Che cos’è il miracolo Asiatico (e come potrebbe ripetersi)

Nel 1993, la Banca Mondiale pubblicava un documento sullo sviluppo economico dei Paesi asiatici che sarebbe presto diventato uno studio di riferimento. Nel testo, intitolato The East Asian Miracle. Economic Growth and Public Policy, ci si chiedeva per quale motivo le economie di questa regione stessero registrando tassi di crescita più rapidi rispetto a quelli rilevati in altri mercati emergenti, come America Latina o Africa. La risposta stava tutto nel concetto del cosiddetto miracolo asiatico che, proprio in quegli anni, aveva raggiunto il suo massimo periodo di splendore.

Non a caso, nel periodo compreso tra il 1960 e il 1990, presero forma le famigerate Tigri Asiatiche, termine impiegato per riferirsi alle economie di quattro Stati situati in Asia (Hong Kong, Singapore, Taiwan e Corea del Sud) che riuscirono a spiccare il volo promuovendo modelli di sviluppo di successo. Questa stagione d’oro fu interrotta dalla grave crisi asiatica del 1997-98 che congelò, di fatto, le economie più dinamiche della regione.

Con un paio di decenni di ritardo anche la Cina si sarebbe unita al quartetto, ottenendo un exploit economico senza precedenti. Nel sud-est asiatico, intanto, troviamo diverse nazioni – dal Vietnam all’Indonesia – che potrebbero approfittare delle contingenze internazionali per dare vita ad un nuovo miracolo asiatico 2.0.

Il miracolo asiatico ha contraddistinto le economie di otto Paesi asiatici accomunati da tassi di sviluppo elevati. All’inizio degli anni ’90 le cosiddette High-Performing Asian Economies (HPAES) racchiudevano Giappone, Corea del Sud, Hong Kong, Taiwan, Singapore, Malesia, Indonesia e Thailandia. Tutti questi Paesi, pur presentando differenti specificità storico-geografiche, culturali ed economiche, furono in grado di distinguersi dalle altre nazioni in via di sviluppo presenti nel mondo.

In che modo? Furono protagoniste di una crescita rapida e sostenuta dal 1965 al 1990, con tassi medi di sviluppo del prodotto nazionale lordo più che doppi rispetto al resto dei Paesi asiatici (5,5%) e ben più superiori rispetto ad altre regioni del mondo.

Stando al già richiamato studio della Banca Mondiale, numerosi fattori avevano stimolato il successo di questi Paesi. Quali? Si va dalla presenza di un ambiente macroeconomico stabile all’inflazione tenuta sotto controllo, dall’elevato tasso di risparmio e d’investimento al capitale umano di qualità – frutto di sistemi educativi di livello – fino alla promozione delle esportazioni e all’apertura dei Foreign Direct Investments e ai conseguenti trasferimenti di know how tecnologico.

Impossibile, inoltre, tralasciare i tipi di intervento statale adottati nella medesima regione. La mano invisibile del mercato fu infatti sostituita da quella dei governi, con il chiaro obiettivo di dirigere lo sviluppo in determinati settori chiave, attraverso, ad esempio, aiuti finanziari e sgravi fiscali. Laddove in Giappone simili funzioni erano svolte dal Miti, e cioè dal Ministero del commercio internazionale e dell’industria, in Cina tutto questo, decenni più tardi e in un contesto politico diverso, sarebbe stato diretto, in maniera molto più pressante, dal Partito Comunista Cinese (PCC).

Nel fondamentale libro How Asia Works di Joe Studwell, vengono analizzati i tre ingredienti principali che hanno consentito la crescita economica asiatica nell’era moderna. Prima di tutto è fondamentale partire dall’agricoltura, o meglio, da una riforma agraria. Quando il capitale umano è a buon mercato, proprio come nei Paesi in via di sviluppo, abbattere il costo degli affitti dei terreni agricoli e distribuire la proprietà degli stessi tra i contadini, aumenta la produttività e, al tempo stesso, consente alle persone di “salire” nella curva del reddito.

