La guerra in Yemen spiegata

La guerra nello Yemen si può suddividere in due fasi ben distinte: la prima, che inizia nel 2011, coincide con le proteste relative alla cosiddetta “primavera araba“, la seconda invece inizia nel 2015 e  si riferisce all’avvio dell’azione militare saudita contro gli sciiti Houthi.

Il mondo arabo, tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, viene scosso da una serie di manifestazioni che hanno luogo tra Tunisia, Algeria, Egitto, Libia, Siria, Bahrein ed altri Paesi del golfo, oltre che nello Yemen.

In ogni Paese, tuttavia, le proteste assumono caratteristiche diverse. Se in Tunisia ed Egitto le manifestazioni vengono organizzate tramite i social, in Libia prendono quasi subito l’aspetto di una guerra tribale, mentre in Siria degenerano in un conflitto armato civile.

Gli yemeniti in piazza a quattro anni dall'inizio della rivolta (LaPresse)
Gli yemeniti in piazza a quattro anni dall’inizio della rivolta (LaPresse)

Nello Yemen, il più povero Paese della penisola arabica, le proteste partono sia da ambienti universitari delle principali città che dai quartieri più popolari. Le manifestazioni toccano diversi punti: dalla richiesta di prezzi più bassi per i viveri, al miglioramento delle condizioni di vita delle classi più disagiate, fino alle dimissioni del presidente Saleh.

Quando scoppiano le proteste, Abdullah Saleh è l’uomo forte dello Yemen. Si tratta del primo presidente da quando il Paese è stato riunificato nel 1990. Prima di quella data, la carta geografica indica due Yemen: uno del nord ed uno del sud filo sovietico.  Dal 1978 Saleh controlla lo Yemen del nord, diventando presidente in pochi mesi, dopo aver abbandonato la carriera militare per dedicarsi alla politica ed essere entrato nel partito di governo, il Congresso Nazionale del Popolo.

Un rapporto di allora della Cia indica la presidenza Saleh come una tra le più deboli, pronosticando pochi mesi di vita per quel governo. In realtà, forte anche dell’appoggio di numerose tribù, Saleh riesce a conservare il potere fino all’unificazione dello Yemen, diventando l’unico vero leader del Paese. Un Paese che, però, non riesce a governare, facendolo sprofondare sempre di più, fino a quando non scoppiano le prime proteste, all’interno delle piazze e delle università. Una delle città più attive in tal senso è quella di Taiz, la terza più importante dello Yemen dopo Sana’a ed Aden.

Ben presto, all’interno dell’opposizione, subentrano anche altri attori. Vengono annoverati gli Houthi, ovvero la coalizione di partiti filo sciiti denominata “Ansarullah“, che dal 2004 intraprendono azioni di guerriglia contro il governo di Saleh. In particolare, il fondatore del movimento, Hussein Badreddin al-Houthi, viene ucciso proprio nel 2004 dall’esercito yemenita. L’obiettivo di Ansarullah è quello di rappresentare gli sciiti yemeniti, specie dopo da quando il governo di Saleh viene considerato troppo vicino ad americani e sauditi.

Un altro movimento che si aggiunge all’opposizione, riguarda quello in cui confluiscono i separatisti del sud. Si tratta di gruppi che lottano per la ricostituzione dello Yemen del sud, con Aden capitale. Il mix tra gruppi di opposizione e fazioni da sempre in contrasto con Saleh, al pari di un sostegno delle tribù sempre meno marcato per il presidente, fa precipitare la situazione.

Il 3 giugno 2011 un ordigno lanciato contro la moschea del palazzo presidenziale, durante la preghiera del venerdì, ferisce gravemente lo stesso Saleh. Il capo del governo yemenita viene dato per morto. L’uomo forte dello Yemen, però, scampa all’attentato, ma riporta diverse ferite e viene portato in Arabia Saudita. Il paese precipita nel caos.

Al rientro, dopo circa due mesi, Saleh deve fronteggiare una situazione sempre più tesa dove lo spettro della guerriglia e del conflitto civile appare sempre più latente. Per questo motivo, entra in scena il Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg). Questo organo internazionale prova a mediare, partendo dalla possibilità di offrire a Saleh una via d’uscita in grado di evitare conseguenze per lui e la sua famiglia.

