Che cos’è la Banca centrale europea

Al cuore del sistema finanziario e politico dell’Unione Europea, la Banca centrale europea avente sede a Francoforte è da almeno un decennio il vero motore dell’azione della comunità dell’area euro e, di conseguenza, dei 27 (un tempo 28) Stati membri, oltre che l’attore decisivo per l’evoluzione dell’economia del Vecchio Continente. Da autorità monetaria a istituzione centrale per gli equilibri sistemici dei Paesi membri, la sua funzione si è evoluta dopo la Grande Recessione

La Bce svolge per i 19 Paesi dell’area euro la funzione di governatrice della politica monetaria sin dall’1 gennaio 1999 quando, a tre anni dall’entrata in corso d’operatività della moneta unica, entrò in operatività l’istituzione comune fondata il 1 giugno precedente in applicazione delle prescrizioni del Trattato sull’Unione Europea. La Bce è per definizione e norma ai vertici dell’eurosistema, il reticolo composto dalla Bce e dalle banche centrali nazionali dei paesi che hanno introdotto la moneta unica; le banche centrali nazionali dei paesi al di fuori dell’eurozona conducono invece una politica monetaria nazionale autonoma e assieme all’eurosistema compongono il Sistema europeo delle banche centrali (Sbec).

Sviluppata nel pieno degli Anni Novanta, quando oramai dal Regno Unito al Giappone passando per gli Usa e la Svizzera le principali banche centrali avevano già interiorizzato il principio dell’indipendenza dal potere politico la Bce si è data fin dall’inizio come obiettivo principale il controllo dell’inflazione e la stabilità dei prezzi nell’area euro. Un target operativo chiaro e interpretabile come unico, che si discosta dal mandato duale della Federal Reserve, che promuove stabilità dei prezzi e piena occupazione. Wim Duisenberg, olandese e primo direttore della Bce (1998-2003) e Jean-Claude Trichet (2003-2011), primi due direttori della Bce, hanno operato in maniera molto ortodossa in favore di questi obiettivi.

La sede della Bce a Francoforte

Nel 2010-2011, tuttavia, le scelte procicliche della Bce, legate all’innalzamento dei tassi nel pieno dell‘ondata recessiva che stava colpendo l’Europa nella crisi dei debiti sovrani, contribuirono a generare problematiche come la tempesta dello spread che travolse l’Italia; Mario Draghi (2011-2019) alla guida della Bce ha dunque impostato una svolta politica varando con nuovi obiettivi il quantitative easing europeo e Christine Lagarde (2019-in carica), quarta persona, prima donna e prima figura esterna in precedenza a una banca centrale nazionale a guidare la Bce, ha promosso politiche di espansione monetaria durante la crisi pandemica. Sostanziando una svolta a tutto campo.

Giunto alla guida della Bce, Draghi si trovava di fronte una situazione in cui l’Unione Europea era in ritardo di anni sul quadro della risposta emergenziale alla crisi, dato che di fronte alla recessione globale Fed, Bank of England e altri istituti erano massicciamente intervenuti sostenendo i mercati con la liquidità.

Per rompere l’ostilità dei rigoristi, Angela Merkel in testa, a partire dal 2012 la Bce draghiana ha cominciato distribuento denaro all’economia attraverso le aste ‘Tltro’ (acronimo di Targeted Longer Term Refinancing Operations), caratterizzate da prestiti a tassi bassissimi per garantire liquidità al sistema del credito, e di riflesso, al mondo delle imprese. Le banche italiane hanno sottoscritto circa un terzo di tutti quei prestiti promossi in Europa nell’era Draghi, con 250 miliardi di euro di finanziamenti procacciati principalmente da Intesa e Unicredit (circa 125 miliardi).

Si è trattato di un processo volto a preparare il terreno per un piano di acquisto titoli simile a quello di Ben Bernanke e Mark Carney alla guida di Fed e BoE.

Tra il 2015 e il 2019 la Bce targata Draghi ha messo in campo il primo quantitative easing della storia dell’area euro. Una svolta che ha portato la Bce al sostegno attivo ai mercati oltre il ruolo di guardiana del tasso d’interesse e dell’inflazione, non più funzionale a quei tempi contro la crisi.

La politica di acquisto di titoli dura, nelle sue varie forme, tuttora e ha portato Francoforte a agire attivamente nella finanza continentale per lenire gli effetti della crisi finanziaria del 2010-2011 e della successiva, dilagante ondata di austerità abbattutasi su diversi Paesi (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda) che aveva prodotto crollo del Pil, aumento dello spread tra i titoli pubblici e ampie incertezze sul futuro di Eurolandia.

