La guerra dei chip, spiegata

Dalle semplici e-mail ai missili guidati, dai computer agli smartphone, passando per televisori, strumenti medici e frigoriferi. Il futuro del pianeta ruoterà sempre di più attorno a chip e semiconduttori, due concetti spesso considerati sinonimi ma, in realtà, tra loro ben diversi.

In termini tecnici, i semiconduttori sono i materiali impiegati per realizzare le componenti di base dei chip, tra cui i transistor e i resistori. Il chip, per essere più precisi, è invece una piccolissima piastrina di silicio sulla quale vengono costruiti gli elementi di un circuito integrato che, solo o in collegamento con altri circuiti, è in grado di svolgere tutte le funzioni e le operazioni necessarie per elaborare l’informazione.

In ogni caso, il semiconduttore viene comunemente chiamato anche chip microelettronico o per computer. Ebbene, negli ultimi decenni le forze economiche, geopolitiche e tecnologiche hanno letteralmente plasmato questa industria altamente strategica.

La conseguenza è che – e lo si è visto per lo più in seguito alla pandemia di Covid-19 – parti integranti della catena di approvvigionamento dei chip, in particolare per quanto riguarda i chip all’avanguardia, dipendono da un ristretto numero di aziende. Da qui è scaturito il braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina per il controllo di un campo determinante ai fini del controllo sulla tecnologia e, di riflesso, sull’economia e su tutto ciò ad essa connesso.

La produzione di chip e semiconduttori è un’attività complessa che coinvolge migliaia di tecnologie, chiama in causa intricate apparecchiature di precisione ed è figlia di un processo estremamente sofisticato, nonché di una fitta interrelazione tra tutte le parti interessate al procedimento. Il chip è un dispositivo elettronico formato da miliardi di componenti che memorizzano, spostano ed elaborano dati.

Le suddette funzioni sono rese possibili grazie alle proprietà uniche dei materiali semiconduttori, che consentono il controllo preciso del flusso di corrente elettrica. L’importanza dei chip per la produzione economica può essere paragonata a quella del petrolio, o più in generale dell’energia. E questo a causa della crescente digitalizzazione delle pratiche quotidiane. Detto altrimenti, i chip sono la struttura materiale che consente il funzionamento di televisori, smartphone, auto, frigoriferi, aeroplani e tanto altro ancora (la lista, come vedremo, è pressoché infinita).

Secondo Bloomberg, quella dei microchip è un’industria che vale circa 500 miliardi di dollari. Il 75% dei microchip è prodotto in Asia. La società taiwanese TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing) produce oggi il 92% dei semiconduttori più avanzati sul mercato, ovvero i chip con transistor di larghezza inferiore a 10 nanometri.

Nel 2021 poche aziende erano in grado di produrre i semiconduttori più avanzati: la citata TSMC a Taiwan, Samsung in Corea del Sud e Intel negli Stati Uniti. Più nello specifico, stando ai dati del Parlamento europeo, l’8% dei microchip generici è fabbricato negli Stati Uniti, il 60% a Taiwan, il 6% in Cina, il 19% in Corea del Sud e il rimanente in altri Paesi del mondo.

A prima vista si potrebbe rispondere così: perché la domanda di microchip continua a salire mentre la loro produzione diminuisce. Di conseguenza i grandi produttori hi-tech e dell’automotive, soltanto per citare due settori particolarmente esposti alla crisi dei chip, non riescono più a produrre a ritmi elevati come nel recente passato.

La carenza dei chip è da ricercare anche nella penuria di semiconduttori, oggi sempre più rari, introvabili e scarsi. La ciliegina sulla torta, in un campo di per sé abbastanza minato, è rappresentata dai conflitti geopolitici. Se i protagonisti dei microchip sono Cina, Stati Uniti, Taiwan e Corea del Sud, altri attori, come l’Unione europea, non possono che giocare un ruolo secondario e dipendere dalle tensioni internazionali che si vengono a generare sul mercato. I blocchi alle catene del commercio golobali causati dalla pandemia di Covid-19 hanno fatto il resto.

La lista è lunghissima. I settori più colpiti sono tutti quelli che, in qualche modo, hanno a che fare con l’hi-tech. L’automotive è sicuramente in prima fila, con molti marchi automobilistici costretti a rallentare le rispettive produzioni e rivedere le strategie di mercato. Lo scorso settembre Cadillac ha, ad esempio, anticipato la decisione di rimuovere la funzione di guida a mani libere da alcuni dei suoi veicoli mentre a novembre Tesla ha iniziato a vendere auto senza porte usb.