In Arabia Saudita il presidente dello Yemen subisce otto interventi chirurgici. Problemi di respirazione e all’udito, ferite da ustioni molto gravi ancora da rimarginare, anche le condizioni fisiche di Saleh sembrano strette alleate di chi ne chiede le dimissioni. Molti dei suoi medici consigliano di trasferirsi all’estero per curarsi in modo più adeguato. Anche su questa base si poggiano le mediazioni del Ccg: sono in particolare i sauditi a proporgli di andare via dallo Yemen senza condanne e pericoli.

Una prima svolta arriva l’8 ottobre 2011, quando Saleh annuncia un prossimo passaggio dei poteri e conferma la sua non candidatura alle elezioni anticipate, già dichiarata nei mesi precedenti.

Del resto, Saleh, di ritorno dall’Arabia Saudita, si ritrova con sempre meno persone disposte ad appoggiarlo: non solo gruppi dell’opposizione e i manifestanti, i detrattori sono anche all’interno del suo architettato e complesso sistema di potere. Perde l’appoggio di parte dell’esercito, così come della tribù degli Hashid, la più importante dello Yemen. Numerosi ministri lo abbandonano e puntano il dito contro di lui per i morti tra i manifestanti. Anche le più importanti autorità religiose del Paese lo invitano a lasciare al più presto il suo ruolo. Gli unici a restare al suo fianco sono gli uomini della Guardia Repubblicana, comandati da suo figlio Ahmed Saleh.

Il 23 novembre 2011 Saleh annuncia un primo passaggio di poteri al suo vice, Abdrabbuh Mansour Hadi. Le dimissioni vere e proprie arrivano ad inizio febbraio 2012: con il suo definitivo passo indietro, finisce una presidenza durata 33 anni. Il 21 febbraio lo Yemen va al voto per eleggere il suo successore. Il candidato è però uno solo: il vicepresidente Hadi.

Secondo l’accordo sottoscritto con il Ccg, il mandato di Hadi è transitorio ed ha una durata di due anni. In questo periodo, il nuovo presidente ha il compito di creare un governo allargato a tutte le possibili componenti nazionali e scrivere una nuova Costituzione.

Tutti questi obiettivi, però, sono lontani dalle possibilità di Hadi. Lo Yemen continua ad essere attraversato da proteste ed una situazione di guerriglia generalizzata. A Sana’a come a Taiz ed Aden, si registrano quasi quotidianamente scontri tra vari gruppi e fazioni, mentre la fine dell’era Saleh apre le porte anche a piccoli conflitti tribali.

Una situazione dunque difficile da gestire, con lo Yemen sull’orlo non solo di una vera e propria guerra civile ma di un caos generalizzato molto simile a quello emerso contemporaneamente nella Libia post Gheddafi. Il tutto contribuisce inoltre ad impoverire ulteriormente la popolazione, alle prese con una delle crisi più importanti attraversate dal Paese. A complicare ulteriormente il quadro è la proroga di un ulteriore anno del mandato di Hadi.

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Il neo presidente avrebbe dovuto lasciare nel marzo 2014 ma, vista l’impossibilità di organizzare elezioni e di procedere con il raggiungimento degli obiettivi sopra descritti, il Ccg prolunga il mandato di Hadi. Per gli Houthi e per altri gruppi dell’opposizione, si tratta di un gesto voluto dall’Arabia Saudita e che testimonia la crescente influenza di Riad sullo Yemen.

Gli sciiti nello Yemen sono una minoranza importante, soprattutto nella parte nord del Paese. Il movimento Ansarullah, con la guida della famiglia Houthi, già dai primi mesi di destabilizzazione dello Yemen riesce a compattare quasi per intero il fronte sciita contro il governo.

Il timore degli Houthi è quello di un sempre più repentino avanzamento dell’influenza saudita nel Paese. Circostanza, questa, poco gradita agli sciiti yemeniti, appoggiati dall’Iran. Gli Houthi possono contare su una vera e propria forza paramilitare, forgiata e formata grazie ai tanti anni di guerriglia più o meno silente contro il governo centrale.

Nella loro bandiera, oltre la scritta inneggiante ad Allah, campeggiano frasi contro gli Usa ed Israele. Per questo motivo, gli Houthi e l’intero partito Ansarullah non vengono certamente visti positivamente dall’Occidente e dall’Arabia Saudita. Il movimento comunque, soprattutto dopo la conferma al potere del presidente Hadi, decide di intensificare la propria lotta contro il governo.

