia a Tobruck: secondo la legge elettorale infatti, la Camera deve avere sede a Bengasi per garantire maggiore rappresentanza territoriale in seno alle istituzioni, tuttavia la situazione della sicurezza nella più importante città della Cirenaica costringe i deputati a spostarsi un po’ più ad est. Il nuovo parlamento accorda la fiducia al premier Abdullah al-Thani ed al suo governo.

A Tripoli nel frattempo, gli islamisti si sono organizzati all’interno della coalizione Alba Libica le cui milizie, poco prima della proclamazione dei risultati elettorali, lanicano un’operazione assieme alle forze di Misurata volta a conquistare l’aeroporto della capitale. Lo scalo, a partire dal 2011, è controllato dalle milizia di Zintan. Lo scontro che ne nasce apre la strada alla seconda fase della guerra in Libia. La struttura cade nelle mani dalle milizie islamiste, Alba Libica si insedia invece nella capitale. Da questo momento nel Paese insiste una spaccatura: a Tripoli a governare è una coalizione islamista, che nel marzo 2015 elegge Khalifa Ghwell quale nuovo premier, mentre in Cirenaica il governo Al Thani ha la fiducia del parlamento insediatosi a Tobruck. A Tripoli inoltre, la vecchia camera del 2012 rimane in carica e, negli anni successivi, prende il nome di “Consiglio di Stato”.

Ancora prima delle elezioni, in Cirenaica il generale Haftar proclama guerra contro le fazioni islamiste. Il 26 maggio 2014, in particolare, l’uomo forte dell’Est del Paese lancia la cosiddetta “Operazione Dignità”. Con questo intervento, Haftar promette la liberazione della Cirenaica dalla presenza islamista: l’obiettivo è quindi la riconquista, da parte delle milizie poi confluite nel Libyan National Army, di città quali Bengasi e Derna.

Il governo di Al Thani in un primo momento condanna l’avvio dell’operazione, vista come un tentativo di colpo di Stato da parte di Haftar. Successivamente, nell’ottobre del 2014, il suo esecutivo ed il parlamento di Tobruck danno appoggio all’operazione Dignità e conferiscono ad Haftar il ruolo di capo del costituendo esercito libico.

Nel frattempo sulla scena mondiale una nuova sigla jihadista inizia a rappresentare l’incubo sotto il profilo terroristico: l’Isis. Si tratta del gruppo guidato da Abu Bakr Al Baghdadi che, nell’estate del 2014, conquista territori in Siria ed Iraq e proclama la nascita di un nuovo califfato islamico. Anche in Libia alcune milizie iniziano ad indossare il “cappello” dell’Isis, aderendo al cosiddetto Stato Islamico. La prima cellula dell’Isis in Libia è comparsa a Sabratha nell’ottobre 2014.

Successivamente però, il gruppo jihadista nel Paese nordafricano prova a costituire un piccolo califfato nella città di Sirte. Qui, a partire dal 2015, le bandiere nere dell’Isis occupano buona parte del territorio. Proprio in quell’anno la decapitazione di 21 egiziani copti che lavoravano in Libia, mostrata platealmente in un macabro video dell’orrore, fa intuire la portata del pericolo della presenza dell’Isis nel Paese nordafricano.

Dopo alcuni anni in cui la comunità internazionale rimane tutto sommato ai margini del conflitto libico, la preoccupazione di diversi attori ad un certo punto è legata al terrorismo ed all’immigrazione. L’assenza di un governo unitario in Libia, rischia di rendere vani gli sforzi contro i due fenomeni precedentemente citati. Da qui un sempre più imperante interessamento di diversi governi alla delicata situazione nel Paese nordafricano.

