La Latinoamerica ha un problema di narcotraffico sin dall’epoca di Pablo Escobar e del cartello di Medellin ma è soltanto a partire dagli anni Duemila che la questione ha assunto delle dimensioni continentali, creando un tutt’uno di sangue e anarchia dal Messico all’Argentina. E questo è successo a causa della concatenazione di diversi eventi e fattori, tra i quali l’atomizzazione delle realtà criminali, l’impoverimento generalizzato nel dopo-decada perdida, l’ossificazione della corruzione e la globalizzazione del narcotraffico.
Intere regioni dell’America Latina, oggi, sono equiparabili a quelle che la scuola neomedievalista delle relazioni internazionali definisce “zone grigie”; aree, cioè, in cui l’unica legge che viene rispettata è quella del crimine e dove le faide gangsteristiche, che costituiscono il nuovo normale di una degenerata ordinarietà, sono metabolizzate da un’opinione pubblica terribilmente assuefatta alla violenza.
La globalizzazione del narcotraffico ha giocato un ruolo-chiave nella trasformazione della Latinoamerica in una prateria ad uso e consumo dei signori del crimine, perché qui, difatti, le principali mafie del mondo, dalla ‘Ndrangheta alla Yakuza, hanno stabilito degli avamposti per meglio gestire i propri affari transoceanici. Emblematici sono, a questo proposito, i casi della Triplice Frontiera, crocevia in cui si incontrano le strade di cartelli della droga e terrorismo internazionale, dell’Ecuador, curiosamente divenuto la seconda casa dei narcotrafficanti albanesi, e dei traffici della mafia israeliana da Città del Messico a Buenos Aires.
Quando si scrive e si parla di medievalizzazione della Latinoamerica, ad ogni modo, è impossibile non menzionare il Messico, la nazione più afflitta dal fenomeno del narcotraffico. Una nazione dove i cartelli della droga, dal 2000 ad oggi, hanno ucciso più di 370mila persone, trasformandone 82mila in desaparecidos e costrigendone oltre 360mila a migrare altrove. Numeri che rendono il Messico, de facto, una nazione in guerra.
La guerra della droga più feroce di ogni tempo è scoppiata in Messico e non avrebbe potuto essere altrimenti. La nazione giace tra gli Stati Uniti e la cintura dell’instabilità mesoamericana, ha una tradizione clanistica e gangsteristica di lunga data – Jesús Malverde docet – ed è, soprattutto, il luogo di transito naturale e imprescindibile per beni e persone in viaggio tra le due Americhe.
I fattori di cui sopra spiegano perché l’ondata di instabilità abbia travolto proprio il Messico, ma per comprendere le ragioni alla base delle sue dimensioni eccezionali, senza pari nella storia, bisogna fare riferimento ad altri elementi. Elementi quali le dimensioni del narco-mercato a stelle e strisce – il più grande del mondo: vale quasi 150 miliardi di dollari l’anno – e il mutamento del panorama criminale latinoamericano avvenuto nel-dopo Escobar.
I clan messicani erano stati i faccendieri, o meglio i distributori, dei cartelli della droga colombiana fino agli anni Ottanta. Non avevano molti margini di manovra, anche perché non producevano nulla nel loro territorio, ma il ruolo di distributori avrebbe permesso loro di ottenere denaro e prestigio. E quel ruolo lo avevano ottenuto grazie al carismatico e abile Miguel Ángel Félix Gallardo, un poliziotto passato dalla parte del crimine, che era riuscito sia ad entrare nelle grazie di Escobar sia a mettere d’accordo i clan messicani all’epoca esistenti.
Félix Gallardo aveva convinto Escobar a commercializzare la cocaina colombiana negli Stati Uniti facendola passare attraverso la rotta mesoamericana, più sicura rispetto alla caraibica perché meno controllata, e aveva riunito i principali narco-padrini del Messico in una sola entità: il Cartello di Guadalajara, altresì noto come la Federazione.
Félix Gallardo, il «primo padrino», non aveva paura di nessuno, meno che mai dell’antidroga, e quella spregiudicatezza ne avrebbe comportato la fine. Nel 1985, infastidito dalle operazioni di disturbo della DEA in Messico – che stavano minando il percorso di emancipazione della Federazione dai cartelli colombiani –, Félix Gallardo avrebbe ordinato il rapimento, con successiva uccisione, dell’agente Enrique Camarena. Ma quel gesto si sarebbe rivelato un boomerang, alienandogli l’appoggio tacito delle autorità locali e facendolo finire nel mirino degli Stati Uniti.
Arrestato nel 1989, con le accuse di aver diretto il sequestro e l’omicidio di Camarena e aver commesso una serie di altri reati, Félix Gallardo non ha mai più visto la luce del giorno. E la Federazione, priva di una guida carismatica in grado di appianare ogni divergenza e comporre tutte le liti, si è sbriciolata nottetempo, liquefacendosi in una costellazione di cartelli bellicosi e iper-competitivi che poco alla volta, tra un omicidio e l’altro, hanno dato vita alla guerra della criminalità organizzata più truculenta della storia del mondo.
La violenza tra i cartelli è scoppiata con la fine dell’era Gallardo, che ha provocato la disgregazione del sistema criminale domestico, ma è soltanto dal 2006, anno dell’inizio della prima controffensiva lanciata dalla presidenza Calderón, che si parla di «guerra messicana della droga». E lo si fa, soprattutto, per una questione numerica: il bollettino dei morti su base annua è passato dalle centinaia alle (decine) di migliaia.