Nel giro di pochi mesi vengono conquistate numerose località a maggioranza sciita, diverse cittadine costiere del nord dello Yemen e diverse alture vicine al confine saudita.

L’avanzata degli Houthi è possibile grazie ad un importante appoggio popolare: è proprio Ansarullah a coordinare infatti le proteste contro il rincaro dei carburanti e il peggioramento delle condizioni di vita. Le prime proteste di massa con alla guida la milizia degli Houthi si hanno nell’agosto del 2014, con la pressione degli sciiti yemeniti sempre più forte sulle sempre più fragili istituzioni rette da Hadi. Ma l’avanzata, secondo anche alcuni rappresentanti degli Stati del Golfo, è figlia anche dell’appoggio diretto dell’Iran.

Nel settembre 2014 gli Houthi controllano buona parte della zona a nord di Sana’a, mentre il presidente Hadi si dice pronto a coordinare colloqui con la formazione sciita.

La svolta arriva il 21 settembre 2014, quando gli Houhti infliggono pesanti perdite alle forze fedeli ad Hadi e penetrano fin dentro i quartieri centrali di Sana’a. La capitale dello Yemen di fatto appare adesso controllata dai seguaci degli Houthi.

Il presidente Hadi riesce però a rimanere al potere. Dopo l’arrivo dei miliziani di Ansarullah nel quartiere presidenziale e governativo, infatti, si attivano le Nazioni Unite che premono per un cessate il fuoco ed un accordo con il capo di Stato yemenita. Hadi si trova messo all’angolo: oltre all’arrivo a Sana’a delle milizie Houthi, il presidente deve constatare come una parte dell’esercito si rifiuta di intervenire contro Ansarullah e soltanto le truppe con a capo il generale Al Ahmar appaiono intenzionate a combattere contro gli sciiti.

L’accordo mediato dall’Onu prevede, tra le altre cose, un governo di unità nazionale. Ma gli scontri tra le parti continuano anche ad ottobre e novembre, con morti su entrambi gli schieramenti. Poco fruttuosi sono i tentativi di dialogo tra Hadi e gli Houthi sulla base di un comune accordo per una nuova Costituzione. A complicare il quadro è anche la ricomparsa all’interno dello scenario politico dell’ex presidente Saleh.

L’ex uomo forte dello Yemen, infatti, si mostra contrario alla permanenza al potere di Hadi. Quando il 7 novembre 2014 le Nazioni Unite impongono sanzioni allo stesso Saleh, il suo partito (il Congresso Nazionale del Popolo) revoca ogni incarico ad Hadi. Allo stesso modo, il Congresso Nazionale del Popolo assieme ad Ansarullah non partecipa alla formazione del nuovo governo di unità nazionale. Sono queste le prove generali per la nascita di una clamorosa alleanza tra Saleh e gli Houthi.

La situazione precipita definitivamente il 22 gennaio 2015. Le milizie sciite infatti assaltano il palazzo presidenziale e costringono Hadi alle dimissioni. Si tratta di un colpo di mano che consegna per intero Sana’a agli Houthi. Sono queste le ore che determinano tutti gli sviluppi futuri della guerra nello Yemen: con gli Houthi padroni di Sana’a, il Paese si spacca. Saleh ed Ansarullah diventano alleati. Ad Aden e nel sud dello Yemen, invece, le autorità governative considerano nulli gli ordini che arrivano da Sana’a e non riconoscono le nuove istituzioni al potere.

Lo stesso Hadi, dopo aver annunciato le dimissioni, rimane formalmente presidente e sposta il suo governo nel sud del Paese. Lo Yemen è diviso in due: a nord gli Houthi alleati di Saleh, a sud invece i fedelissimi di Hadi. Dopo aver preso Sana’a, i militanti sciiti continuano ad avanzare, prendendo parte di Taiz e arrivando fino alla periferia di Aden.

Da Riad l’avanzata Houthi non è certo ben vista. Il movimento sciita è legato a doppio filo con Teheran e, anche nel caso in cui le voci di finanziamento iraniano non siano veritiere, indubbiamente un successo definitivo di Ansarullah nello Yemen darebbe maggior linfa ai governi filo sciiti della regione.