Nel dicembre del 2015, sotto l’egida delle Nazioni Unite, nella città marocchina di Skhirat si tiene un summit con tutte le varie forze libiche. Partecipano gruppi, tribù e fazioni di vario genere. Il documento finale, redatto il 17 dicembre del 2015, sancisce la nascita del Gouvernament of National Accord (Gna), ossia un nuovo esecutivo di unità il cui compito è quello di traghettare la Libia verso nuove elezioni. A capo del Gna è piazzato un consiglio presidenziale composto da nove membri, al cui vertice è nominato Fayez Al Sarraj. Quest’ultimo, architetto con poca esperienza politica alle spalle, occupa anche la carica di premier. Inoltre, gli accordi di Skhirat riconoscono la validità sia della Camera dei Rappresentanti insediata a Tobruck, guidata da Aguilla Saleh, sia del Consiglio di Stato di Tripoli.

Secondo gli accordi, entrambe le camere devono votare la fiducia al nuovo governo di Al Sarraj. Inoltre, è stabilito il disconoscimento del governo di Gwhell a Tripoli e di Al Thani in Cirenaica. Tuttavia, il parlamento di Tobruck non vota la fiducia al nuovo esecutivo. Al Sarraj si insedia a Tripoli nel marzo del 2016 ma in precarie condizioni di sicurezza visto che la coalizione Alba Libica non lascia subito il campo. Il Gna non ha proprie forze di sicurezza, né tanto meno è dotato di un proprio esercito. Al contrario, la sicurezza è affidata a bande e milizie che si spartiscono, non senza tensioni, la capitale Tripoli in proprie zone di influenza. Complessivamente, da questo momento in poi il conflitto in Libia assume una nuova fisionomia consistente nel dualismo tra le forze vicine ad Al Sarraj e quelle vicine ad Haftar.

Anche se non riconosciuto in tutta la Libia, l’insediamento del governo di Fayez Al Sarraj a Tripoli permette alla comunità internazionale di affrontare il discorso relativo all’Isis. La presenza dello Stato Islamico a Sirte preoccupa sempre di più l’Europa e soprattutto l’Italia.

Gli Stati Uniti organizzano una nuova iniziativa militare. L’amministrazione Obama, in particolare, spinge per un’azione aerea volta a dare manforte, da terra, alle forze vicine ad Al Sarraj. Quest’ultimo nella primavera del 2016 richiede ufficialmente un intervento internazionale anti Isis.

Nell’estate del 2016, spinti dai bombardamenti americani, le milizie filo Al Sarraj avanzano su Sirte, prendendo in possesso diversi quartier generali del califfato in Libia. Nell’agosto di quell’anno, buona parte del territorio in mano all’Isis viene strappato ai seguaci di Al Baghdad e sul finire dell’estate l’operazione militare permette l’intero recupero della città. Questo non coincide però con la fine dell’Isis in Libia. Il gruppo terrorista istituisce numerosi campi di addestramento nel sud del Paese.

Nel frattempo nell’est della Libia il generale Haftar avanza nell’ambito dell’operazione Dignità. Sul finire del 2016, buona parte della Cirenaica è in possesso del suo esercito il quale, a sua volta, permette il consolidamento delle autorità legate sia al governo Al Thani che al parlamento stanziato a Tobruck.

Nel 2017 il Libyan National Army di Haftar si spinge anche verso i campi petroliferi di Brega e Ras Lanuf, tra i più grandi ed importanti del Paese, strappandoli a delle locali milizie. Sempre nello stesso anno, parte anche l’offensiva volta alla riconquista totale di Bengasi. All’inizio del 2018 il generale Haftar si presenta come l’uomo forte della Cirenaica, capace di possedere gran parte della regione orientale della Libia e di poter rivendicare il controllo di quasi la metà dell’intero territorio nazionale.