A rischio troviamo anche il settore finanziario, con le carte di credito in sofferenza, ma anche altri settori diversificati, dove la carenza di chip minaccia di comprometterne l’operatività. Citiamo i jet da combattimento, i personal computer, tablet, smartphone, bollitori, tostapane, televisori e console da gioco come la Play Station 5.

L’automotive ha risentito della generale crisi dei chip, generata, a sua volta, da molteplici fattori. La pandemia di Covid-19 ha reso la crisi visibile anche a occhio nudo. L’aumento della domanda globale dei dispositivi ad alta tecnologia durante i lunghi lockdown è avvenuto mentre gli impianti di microchip erano chiusi a causa delle medesime restrizioni sanitarie. La crescente domanda di chip da parte dei produttori di auto, inoltre, non è stata prevista, come ricostruito sulle colonne di InsideOver.

È difficile rispondere a questa domanda. Anche perché potremmo chiederci, più che quando finirà la crisi dei chip, se finirà mai. La scorsa settimana l’amministrazione Biden ha  annunciato nuove restrizioni sulle società americane che vendono semiconduttori avanzati in Cina, oltre a restrizioni sui cittadini statunitensi e sui residenti che lavorano per impianti di chip in Cina. C’è tuttavia chi sostiene – forse in maniera troppo ottimistica – che la crisi possa rientrare tra il 2023 e il 2024, quando gli Stati Uniti affineranno, almeno in parte, il proprio settore, e chi ipotizza che siamo soltanto all’inizio di una lunga fase destabilizzante.

Gli Stati Uniti, una volta leader di questo mercato, negli ultimi decenni hanno lasciato il passo alle aziende asiatiche, diventate oggi leader globali. L’ex presidente Usa, Donald Trump, ha ripreso con forza il dossier dei semiconduttori a partire dal 2019, proprio in virtù delle tensioni con la Cina, ritenendola una questione di sicurezza nazionale. Proprio contro il Dragone, Trump ha avviato una guerra dei dazi senza frontiere nel tentativo di indebolire Pechino.

Attualmente gli sforzi dell’amministrazione guidata da Joe Biden si stanno concentrando sulla riconquista statunitense di un leadership sia nella produzione di chip che nelle forniture. A febbraio Biden ha firmato un ordine esecutivo che prevede una revisione della catena di approvvigionamento dei semiconduttori per analizzare e prevedere i fattori di rischio.

Perché sono i tre Paesi al centro della guerra dei chip, nonché gli unici, assieme alla Corea del Sud, in grado di influenzare il mercato. Gli Stati Uniti hanno adottato misure senza precedenti per limitare la vendita di chip per computer avanzati alla  Cina, intensificando gli sforzi per contenere le ambizioni tecnologiche e militari di Pechino. La Cina consuma più di tre quarti dei semiconduttori venduti a livello globale, ma ne produce soltanto una piccola percentuale. L’ago della bilancia è Taiwan, partner statunitense finito nel mirino di Pechino.

Gli impianti di fabbricazione taiwanesi dominano il mercato della fabbricazione di semiconduttori o della fonderia, coprendo oltre il 60% del fatturato globale. Per i chip avanzati, la quota è del 92% (per inciso, stiamo parlando dei chip che danno la superiorità tecnologica alla difesa più sofisticata e ad altri dispositivi elettronici high-tech). Di questi impianti, il principale è Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC), la più grande fonderia del mondo che fornisce chip a società tecnologiche e di difesa di prim’ordine.

TSMC, da sola, guadagna oltre il 50%delle entrate globali.  A causa della geografia di Taiwan, poi, tutte le sue fonderie si trovano sulla costa occidentale dell’isola, a circa 170 km dalla costa cinese del Fujian. Attualmente, TSMC e la sua rivale sudcoreana Samsung sono le uniche fabbriche in grado di produrre i chip a 5 nm più avanzati. Entrambe si stanno preparando per chip a 3 nm che potrebbero andare in produzione in qualsiasi momento.

Ecco perché Taiwan è così cruciale sia per la Cina che per gli Stati Uniti. La preoccupazione di Washington è che se Pechino possa conquistare l’isola, provocando l’interruzione della fornitura di chip avanzati taiwanesi diretta verso le aziende americane.

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