Un ambasciatore del dialogo divenuto capo della più importante agenzia di intelligence statuntense. La parabola personale di William Burns, uomo che da esponente del cuore profondo del potere statunitense è divenuto prima diplomatico di punta e poi direttore della Cia nell’amministrazione di Joe Biden, ha pochi eguali tra quelle dei civil servant statunitensi dell’era contemporanea. Ma insegna molto sulle dinamiche che muovono le relazioni strategiche di Washington in una fase critica.
65enne originario del North Carolina, William Joseph Burns è figlio di un ex generale dello United States Army, William Frances Burns (1923-2021), uomo che seppe anticiparlo nella coniugazione di visione strategica e postura diplomatica. Burns senior, infatti, nel suo lungo cursus honorum, ha annoverato sia un incarico da vicedirettore del War College di Carlisle, Pennsylvania, che impegni complessi nel campo del controllo degli armamenti, culminati nel ruolo di rappresentante negoziale degli Stati maggiori riuniti nel programma Intermediate-range Nuclear Forces (Inf) e in quello di direttore della Arms Control and Disarmament Agency nell’anno finale dell’amministrazione Reagan.
Sulla scia del padre, Burns avrebbe nel corso dell’intera carriera guardato con attenzione al mondo russo e alla necessità per gli apparati Usa di fare da pontieri diplomatici con Mosca. Laureatosi in Storia alla La Salle University, ateneo cattolico di Philadelphia, e specializzatosi con un dottorato in Relazioni Internazionali nel Regno Unito, all’Università di Oxford, Burns ha iniziato la sua carriera diplomatica al Dipartimento di Stato nel 1982.
Dopo una lunga carriera da funzionario e da studioso Burns è stato nominato ad alte cariche diplomatiche coprendo la posizione di ambasciatore in Giordania a poco più di quarant’anni, tra il 1998 e il 2001, prima di essere nominato assistete segretario per il Vicino oriente negli anni cruciali dell’amministrazione Bush caratterizzati dalle guerre in Iraq e Afghanistan (2001-2005).
Nel 2002 Burns contribuì a redarre un documento che presentò all’allora segretario di stato Colin Powell, con cui il padre aveva lavorato e che lui stesso conosceva in prima persona, oggi consultabile integralmente online. Esso si intitolava “La tempesta perfetta” e metteva l’accento sulle linee settarie che frammentavano l’Iraq ai tempi governato da Saddam Hussein e sul rischio che un attacco a Baghdad avrebbe causato un collasso del regime e del Paese capace di avvantaggiare un altro rivale strategico di Washington, l’Iran. Burns nella sua autobiografia uscita nel 2019, The Back Channel: A Memoir of American Diplomacy and the Case for Its Renewal, sottolinea che ai tempi “quello che non abbiamo fatto è stato creare un’argomentazione forte contro una guerra” che consideravano sbagliata e che aveva consenso bipartisan, tanto che lo stesso senatore Joe Biden avrebbe espresso sostegno al conflitto.
“Abbiamo tirato colpi a vuoto”, nota nel suo saggio Burns, che però lasciò un segno agli occhi dell’amministrazione Bush, la quale lo nominò alla strategica legazione di Mosca nel 2005. Da ambasciatore Burns scalò le gerarchie diplomatiche fino a ricevere da Bush il titolo di Carrer Ambassador, il più alto della graduatoria, nel 2008.
Negli anni in cui il sistema di relazioni costruito tra la fine della Guerra Fredda e il summit di Pratica di Mare del 2002 tra Occidente e Russia si deteriorava e in cui lo stesso presidente Vladimir Putin si rendeva conto del rischio di una conflittualità bilaterale, tanto da ammonire una volta Burns dicendo “voi americani dovete ascoltare di più, non potete più avere ogni cosa come piace a voi”, Burns si costruì una personalità da pontiere diplomatico.
