Che cos’è il bail-in

Bail-in significa letteralmente “salvataggio interno”: il termine fa riferimento a una modalità ben precisa di risoluzione delle crisi bancarie, forse la più discussa in assoluto, che si basa sul coinvolgimento esclusivo e diretto di azionisti, detentori di obbligazioni e possessori di depositi.

Il bail-in è stato definito normativamente nell’Unione europea con la direttiva 2014/59, in cui la disciplina in materia di risoluzione delle crisi bancarie venne condotta a un nuovo stadio di evoluzione rispetto al tradizionale metodo basato sul salvataggio pubblico delle banche in crisi (bail-out).

La Grande Recessione partita nel 2007-2008 e la successiva crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona furono, in larga misura, il frutto dell’instabilità del sistema privato, soprattutto bancario, piegato dalle contraddizioni di un sistema finanziario lasciato eccessivamente libero e divenuto estremamente instabile.

Il continuo stato di instabilità del mondo bancario internazionale portò all’immissione di decine di miliardi di euro nel sistema finanziario attraverso i cosiddetti bail-out (salvataggi esterni): i Paesi si impegnavano a intervenire direttamente nel capitale delle banche in crisi, nazionalizzandone temporaneamente parte delle quote (come successo con la britannica Northern Rock nel 2008) per poi rimetterle sul mercato in condizioni di maggiore sicurezza.

Tali politiche portarono al progressivo emergere di un’asimmetria evidente: lo Stato spendeva miliardi per coprire le problematiche dovute, tra le altre cose, a un management troppo lassista o, nel peggiore dei casi, spregiudicato senza che tali responsabilità di quest’ultimo venissero in evidenza e senza la possibilità di detenere, sul lungo periodo, il controllo degli istituti.

In questo contesto, specie nell’Europa di matrice germanocentrica, negli anni del rigore e dell’austerità matura l’idea di far pagare alle banche il costo del loro risanamento. Nel 2012 un paper del Fondo Monetario Internazionale, From bail-out to bail-in, sdogana definitivamente il concetto di salvataggio interno. L’Unione Europea avrebbe presto recepito tali “consigli”. E l’evoluzione politica avrebbe riguardato in prima persona l’Italia.

 

 

Quando l’Europa introdusse la normativa sul bail-in, l’Italia, allora governata da Matteo Renzi, non tardò a recepire i contenuti della direttiva precedentemente citata. In quest’ultima, entrata in vigore il primo giorno del 2016, è indicato il principio di responsabilità gerarchica degli stakeholder di una banca in crisi per cui viene avviata la procedura di bail-in.

Essa in genere si applica a istituti in dissesto in cui vengono riscontrate elevate quantità di titoli tossici o prodotti di difficile smaltimento nel sistema finanziario. Alla banca viene dapprima offerta la possibilità di trasferire a un istituto terzo le attività in crisi per cercare di ottenere una plusvalenza notevole dalla loro commercializzazione e messa in sicurezza. Solo in caso di fallimento di questa strada entra in gioco la normativa sul bail-in.

Nel caso di applicazione del bail-in”, scrive Wired, “a dover pagare per il piano di risanamento e della banca sono gli azionisti della banca stessa e i possessori di titoli di capitale, seguiti dagli obbligazionisti, ovvero coloro che hanno in portafoglio obbligazioni più o meno rischiose emesse dalla banca, e infine i correntisti che superano la soglia dei 100mila euro sul conto”. Tali strumenti sono, in misura proporzionale, tramutati in asset con cui la banca può costruire un cuscinetto di sicurezza o svalutati unilateralmente per ridurre l’esposizione dell’istituto.

Parliamo dunque di una procedura estremamente invasiva che colpisce in maniera generalizzata in nome del principio di non intervento statale nell’economia. All’articolo 56 della direttiva, infatti, è esplicitamente scritto che lo Stato può intervenire solo in extremis dopo il compimento e l’infruttuosità della procedura di bail-in. Le applicazioni di questa disciplina sono state, per usare un eufemismo, discutibili. E l’Italia lo ha sperimentato a più riprese.

La grave crisi economico-finanziaria del 2011-2013 ha lasciato in eredità all’Italia una profonda instabilità del sistema bancario, su cui si è innestata la dura conseguenza della vigilanza della Bce, che ha costretto i nostri istituti in maggior difficoltà a disfarsi dei crediti deteriorati (non-performing loans) accelerando il deterioramento della loro posizione sul mercato.

Il Presidente dell’Associazione bancaria italiana (Abi) Antonio Patuelli già nel 2016 riscontrava profili incostituzionali nel bail-in, presagendo i duri effetti di una sua applicazione sistemica.

Banca Marche, Banca Popolare dell’ Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara, Cassa di Risparmio di Chieti furono i primi istituti soggetti a tale trattamento traumatico. Un patrimonio azionario vicino ai 3 miliardi di euro fu letteralmente cancellato, migliaia di correntisti e acquirenti persero completamente i loro risparmi, prima che la crisi si estendesse agli istituti veneti (Banca di Vicenza e Veneto Banca) e che due gruppi maggiori, Ubi e Intesa San Paolo, rilevassero la titolarità delle società in dissesto.

Problema risolto? Tutt’altro. Carige, Mps e Popolare di Bari insegnano come nemmeno il bail-in possa essere risolutivo e che, anzi, molto spesso il suo effetto sia la cancellazione degli istituti minori dalla geografia bancaria nazionale, mentre per le banche maggiori (come le tre in questione) il commissariamento o l’intervento pubblico si rendano in ultima istanza inevitabili.

Ironia della sorte, la sovrapposizione tra normativa sul bail-in e discutibili decisioni europee (come il caso Tercas) ha portato per l’Italia costi pubblici maggiori del previsto per le crisi bancarie dell’ultimo quinquennio, risultate superiori ai 30 miliardi di euro. Senza contare le migliaia di casi di risparmiatori letteralmente rovinati dall’azzeramento dei loro titoli o risparmi.

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