A livello internazionale, il 2018 è l’anno del duello diplomatico tra Francia ed Italia. Si inizia nel maggio del 2018, quando il presidente francese Emmanuel Macron invita Al Sarraj ed Haftar all’Eliseo. Il governo transalpino riconosce ufficialmente il governo di Tripoli, ma il forte sospetto è che la Francia sostenga attivamente anche Haftar. Nel corso del vertice, per la prima volta i due principali attori libici si stringono la mano. Viene raggiunta un’intesa di massima per organizzare nuove elezioni entro dicembre. In questo modo, la Francia prova ad intestarsi la guida di un’iniziativa internazionale sulla Libia.

A stretto giro di posta arriva la risposta da parte di Roma. Qui il 1 giugno 2018 si insedia un governo formato da Movimento Cinque Stelle e Lega, con a capo il presidente del consiglio Giuseppe Conte. Quest’ultimo, nella sua prima visita alla Casa Bianca ospite del presidente Usa Donald Trump, chiede una cabina di regia a guida italiana sulla Libia. Per tutta l’estate quindi, Palazzo Chigi e Farnesina lavorano per ospitare un meeting internazionale sul dossier libico con il coordinamento del nostro Paese.

La mappa delle potenze straniere in Libia (Infografica di Alberto Bellotto)
La mappa delle potenze straniere in Libia (Infografica di Alberto Bellotto)

Il vertice viene organizzato a Palermo tra il 13 ed il 14 novembre 2018. Anche in quell’occasione, all’interno dell’hotel Villa Igiea, Al Sarraj ed Haftar si danno la mano. Viene concordato un piano guidato dall’Onu in grado di portare ad importanti svolte nel 2019. In particolare, in primavera è prevista una nuova conferenza questa volta tra i vari attori libici ed organizzata direttamente nel Paese nordafricano. Il passo successivo riguarda invece l’indizione di nuove elezioni. A Palermo sono presenti i rappresentanti delle diplomazie di almeno 30 governi, oltre ad alcuni capi di Stato e di governo dell’area mediorientale.

La road map concordata a Palermo però, ben presto ha dovuto fare i conti con la realtà. Non tutte le fazioni libiche hanno infatti accettato questo nuovo percorso, all’interno della stessa Tripoli sono sorti nuovi scontri tra milizie del Gna. Dunque, il piano previsto nel capoluogo siciliano ha subito non pochi rallentamenti già all’inizio del nuovo anno. Inoltre, il Libyan National Army ha conquistato numerosi territori nel Fezzan. In particolare, tra gennaio e febbraio del 2019 diverse tribù della regione meridionale della Libia sono passate dalla parte di Haftar, favorendo l’ingresso delle sue truppe in buona parte delle località di questo territorio e nella stessa Sebha, città più grande del Fezzan. Le avanzate di Haftar lungo il Sahara libico sono state effettuate senza sparare quasi un colpo per via dei numerosi accordi locali stretti dagli uomini del generale.

In questo contesto, è da registrare però l’iniziativa diplomatica degli Emirati Arabi Uniti. Il 28 febbraio 2019 infatti, ad Abu Dhabi sia Al Sarraj che Haftar hanno partecipato ad un incontro voluto dalla diplomazia emiratina. Al termine del vertice, i due si sono stretti nuovamente la mano: gli accordi, in particolare, salvavano la conferenza libica prevista per il 14 di aprile e sancivano un ruolo politico per Al Sarraj ed uno militare per Haftar, almeno fino alle elezioni.

All’alba del 4 aprile però, lo scenario è destinato nuovamente a cambiare. Truppe del generale Haftar hanno iniziato ad avanzare su Gharyan, portandosi subito a meno di 100 km da Tripoli. Segno di come l’uomo forte della Cirenaica aveva iniziato l’operazione volta alla conquista manu militari della capitale libica. In questo modo si è quindi entrati nella quarta fase del conflitto, caratterizzata da uno scontro aperto tra Libyan National Army e Gna.