Non a caso Barack Obama lo confermò, dopo la sua vittoria del 2008, alla carica di sottosegretario di Stato per gli Affari Politici a cui Bush l’aveva nominato pochi mesi prima. All’epoca Bush, che aveva inserito Teheran nel famigerato “Asse del Male”, aveva appreso la necessità di un abboccamento con gli ayatollah e aveva iniziato a inviare Burns a tessere la tela per il riavvicinamento con l’Iran. Questo, nota Il Foglio, gli ha permesso di essere “tra gli architetti assieme a Jake Sullivan, designato da Biden come consigliere per la Sicurezza nazionale, dell’avvicinamento all’Iran che ha portato all’accordo sul nucleare” concluso nel 2015 dopo l’avvicendamento tra Hillary Clinton e John Kerry al vertice del Dipartimento di Stato. L’attenzione di Burns al lavoro in discrezione l’ha portato a esser definito da un editoriale del The Atlantic come “l’arma segreta diplomatica della Casa Bianca” nel 2013. David Ignatius sul Washington Post lo ha definito “il migliore diplomatico della sua generazione”.
Presidente dal 2014 del Carnegie Endowement for International Peace, importante think tank a stelle e strisce vicino al Partito Democratico, Burns ha portato avanti negli anni della Presidenza Trump una linea multilateralista volta a consolidare un nocciolo duro d’interessi ritenuto comune a entrambi i maggiori partiti statunitensi, che conosceva da vicino.
Un’altra figura molto importante che avrebbe poi fatto carriera nell’amministrazione Biden e con cui Burns ha promosso un rapporto diretto e di aperta collaborazione è Avril Haines, attualmente direttrice dell’intelligence nazionale. A partire dal 2020, la critica di Burns a Trump si è rafforzata e prima del caos seguito alla denuncia del presidente di un presunto complotto per la sua sconfitta elettorale di novembre proprio sull’Atlantic Burns ha scritto un editoriale in cui avvertiva a riguardo. “Se Trump perde”, notava, “dubito che improvvisamente abbraccerà il tradizionale impegno bipartisan per transizioni efficaci. Nella migliore delle ipotesi, sarà consumato dagli sforzi per razionalizzare la sua sconfitta e dipingere le elezioni come truccate; nel peggiore dei casi, cercherà di contestare o minare il risultato”, come poi i mesi tra novembre e i fatti di Capitol Hill avrebbero confermato.
Insediatosi Biden, il neo-presidente ha scelto proprio Burns per una svolta nel cuore profondo degli apparati statunitensi, nominandolo direttore della Cia.
Diplomazia e intelligence sono sempre più ibridate nell’era presente. Quale istituzione è in grado di predominare sulle altre nel campo della costruzione di scenari e di sfruttare nel migliore dei modi il fattore tempo? L’intelligence. E caricare di potenzialità diplomatiche l’intelligence nell’era post-pandemica e della crisi delle relazioni internazionali può fornire una capacità di anticipazione e una maggiore fluidità diplomatica.
Biden pensava a un’intelligence “pontiera” scegliendo Burns alla guida dello spionaggio estero. E Burns, primo diplomatico di carriera alla guida della Cia, ha provato fin dall’inizio a interpretare questo suo mandato. A agosto, nel pieno della ritirata Usa da Kabul, si è recato a trattare con Baradar, “stratega” dei Talebani per definire le linee rosse delle relazioni tra Washington e gli studenti coranici. A novembre, invece, ha guidato una delegazione americana a Mosca per dare seguito alle trattative avviate da Biden e Putin nel loro summit di giugno. L’intelligence targata Burns è diplomatica, sistemica, sempre più strategica. Velatamente protagonista di una diplomazia-ombra di Biden che, assieme a John Kerry, inviato speciale per l’ambiente, depotenzia l’interventismo liberal di Tony Blinken, segretario di Stato di orientamento clintoniano, aprendo a una fase di distensione mentre Washington carica verso il nemico numero uno designato, la Cina.