Quando gli Houthi attaccano Aden, la preoccupazione saudita è massima. Nel giro di poche settimane vengono messi a punto alcuni piani di intervento, che hanno l’obiettivo di evitare la capitolazione di Aden e di far riprendere al governo di Hadi il controllo di Sana’a. I Saud appoggiano quindi il presidente in carica e le sue istituzioni, entrando in campo al suo fianco.

Il 5 marzo 2015 ha inizio l’operazione dell’Arabia Saudita contro gli Houthi nello Yemen.  Raid e bombardamenti interessano Sana’a, Taizz ed Aden, quest’ultima città rimane in bilico per diversi mesi prima della cacciata degli Houthi dalla sua periferia. Si ha dunque l’inizio definitivo della seconda fase della guerra nello Yemen, quella più cruenta e deleteria ancora in corso, in cui i principali protagonisti sono gli attori esterni al paese.

L’Arabia Saudita persegue due obiettivi: da un lato evitare che il Paese finisca in mano ad una forza sciita, dall’altro quello di effettuare vere e proprie prove generali di un vasto fronte filo sunnita che ha come perno Riad e i suoi alleati nel Golfo.

Non a caso, nel marzo del 2015, si inizia a parlare di “Nato araba“, guidata appunto dall’Arabia Saudita. I Paesi che danno subito appoggio alla coalizione anti Houthi nello Yemen sono gli Emirati Arabi Uniti, il Kuwait, il Qatar, il Bahrain, l’Egitto di Al Sisi, il Marocco, la Giordania ed il Sudan. Tra i Paesi del Golfo manca solo l’Oman, che persegue una politica di neutralità tra Arabia Saudita ed Iran, mentre oltre alle petromonarchie spicca la presenza di Egitto e Marocco.

Punto di forza della coalizione è l’aviazione, che può bersagliare i principali obiettivi degli Houthi senza la presenza di una forte contraerea. L’aviazione della coalizione saudita nello Yemen è così composta: cento aerei da guerra sauditi, tra cui F-15, Tornado Ids e Typhoon, assistiti dal velivolo tanker A330 ed elicotteri Cougar per il servizio di ricerca e salvataggio; trenta velivoli degli Emirati Arabi Uniti, quindici caccia del Kuwait, dieci mirage del Qatar, quindici F-16 del Bahrein, dell’Egitto e del Marocco, sei invece della Giordania e tre del Sudan.

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Quest’ultimo Paese appare quello maggiormente impegnato con le truppe di terra, oltre i sauditi. Riad inoltre si avvarrebbe anche di milizie mercenarie. L’uso intensivo dell’aviazione crea ancora oggi i disagi principali alla popolazione sia per le tante vittime civili che, di fatto, per la sistematica distruzione di infrastrutture di un Paese già povero prima del conflitto.

Dei Paesi originariamente integrati nella coalizione a guida saudita nello Yemen, risultano definitivamente usciti l’Egitto ed il Qatar. Doha, in particolare, a partire dal giugno 2017 è diventata oggetto di un embargo imposto da Riad come ritorsione per non aver preso del tutto le distanze dall’Iran e, almeno ufficialmente, per il finanziamento al terrorismo ed ai gruppi legati ai Fratelli musulmani. Anche il Sudan medita di uscire dalla coalizione. I due principali attori rimasti sono l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti.

Dall’altra parte della barricata, si assiste ad un principio di alleanza tra l’ex presidente Saleh e gli sciiti Houthi del partito Ansarullah. Una convergenza di interessi che porta due storici rivali, in guerra di fatto da quasi un decennio, ad unirsi contro l’azione a guida saudita nello Yemen.

Un’alleanza non solo politica ma anche militare. L’ex presidente Saleh infatti può disporre della Guardia Repubblicana, comandata dal figlio Ahmed Saleh, i cui uomini sono rimasti sempre al fianco del longevo capo di Stato yemenita.

In questo modo, Saleh può far ritorno a Sana’a dove stabilisce un proprio quartier generale e da dove si mette alla testa della parte dell’esercito vicina a lui e agli Houthi. I guerriglieri sciiti, dal canto loro, iniziano subito a far valere la propria conoscenza del territorio e la propria abilità nel destreggiarsi in zone impervie quali quelle del nord dello Yemen.