Mario Draghi ai tempi della Bce

Del resto la campagna di acquisto di titoli inaugurata da Draghi portava con sé anche l’obiettivo di rilanciare l’inflazione, dunque deprezzando gradualmente l’euro, così da favorire indirettamente esportazioni e industria (un lato non totalmente disprezzato dai tedeschi). La mossa ha consentito abbattere i differenziali di rendimento e dare fiducia ai mercati. Tra marzo 2015 e marzo 2016 gli acquisti di titoli di Stato dei Paesi dell’area euro sono proceduti a un ritmo di 60 miliardi di euro al mese; tra aprile 2016 e dicembre 2017 il volume è salito a 80 miliardi di dollari, per poi scendere a 30 a partire dal gennaio 2019 in avanti.

Complessivamente, nel corso dell’era Draghi la Bce ha investito nel quadro del programma principale del Qe, l’Asset Purchase Programm (App) 2,15 trilioni di euro e diretto 362 miliardi verso i titoli italiani, tra i più sostenuti, espandendo oltre i 4mila miliardi il suo bilancio.

Parallelamente la Bce ha avviato programmi di acquisto anche di obbligazioni bancarie garantite (Covered Bond Purchase Programme, CBPP3), titoli emessi in seguito alla cartolarizzazione di prestiti bancari (Asset-Backed Securities Purchase Programme, ABSPP) e obbligazioni del settore privato (Corporate Sector Purchase Programme, CSPP) toccando i 2.800 miliardi di euro di acquisizioni.

Un diluvio di denaro che ha, senz’altro, ridotto i tassi di sconto, che ha funzionato da antidoto all’austerità e restituito fiducia alle economie sul breve e medio periodo, correndo però il rischio di agire come “Metadone” monetario sul lungo termine, come del resto ha confermato la dipendenza delle borse dalla situazione di liquidità facile e bassi tassi e, viceversa, l’obbligo per le banche centrali come la Bce di vedere i loro sforzi governati dalla risposta, spesso terrorizzata, dei mercati all’ipotesi di una fine degli stimoli.

Inoltre è mancata la trasmissione diretta dello stimolo Bce alla ripresa europea, che ha finito per esser condizionata dal permanere della logica austeritaria ai vertici del governo politico dell’Ue perlomeno fino alla fine della commissione Juncker (2019). Salvato l’euro dal dannoso zelo dei custodi dell’austerità con il celebre “Whatever it takes” prima e con il quantitative easing poi, Draghi e la Bce non sono riusciti tuttavia a salvarlo da se stesso, ovvero dalle grandi contraddizioni legate alla presenza di una banca centrale senza Stato di riferimento, di un’unione monetaria estremamente rigida e da profonde asimmetrie tra i Paesi dell’unione valutaria.

L’impossibilità per la Bce, stante il suo mandato, degli strumenti per intervenire a monetizzare direttamente i deficit dei Paesi dell’Ue e la mancanza della volontà politica dei Paesi del Nord di concederglieli hanno giocoforza limitato il raggio d’azione dell’istituzione. Tuttavia, nonostante tutto, la Bce è divenuta, per dirla con Carl Schmitt, l’istituzione commissaria dell’Ue, il decisore di ultima istanza in caso di situazioni di crisi o criticità, complice l’imbelle condotta della Commissione. E questo è stato dimostrato appieno dall’emergenza pandemica.

3mila miliardi di euro: a tanto sono ammontate le risorse stanziate dalla Bce, in forma diretta o di garanzia, contro la crisi pandemica iniziata nel 2020. Il tutto grazie all’influenza di Philip Lane, capo economista della Bce, capace di far cambiare idea alla neogovernatrice Christine Lagarde che nelle prime settimane della pandemia aveva rifiutato un intervento diretto.

Christine Lagarde a Buxelles (Febbraio 2021)

Il 18 marzo 2020 è stato inaugurato il Pandemic emergence purchase plan (Pepp), il piano di acquisto titoli straordinario volto ad immettere liquidità nel sistema e a sommarsi al “mini-Qe” ereditato dalla gestione Draghi, il Public Sector Emergence Plan (Pspp), destinato a subentrare al “bazooka” lanciato tra il 2015 e il 2019.

Col Pepp la Bce ha lanciato un piano di acquisti inizialmente di 750 miliardi di euro destinato a durare fino a marzo 2022, è stato incrementato di 600 miliardi a giugno e di ulteriori 500 a dicembre del 2020, per un totale di acquisti di 1.850 miliardi di euro in due anni. Oltre un trilione sono già stati formalizzati tra il 2020 e il 2021, e aggiungendo ad essi i 2mila miliardi di operazioni come le garanzie, i Tltro e i piani di sostegno alla liquidità delle banche si arriva a uno sforzo senza precedenti in un intervallo temporale tanto ristretto.

Il volume degli acquisti non è l’unica nota di rilievo. Nei piani Bce anti-Covid è infatti caduta la regola del capital key, ovvero l’impegno della Bce ad acquistare titoli, mensilmente, proporzionalmente al volume di ogni economia. Per l’Italia tale percentuale è pari all’11,8%. Ora invece ogni mese consente maggiori flessibilità e programmi personalizzati.