Il motivo alla base della trasformazione di una faida su piccola scala in una guerra asimmetrica a medio-bassa intensità, estesa sull’intero territorio nazionale, è stato il fallimento dell’intervento di Calderón. Speranza-aspettativa dell’allora presidente era che il dispiegamento delle forze armate per le strade e il potenziamento dell’organico delle forze dell’ordine potessero riportare l’ordine, ripristinare la legalità in alcuni «narco-feudi» come Michoacán e Sinaloa, ma la capillarizzazione della corruzione e la mancanza di una strategia avrebbero determinato la disfatta del piano.
Sebbene la guerra alla droga di Calderón si sia rivelata un fallimento, come palesato dai 120.935 omicidi per droga avvenuti dal 2006 al 2012, è stata proseguita da coloro che lo hanno succeduto, i quali, pur ottenendo dei simili e sconfortanti risultati, non hanno saputo trovare vie alternative alla securizzazione e alla militarizzazione.
Il bilancio della guerra alla droga, tra feriti, morti, scomparsi e sfollati, è da record. Nessuna guerra tra gruppi criminali ha mai mietuto tante vittime. Nessuna guerra tra gruppi criminali ha mai colpito tanti giornalisti, persone delle istituzioni e degli apparati dell’ordine e della sicurezza. Le dimensioni di questa guerra irregolare che non ha precedenti nella storia, ed è unica al mondo, possono essere comprese pienamente facendo ricorso alla comparazione – ha superato per letalità e danni collaterali le guerre iugoslave – e, soprattutto, ai numeri:
- 234.996 omicidi per droga dal 2006 al 2017;
- 33.743 omicidi nel 2018;
- 34.582 omicidi nel 2019 – l’anno più violento della storia messicana: 94 morti al giorno, uno ogni quarto d’ora;
- 34.554 omicidi nel 2020, dei quali quasi 25mila imputabili alla guerra tra cartelli;
- 33.308 omicidi nel 2021;
- 2.061 omicidi nel primo mese del 2022;
- Più di 370.000 morti dal 2006 al 2021;
- Oltre 82.000 scomparsi dal 2006 al 2021;
- 280mila gli sfollati nel solo periodo 2011-2015, che sono saliti a circa 360mila nel 2021;
- Il tasso di omicidi è più che raddoppiato da quando è cominciata la guerra alla droga, passando dai 9,5 ogni 100mila abitanti del 2005 ad una media di 28 ogni 100mila – il tasso mondiale, a titolo informativo, è di 6 per 100mila abitanti.
In Messico è un bellum omnium contra omnes che vede il coinvolgimento di una pluralità di cartelli e presenta una serie di caratteristiche, tra le quali la volatilità e la molecolarità. Volatilità perché le alleanze nascono e muoiono rapidamente, mentre nuovi cartelli emergono periodicamente. Molecolarità perché la violenza ha investito l’intera società ed è fonte di erodiane «stragi di innocenti» aventi luogo a cadenza ciclica.
I numeri della guerra parallela della droga, quella dei narcos contro gli innocenti, sono impressionanti:
- 150 giornalisti assassinati dal 2000 a inizio 2022;
- Più di 200 i rappresentanti delle istituzioni, dai sindaci agli assessori, uccisi dal 2005 a inizio 2022;
- Oltre 1.400 i poliziotti freddati nel solo periodo di riferimento 2018-2021;
- Un poliziotto messicano ha una probabilità cinque volte superiore di essere ucciso rispetto a una persona comune;
- Il tasso nazionale di omicidi è di 28 ogni 100mila abitanti, ma quello degli omicidi di poliziotti è pari a 151,7.
La violenza dei narcos non risparmia nessuno e negli anni ha colpito anche gli studenti – celebre, a questo proposito, il caso di Iguala del 2014 – e i migranti delle carovane – indimenticabile, al riguardo, il massacro di San Fernando del 2010: 72 persone uccise dai Los Zetas. E il motivo di questa violenza, insensata nei modi e nei fini, è legato (anche) al fatto che la generazione Félix Gallardo – al quale è appartenuto anche Joaquín Guzmán – è stata sostituita da leve allevate ad un nuovo tipo di educazione criminale: amorale, indisciplinata, sregolata.
Il cambio generazionale ha avuto un impatto enorme nel modo di fare la guerra dei cartelli. I meno preparati, quelli incapaci di adattarsi e di stare al passo dei tempi, si sono estinti, come quelli di Acapulco, dei Cavalieri templari e dei Beltrán Leyva, oppure hanno sperimentato un significativo ridimensionamento, come accaduto a quelli di Tijuana e alla Famiglia Michoacana.
In concomitanza con il progressivo mutare del narco-panorama messicano, costellato di tramonti e scissioni, ha avuto luogo il sorgere di nuove realtà, come i Los Zetas e la Nuova generazione di Jalisco, che, oltre ad aver elevato la violenza verso nuove vette, si sono contraddistinte e si contraddistinguono per l’utilizzo di nuovi armamenti – dai droni ai mini-carri armati – e la conduzione di campagne di reclutamento avanguardistiche – disegnate e portate avanti da veri e propri esperti di relazioni pubbliche.