A dispetto di quanto pronosticato alla vigilia, la coalizione a guida saudita, nonostante l’ampio divario sotto il profilo tecnologico e militare, non riesce ad effettuare avanzate significative contro gli Houthi. Soltanto ad Aden, nel luglio del 2015, si registra l’allontanamento di Ansarullah, anche grazie alle milizie separatiste del sud, direttamente appoggiate dagli Emirati Arabi Uniti. Proprio ad Aden si stanzia il presidente Hadi, che sceglie la città come capitale provvisoria dello Yemen.

L’alleanza tra Houthi e Saleh appare importante per il fronte anti saudita soprattutto per l’utilizzo delle uniche armi che, di fatto, possono impensierire i Saud: i missili. La Guardia Repubblicana yemenita, infatti, tiene in custodia diversi missili a lunga gittata capaci di raggiungere il cuore del territorio saudita ed emiratino.

Tutto risale all’epoca dell’alleanza tra Saleh e Saddam Hussein, allora presidente dell’Iraq. Quando nel 1990 l’ex rais iracheno invade il Kuwait, Saleh è l’unico leader della penisola arabica a sostenere Saddam, pur condannando l’annessione del piccolo Stato del Golfo. A sua volta, Baghdad è tra i primi Paesi a riconoscere proprio in quell’anno l’unificazione dello Yemen.

Questa alleanza porta Saleh e lo Yemen all’isolamento internazionale. I sauditi cacciano un milione di lavoratori yemeniti, Sana’a viene progressivamente lasciata sola e, più tardi, viene inclusa anche nella lista dei paesi canaglia dagli Usa. Allo stesso tempo, però, Saddam dona a Saleh diversi missili . Vengono così trasferiti in Yemen numerosi  Al Hussein, i missili a lunga gittata elaborati da Baghdad: si tratta di scud sovietici rielaborati ed adattati, usati in alcuni casi anche durante la Prima guerra del Golfo.

Con l’inizio dei raid sauditi, gli Al Hussein vengono tirati nuovamente fuori dalla Guardia Repubblicana e con gli Houthi viene improntato un nuovo piano di sviluppo missilistico. In questo modo, lo sviluppo dei vecchi Al Hussein dà vita ai missili yemeniti chiamati “Borkan“. Non sono precisi e, tecnologicamente, appaiono di gran lunga inferiori a quelli in dotazione agli eserciti più avanzati, ma sono comunque in grado di mettere nel mirino sauditi ed emiratini.

A partire dal 2016 diversi missili Borkan vengono sparati verso Riad ed altre città importanti dell’Arabia Saudita, così come verso il territorio degli Emirati Arabi Uniti. Spesso i Borkan sono intercettati dai patriot in dotazione ai Saud, ma tanto basta per creare panico ed allarme tra la popolazione e rendere meno popolare il conflitto nello Yemen.

Tra Arabia Saudita ed Houthi scoppia una vera e propria guerra di nervi. I sauditi con i raid creano scompiglio tra la popolazione yemenita e a volte le bombe prendono di mira anche monumenti Unesco di Sana’a. A loro volta, gli Houthi provano a mettere pressione sulla popolazione saudita con il lancio dei vecchi scud rielaborati.

A marzo del 2018, un Borkan yemenita è stato abbattuto soltanto a pochi metri dal suo schianto a Riad. I frammenti hanno ucciso un cittadino di nazionalità egiziana e hanno provocato danni in alcuni quartieri residenziali, mentre un missile di contraerea patriot ha fallito il bersaglio precipitando sullo stesso suolo della capitale saudita. Si tratta di un esempio di come la strategia dei missili degli Houthi riesca ad incidere nella quotidianità della popolazione saudita.

La città più esposta ad attacchi del genere è senza dubbio quella di Najran, la più a sud dell’Arabia Saudita e a pochi chilometri dal confine con lo Yemen. Qui dal 2015 l’aeroporto è chiuso e la popolazione vive con lo spauracchio dell’artiglieria degli Houthi, ma anche di incursioni di terra dei miliziani sciiti. Da quando è iniziata l’offensiva saudita, spesso gli Houthi varcano il confine arrivando a spingersi quasi alla periferia della città.

Per questo e per altri motivi, la guerra scatenata dall’Arabia Saudita nello Yemen appare un insuccesso: pochi i guadagni territoriali in tre anni di azioni militari, tanti i caduti e le perdite di uomini e mezzi, al pari di una vera e propria guerra di nervi a cui spesso i Saud si sono fatti cogliere impreparati.