L’intento di Haftar era quello di ricevere l’appoggio di molte milizie locali, stanche di una situazione di quasi anarchia in cui il controllo del territorio era in mano a bande che spesso si fronteggiavano a vicenda. Tuttavia, nonostante un’iniziale importante avanzata che ha portato l’Lna a 25 km dal centro di Tripoli, la guerra ben presto è entrata in una decisa fase di stallo. Il Gna ha richiamato da Misurata molte milizie, le quali hanno arrestato l’avanzata del generale ma, al tempo stesso, non sono mai state in grado di contrattaccare. In questo modo, la quarta fase della guerra è destinata ad essere vissuta da entrambe le parti come un lungo conflitto di logoramento in cui nessuno riesce a prevalere sull’altro.

In un contesto del genere, la Libia è ben presto diventata ancor di più una guerra per procura. Ma il dualismo tra Italia e Francia nel 2019 è ben presto scomparso: entrambi i Paesi, così come l’intera Europa, non hanno più avuto modo di contare in modo politicamente rilevante nel dossier libico. Al contrario, sono state le potenze regionali ad entrare in modo più diretto nel conflitto. Il premier Fayez Al Sarraj, in particolare, è stato sostenuto da Turchia e Qatar le quali, a loro volta, appoggiano da sempre l’asse dei Fratelli Musulmani. Sul fronte opposto, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita hanno invece garantito, in funzione anti fratellanza, l’appoggio ad Haftar. Quest’ultimo poi, è da sempre sponsorizzato politicamente e militarmente dall’Egitto del presidente Al Sisi.

Il generale si è poi garantito anche l’alleanza con la Russia. Da Mosca a settembre sono giunti diversi contractors dell’agenzia Wagner, curata da una delle persone più di fiducia di Vladimir Putin. La Russia è quindi intervenuto sullo scacchiere libico con l’intento di solidificare la propria posizione nel Mediterraneo ed in Nord Africa. A novembre invece, è stato Erdogan a sancire un suo intervento diretto sul campo libico: il presidente turco, in particolare, tramite un memorandum ha solidificato la sua alleanza con il governo di Fayez Al Sarraj, divenendone il principale sponsor. Da Ankara sono stati inviati non solo soldi ed armi, ma anche mercenari siriani pagati dalla Turchia che per anni hanno combattuto nella provincia siriana di Idlib. La quarta fase del conflitto in Libia è ancora in corso.

Nel giorno di Pasquetta alcuni equilibri nell’ovest della Libia sono cambiati: in quelle ore infatti, mentre il Paese è costretto alle misure anti coronavirus analoghe a quelle prese in buona parte delle nazioni del Mediterraneo, i miliziani del Gna sono entrati nella strategica città di Sabratha. Quest’ultima da diverso tempo era in mano alle forze vicine al generale Haftar per il quale il controllo appariva vitale per aspirare alla presa Tripoli. Da quel momento in poi, le forze filo Al Sarraj hanno iniziato a dilagare in tutta la regione della Tripolitania.

L’aiuto principale in tal senso è stato fornito dalle milizie filo turche inviate da Erdogan nelle settimane precedenti. Senza questo apporto, per il governo stanziato nella capitale libica sarebbe stato molto difficile ribaltare gli equilibri militari presenti fino a quel momento da quando, a partire dal 4 aprile 2019, era iniziato l’attacco su Tripoli da parte di Haftar. Dopo le avanzate lungo la costa ad ovest della capitale, i gruppi filo turchi e filo Gna hanno preso il controllo di altre località strategiche della regione, a partire dalla base militare di Al Watiya, importante in quanto vicina al confine con la Tunisia. Successivamente, i miliziani filo Al Sarraj hanno iniziato a puntare anche le più importanti roccaforti di Haftar, a partire da Tarhouna e Bani Walid.