Per ogni Paese, Francoforte ha poi superato la regola che poneva un limite del 33% di debito pubblico di ogni Paese detenibile in portafoglio e può da marzo del 2020 nel quadro del Pepp superare tale limite anche per le singole emissioni di debito nazionale.

Infine, ad aprile 2020 la Bce ha annunciato l’ampliamento degli acquisti nel contesto dei programmi anti-pandemia anche ai titoli che le agenzie di rating escludono dal perimetro dei prodotti degni di attività di investimento, abbattendo il loro giudizio a junk (spazzatura).

La Bce è andata oltre la monetizzazione del deficit, lo ha in questa fase di fatto congelato e sterilizzato per diversi Paesi europei. Mostrando sempre di più la sua capacità di controllare l’offerta di moneta a proprio piacimento. L’economista statunitense Stephane Kelton lo ha ricordato in un’intervista al Corriere della Sera in cui ha sottolineato come questo fosse già ben chiaro a Mario Draghi: “lo ricordo a una conferenza stampa in cui un giornalista gli chiese se era possibile che la Bce non avesse più soldi. Gli altri funzionari Bce vicini a lui si raggelarono. Lui invece si mise a ridere e disse: no, non saremo mai a corto di euro. Fu una riposta onesta, perché davvero la Bce ha una capacità infinita di fornire supporto alle nazioni che ne hanno bisogno. La Bce di Christine Lagarde lo sta facendo concretamente”.

Molti dilemmi sono emersi a proposito del futuro: come sarà l’atterraggio da questa fase emergenziale? Che strada seguirà la Bce negli anni a venire? Si parla, su pressione di Italia e Francia, di un’agenzia europea capace di smaltire i debiti acquistati dall’Eurotower in questo biennio. La verità è che è difficile dare una risposta a questa domanda finché a riprendersi non saranno le economie continentali ancora indietro nel recupero dei danni di un lungo decennio di crisi di vario tipo. Fino ad allora la Bce sarà la governatrice dell’emergenza. Il decisore di ultima istanza degli equilibri economici d’Europa. Come dimostrato nel 2022 dalle mosse prese sulla scia del ritorno dell’inflazione in Europa.

Tra giugno e luglio 2022 Christine Lagarde guidò la Bce a una svolta storica: l’archiviazione graduale delle politiche di acquisto titoli e il ritorno della Bce alla stabilità dei prezzi come stella polare e obiettivo cardine. Logica conseguenza, ovviamente, è stata la scelta di alzare i tassi d’interesse per la prima volta nel 2011.

A giugno 2022 la Lagarde ha annunciato e nel luglio successivo la Bce formalizzato il primo rincaro, dello 0,5%, dei tassi scesi dall’1,25% allo zero negli otto anni dell’era Draghi. In poche settimane il livello dell’1,25% è stato nuovamente raggiunto, dato che l’8 settembre 2022 l’Eurotower ha deliberato un nuovo aumento di 75 punti base dei tassi e annunciato ulteriori strette.

Il motivo principale? Il decollo dei prezzi che hanno toccato un’inflazione del 9% annuo in Europa nell’agosto 2022 sulla scia della crisi energetica accelerata dall’invasione russa dell’Ucraina, della stretta monetaria operata oltre Atlantico dalla Federal Reserve e dai rincari del costo della vita in tutto il Vecchio Continente. L’eredità di lungo corso dell’era del quantitative easing, però, resta: a luglio 2022 la Bce ha infatti instaurato anche il Transmission Protection Instrument (Tpi), lo “scudo anti-spread” che consentirà all’Eurotower di acquistare titoli e emissioni dei Paesi soggetti a crisi debitorie reinvestendo i proventi del Pspp e del Pepp alla scadenza dei titoli detenuti dalla Bce.

La svolta sull’inflazione e la contemporanea messa in campo dello scudo hanno rappresentato un tentativo di far convivere politiche diverse che, alla luce della fragilità dell’Europa, sono destinate a testare la capacità della Bce di essere l’istituzione centrale che è divenuta nel lungo decennio della crisi globale.

Nella giornata del 27 ottobre la Bce ha imposto un altro giro di vite e deciso di alzare per la seconda volta consecutiva i tassi di interesse di 75 punti base facendo salire i tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale salgono rispettivamente al 2%, al 2,25% e all’1,50%.

Nella sede della riunione di quel giorno il Consiglio direttivo della Bce ha dichiarato l’intento di aumentare ulteriormente i tassi di interesse per assicurare il ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo del 2% a medio termine. Esso definirà l’andamento dei tassi di riferimento in futuro in base all’evolvere delle prospettive per l’inflazione e l’economia, riflettendo un approccio secondo il quale le decisioni sui tassi vengono definite di volta in volta a ogni riunione. Si tratta del riflusso definitivo del lungo decennio dell’espansione monetaria, che riporta la Bce nel territorio minato della necessità di governare con la propria credibilità prima ancora che con i fatti concreti i mercati monetari.

 

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