Una volta realizzato il primo stadio della crescita economica, la riforma agraria consente di accumulare la ricchezza necessaria per dare vita ad una prima industrializzazione basata sulla manifattura. Non è un caso che, dalla Corea del Sud a Taiwan, molti CEO di importanti aziende presentano un background agricolo. Questo è infatti un’eredità della mobilità sociale figlia del miracolo asiatico.

Le nuove aziende, in virtù degli input statali, si sono poi concentrate sulle esportazioni. Questa sarebbe stata la chiave per forzare le imprese a superare le curve tecnologiche ed inserirle in un panorama competitivo, al fine di perfezionare il processo di crescita nazionale. Altri interventi statali, come barriere alle importazioni e sussidi ai “cavalli vincenti”, hanno permesso di accrescere la rilevanza di questi Paesi asiatici.

La ciliegina sulla torta finale è rappresentata dall’abilità del sistema finanziario di ciascun Paese nel gestire al meglio le risorse economiche accumulate grazie alla riforma agricola e al settore manifatturiero. Detto altrimenti, lo step finale coincide con una sorta di allineamento della finanza con gli obiettivi agricoli e manifatturieri. Lo Stato decide di incrementare il guadagno economico per servire l’obiettivo della politica dello sviluppo nazionale.

Tra gli accorgimenti che vale la pena menzionare troviamo l’idea di adottare barriere economiche all’ingresso dei mercati nazionali per promuovere l’industria nazionale. Da sottolineare, inoltre, la necessità di creare un sistema di “carote” per iniziative di successo e di “bastoni” per punire i fallimenti. La concorrenza ha dunque premiato le imprese vincenti, trasformandole prima in colossi nazionali, poi a livello mondiale (pensiamo alle varie Hyundai, Kia e Huawei).

Insomma, il fatto che la finanza sia stata controllata dalla politica industriale, anziché da interessi nepotisti, sembrerebbe aver avuto un impatto importante sulla qualità degli investimenti in questa regione.

Non tutta l’Asia è riuscita a centrare appieno il miracolo sopra descritto. Possiamo suddividere il continente in due regioni: il nord-est asiatico e il sud-est asiatico. Mentre il nord-est asiatico, formato da Giappone, Corea del Sud, Cina, Taiwan e Singapore è riuscito a capitalizzare al meglio il primo boom economico, superare il congelamento della crisi asiatica, ed essere ancora oggi competitivo, nel sud-est asiatico la situazione è ben diversa.

È innegabile che il miracolo asiatico abbia portato miglioramenti anche qui. Il punto è che i principi alla base del successo giapponese o coreano non sono stati seguiti del tutto. Difficilmente abbiamo assistito ad una politica fondiaria efficiente e ad un conseguente sviluppo dell’industria manifatturiera. Il sistema finanziario, inoltre, non è stato impostato sulla stessa lunghezza d’onda degli interessi di sviluppo nazionale.

Nel sud-est asiatico, quindi, il capitalismo clientelare è un esempio di come il credito sia stato incanalato nella raccolta di beni invece che nell’ampliamento delle capacità produttive. Da questo punto di vista, le differenze di esperienza tra Indonesia e Corea del Sud sono perfetti esempi su cui riflettere. La necessità di adattare la strategia di sviluppo nazionale alla fase di sviluppo economico effettivo del Paese è la cornice entro la quale dipingere qualunque miracolo.

È possibile riproporre qualcosa del genere in Asia? È difficile, ma non impossibile. Ci sono molti Paesi dotati di interessanti potenzialità non sfruttate, come Indonesia e Thailandia. Seguendo lo stesso approccio sopra descritto, è necessario che queste nazioni propongano una riforma agraria seguita da uno sviluppo dell’industria manifatturiera, per poi spingere sul pedale delle esportazioni. Passare subito a un livello superiore potrebbe infatti essere deleterio.

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