La svolta si è avuta agli inizi di giugno, quando il generale della Cirenaica ha perso anche il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli. A quel punto il 4 giugno, con una nota ufficiale, il Libyan National Army ha annunciato il ritiro dall’area della capitale. La linea del fonte quindi si è spostata verso la città di Sirte, controllata da Haftar a partire dal 6 gennaio 2020. L’uomo forte dell’est del Paese non ha più roccaforti nell’ovest della Libia: un’evoluzione importante all’interno del contesto bellico, che potrebbe decidere gli equilibri venturi del Paese nordafricano.

La fine della battaglia di Tripoli ha aperto nuovi scenari politici nel Paese nordafricano. Ad ottobre si è giunti alla dichiarazione di cessate il fuoco permanente, mentre sotto l’egida dell’Onu hanno preso il via le sessioni del Foro di Dialogo sulla Libia. Dopo diversi mesi di contrattazione, nel dicembre del 2020 è stato trovato un accordo tra le varie parti radunate dalla missione delle Nazioni Unite per nuove elezioni fissate per il 24 dicembre 2021.

Contestualmente è stato dato il via libera all’individuazione di un nuovo governo di unità nazionale, in grado di traghettare la Libia verso le consultazioni. Il 6 febbraio 2021 il Foro di Dialogo ha scelto quale nuovo premier l’imprenditore misuratino Abdulhamid Dabaiba. A lui è stato affidato l’incarico per la formazione del nuovo esecutivo. L’11 marzo la compagine governativa ha ottenuto un’ampia fiducia dalla Camera dei Rappresentanti, radunata per l’occasione a Sirte.

Il 15 marzo invece, l’esecutivo ha potuto giurare e prendere possesso dei propri uffici. Il governo è composto da 35 ministri, rappresentanti di tutte e tre le regioni storiche della Libia. É finita in tal modo l’esperienza di Fayez Al Sarraj, mentre dal canto suo il generale Khalifa Haftar è rimasto silente nella sua Bengasi e non ha posto ostacoli alla formazione dell’esecutivo.

L’insediamento del governo di Dadaiba è propedeutico all’organizzazione delle elezioni previste dal piano Onu di pacificazione della Libia. Come data simbolica per le consultazioni viene scelta quella del 24 dicembre 2021, giorno in cui il Paese celebra i 70 anni di indipendenza. Da subito però non appaiono ben chiare le leggi elettorali proposte. Alcune vengono approvate dal Consiglio di Stato, altre invece respinte dalla Camera dei Rappresentanti. L’unica cosa certa riguarda il doppio turno: se nessuno dei candidati riesce a ottenere il 50%+1 dei voti, allora si ricorre al ballottaggio tra i due più votati. Secondo i regolamenti sottoscritti dal foro di dialogo di Ginevra, non si può candidare chi ricopre ruoli politici o militari. A meno che, tre mesi prima del voto, non vengano presentate dimissioni. Inoltre non si può candidare chi ha pendenze con la giustizia.

Entrambe le norme però si prestano a diverse interpretazioni, mai chiarite definitivamente dagli organi parlamentari uscenti. Ad ogni modo, alcuni importanti protagonisti della vita politica libica si dimettono a settembre, a tre mesi dal voto, proprio per presentare la candidatura. É il caso di Khalifa Haftar, il quale si autosospende da capo del Libyan National Army. Anche Aguila Saleh, presidente del parlamento insediato in Cirenaica, opta per un passo indietro. I due sono tra i primi a depositare la domanda per la candidatura alla commissione elettorale. Ma il premier uscente Dadaiba decide anch’egli, forte dei sondaggi che lo premiano soprattutto in Tripolitania, di candidarsi senza tuttavia rinunciare al suo incarico. La corte di giustizia di Tripoli respinge i ricorsi presentati contro la candidatura e dunque il suo nome figura nell’elenco degli aspiranti presidenti. Una lista che comprende anche un altro nome pesante, quello di Saif Al Islam Gheddafi, figlio del rais. Apparso in pubblico dopo dieci anni dall’ultima volta, il secondogenito di Muammar presenta la candidatura a Sebha. Su di lui però pende un mandato di cattura del tribunale internazionale de L’Aja e dunque inizialmente la sua corsa alle presidenziali viene fermata. Un ricorso però, presentato nonostante l’opposizione fisica di miliziani legati ad Haftar che per giorni hanno bloccato gli accessi al tribunale di Sebha, lo riammette. A candidarsi sono anche altre figure di spicco quali l’ex ministro dell’Interno Fathi Bashaga e l’ex vice premier Ahmed Maitig.

