La guerra dei dazi, nota anche come Trade War, è la disputa commerciale che antepone gli Stati Uniti alla Cina. Ha avuto ufficialmente il via il 22 marzo 2018, quando il presidente americano Donald Trump ha annunciato l’intenzione di applicare dazi doganali sui prodotti importati dalla Cina, al fine di punire le pratiche commerciali scorrette di Pechino e il furto della proprietà intellettuale perpetuato, secondo il tycoon, dalle aziende cinesi. Il braccio di ferro è entrato nel vivo, le due economie hanno risentito degli effetti nefasti delle tensioni e le negoziazioni per arrivare a una pace commerciale sono attualmente in corso.
A partire dall’estate 2018 le due maggiori economie del mondo hanno imposto delle tariffe incrociate sulle rispettive esportazioni di beni per un valore di svariati miliardi di dollari.
Nel luglio 2018 gli Stati Uniti hanno fatto la prima mossa, mettendo in vigore tariffe del 25% su 818 prodotti made in China, per un valore complessivo di 34 miliardi di dollari. La risposta cinese è arrivata poco dopo: Pechino ha applicato dazi di ritorsione della stessa portata su 545 categorie di beni provenienti dagli Usa.
Un mese più tardi, ad agosto 2018, Cina e Stati Uniti si sono colpite a vicenda con nuovi dazi reciproci, con tariffe del 25% su ulteriori 16 miliardi di beni.
Arriviamo così a settembre 2018, uno dei mesi più difficili. L’amministrazione Trump annuncia una nuova ondata di tariffe: il 10% su 200 miliardi di dollari di merci cinesi. Pronta la risposta della Cina, con dazi tra il 5% e il 10% su importazioni americane per un valore complessivo di 60 miliardi di dollari.
A maggio gli Stati Uniti decidono di aumentare la pressione sui prodotti già tassati, passando dal precedente 10% al 25%.
Nel giugno 2019 anche la Cina aumenta le percentuali tariffarie, che salgono adesso fino al 20-25% su 60 miliardi di beni made in Usa.
L’ultima escalation risale allo scorso settembre. Gli Stati Uniti hanno applicato una aliquota del 15% su 112 miliardi di dollari su merci cinesi; la Cina ha risposto portando dal 5% al 10% i dazi già presenti su alcuni prodotti Usa, fra cui semi di soia, auto e petroli, per un giro di affari che si aggira intorno ai 75 miliardi di dollari.
Attraverso l’imposizione dei dazi gli Stati Uniti hanno intenzione di affossare l’economia cinese. Questa, approfittando della globalizzazione e di alcuni errori commessi negli ultimi decenni dalla comunità internazionale (come far entrare la Cina nel Wto), ha consentito a Pechino di diventare una potenza globale. Il primato statunitense è quanto mai a rischio in tutti i campi: dal commercio alle nuove tecnologie, dall’aspetto militare alla diplomazia. Visto che il Dragone ha spiccato il volo grazie al suo sistema economico, Trump ha pensato bene di stritolarlo con tariffe sempre più pressanti. Due sono le tendenze principali che Washington vuole contrastare, se non annullare del tutto: la delocalizzazione delle aziende americane oltre la Muraglia e l’invasione del mercato statunitense da parte di una valanga di mercanzia cinese a prezzi stracciati.
Pechino ha più volte affermato di essere impermeabile ai dazi imposti da Trump. La Cina ha investito nei settori esposti a potenziali contraccolpi e ha cercato di renderli quanto più autarchici possibili. Tuttavia è innegabile che la morsa che attanaglia l’esportazione cinese abbia provocato una riduzione dei consumi interni, l’aumento del prezzo di alcuni prodotti e un rallentamento del Pil. Anche gli Stati Uniti, i primi a dare il via all’esclation economica, hanno dovuto fare i conti con effetti inaspettati, il più importante dei quali è stato far venire alla luce un forte risentimento degli agricoltori, colpiti dalle tariffe cinesi sui prodotti agroalimentari. Secondo alcuni esperti, inoltre, data la profonda interconnessione tra l’economia cinese e quella americana, la guerra dei dazi rischierebbe di compromettere un equilibrio che per decenni ha portato guadagni a entrambe le parti. Certo, la bilancia commerciale pende tutta a favore della Cina e Washington fa bene a lamentarsene. Ma forse portare allo stremo la Trade War è il modo peggiore per risolvere una situazione già di per sé critica.
Lo scorso gennaio Stati Uniti e Cina hanno firmato la Fase Uno dell’accordo commerciale. L’intesa, provvisoria, è stata stipulata tra le parti alla Casa Bianca. Si tratta del primo passo che dovrebbe contribuire a mettere fine alla guerra dei dazi in corso da circa due anni.
In ogni caso, nonostante la fumata bianca e il chiaro segnale distensivo, le questioni commerciali più scottanti sono rimaste irrisolte.
L’accordo ha cancellato alcune delle tariffe imposte da Washington sui prodotti importati da Pechino. A sua volta il gigante asiatico si è impegnato ad aumentare le importazioni di merci americane, per un valore di almeno 200 miliardi di dollari da qui ai prossimi due anni.
Sulla Cina sono tuttavia rimasti dazi per un valore complessivo di 370 miliardi di dollari, anche se Donald Trump ha promesso di abbassare la percentuale dal 15% al 7,5% su una parte delle merci cinesi, per un totale stimato in 120 miliardi di dollari.
La pandemia di Covid ha raffreddato le relazioni tra le due superpotenze e interrotto il buon clima che si era venuto a creare tra Washingon e Pechino. Tra accuse reciproche sul virus e minacce varie, l’ipotetica Fase 2 dell’accordo commerciale è attualmente un miraggio.
Dal canto suo, nel corso di un’intervista a The Hill, il presidente Donald Trump è stato chiarissimo in merito al nuovo step. “Ora non ci penso, ho molte altre cose in mente”, ha dichiarato The Donald.
Le imminenti elezioni presidenziali statunitensi, previste a novembre, non lasciano presagire rapidi segnali di disgelo. Almeno per il momento, le distanze non si smuovono.