Il termine ultimo per il deposito delle candidature è il 7 dicembre. Qualcosa però va storto. In primo luogo, le domande da esaminare ingolfano il lavoro delle commissioni elettorali che dunque fanno dilatare i tempi per l’organizzazione della macchina elettorale. Inoltre le regole poco chiare favoriscono una lunga serie di ricorsi e controricorsi che bloccano sul nascere la campagna elettorale. Il vero problema è rappresentato dalle condizioni di sicurezza. In Libia sono ancora presenti forze straniere e forze mercenarie, oltre che una frammentazione del controllo del territorio tra una miriade di milizie spesso in contrasto tra loro. Una settimana prima del voto alcuni gruppi armati circondano la sede del governo a Tripoli, creando apprensione anche tra la popolazione. In un contesto del genere il rinvio del voto è inevitabile e rappresenta il fallimento di un piano che, caso unico nella storia, prevede prima le elezioni e soltanto dopo la costituzione di un apparato statale.

Le mancate elezioni generano ulteriore tensione. Una parte del parlamento di Tobruck considera oramai terminato il mandato del premier Ddeibah, incapace secondo i deputati di arrivare a realizzare il principale obiettivo del suo governo, ossia per l’appunto organizzare le consultazioni. Nel mese di febbraio del 2022, la Camera dei Rappresentanti insediata in Cirenaica decide così di togliere la fiducia accordata a Ddeibah. Si aprono consultazioni per dare l’incarico a un nuovo premier.

Le successive votazioni interne al parlamento di Tobruck designano Fathi Bashaga quale nuovo capo dell’esecutivo. Tuttavia tale decisione non viene avallata dall’Onu, né riconosciuta in ambito internazionale. Da Tripoli vengono inoltre lanciate accuse di brogli durante il voto parlamentare e di violazione delle regole. Bashaga forma il suo governo, il quale ha però uno scarso riconoscimento internazionale. Il nuovo esecutivo opera da Sirte e appare maggiormente legato alle istituzioni dell’est della Libia, territorio controllato da Haftar.

Il dualismo tra i due governi sfocia via via in scontri sempre più aperti e non soltanto a livello politico. Nell’agosto del 2022, le forze vicine a Bashaga lanciano un’offensiva su Tripoli. Obiettivo del premier designato da Tobruck è sfruttare il suo legame con diverse milizie presenti nella capitale, risalente all’epoca in cui era ministro dell’Interno del governo Al Sarraj, per attuare un colpo di mano contro Ddeibah. Quest’ultimo però risponde e le forze da lui dirette nell’ambito del ministero della Difesa e dell’Interno riescono ad avere il sopravvento. In tal modo, Bashaga viene allontanato e perde progressivamente spazio nell’agone politico libico. Gli scontri causano morti e ulteriori danni in una Tripoli già molto provata.

Dal canto suo, Ddebiah rafforza il suo potere. Non solo, ma in ambito diplomatico si inizia a parlare di un dialogo latente con Khalifa Haftar. I due avrebbero sottoscritto un’intesa segreta volta a ridimensionare le tensioni. Anche perché il dossier libico torna a essere importante in ambito internazionale. Gli Usa ad esempio, iniziano a premere per una riconciliazione nazionale volta a contrastare l’influenza russa nell’est della Libia. Manca però per adesso un piano ben definito per giungere a un nuovo governo di unità nazionale.

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