Dopo quasi un anno dall’inizio dell’offensiva saudita, lo stallo predomina lo scenario yemenita. I fronti appaiono stabili, poche le conquiste territoriali da una parte e dall’altra. I raid dell’Arabia Saudita non sono bastati a scalfire la situazione, dall’altro lato le tecniche di guerriglia degli Houthi hanno fatto in modo di preservare i territori presi nelle offensiva tra il 2014 ed il 2015.

In una situazione di stallo generale, dunque, emerge anche il problema dell’avanzata jihadista. Lo Yemen presenta vaste lande desolate e difficilmente controllabili anche in tempo di pace. In un contesto dove lo Stato appare quasi disintegrato, i gruppi terroristici già radicati nel Paese hanno potuto iniziare importanti avanzate nelle zone più impervie.

Tra il 2015 ed il 2017 in particolare, si registra l’emersione del terrorismo soprattutto nella parte centrale ed orientale dello Yemen. Al Qaeda, che in questo Paese ha una storica presenza, è il gruppo che maggiormente ha approfittato della situazione. I seguaci del movimento fondato da Bin Laden, nel 2000 sono protagonisti dell’attacco contro la Uss Cole, nave militare americana ormeggiata ad Aden. Dunque, già prima dell’11 settembre, l’estremismo islamico nel Paese arabo appare ben presente e pericoloso.

Da tempo, gli Usa hanno tolto lo Yemen dall’elenco dei “Paesi canaglia” per il via libera dato da Saleh ai bombardamenti contro basi di Al Qaeda nel Paese. Dal 2000, inoltre, Washington fornisce miliardi di dollari in aiuti militari ed economici in cambio dell’inserimento dello Yemen tra i Paesi che collaborano contro il terrorismo. La destabilizzazione dello Stato yemenita e la guerra scoppiata con l’Arabia Saudita donano linfa ad Al Qaeda ed ai gruppi ad essa affiliati. Vengono conquistate intere lande dove presumibilmente i terroristi hanno modo di impiantare campi di addestramento e vere e proprie basi.

Ma tra il 2016 ed il 2017, fa la sua comparsa nello Yemen anche l’Isis (Che cos’è lo Stato islamico). I miliziani del califfato iniziano a piazzare le proprie bandiere nere in altre zone del Paese poco controllabili e poco abitate. Non si ha, così come in Siria, una coalizione tra Isis ed Al Qaeda: i due movimenti acquisiscono territori differenti e con diverse modalità. Se Al Qaeda mira a controllare direttamente alcune zone, l’Isis non costituisce alcun califfato ma è ugualmente pericoloso grazie alle sue ramificazioni territoriali. Di recente, alcuni attacchi effettuati nella città di Aden mostrano come i seguaci di Al Baghdadi siano in grado di arrivare fin dentro i grossi centri.

La preoccupazione per il futuro riguarda il fatto che, tra crisi militare e politica ed una situazione in continuo stallo, il terrorismo islamico possa fare ancora più breccia all’interno del territorio e della società yemenita.

Anni di instabilità e di guerra, recano conseguenze nefaste alla popolazione civile. Lo Yemen, già prima del conflitto, appare come lo Stato più povero dell’intero mondo arabo con dati economici paragonabili a quelli dell’Africa più profonda. Le proteste anti Saleh prima e l’intervento armato saudita poi riducono economia e società dello Yemen a una situazione disperata.

A produrre maggiori danni non sono soltanto i raid. La guerra impone di per sé sacrifici alla popolazione, tra difficoltà nel reperire viveri e perdita di posti di lavoro con un’economia che, di fatto, si ferma aspettando i tempi del conflitto.

A peggiorare il tutto, c’è anche il blocco navale imposto dall’Arabia Saudita. Dai porti yemeniti non transita più nulla, né cibo e né medicinali. Per questo motivo, dal 2015 ad oggi sempre più cittadini dello Yemen patiscono la fame e muoiono per malnutrizione. La crisi umanitaria in atto nel Paese viene definita come tra le più importanti e catastrofiche degli ultimi anni. Intere famiglie non riescono a sfamare i propri figli, negli ospedali e nei posti di soccorso mancano medicinali e tanti feriti muoiono perché vi è impossibilità nel curarli.

C’è poi un’arma silenziosa, che non fa rumore e che non distrugge edifici ma che, probabilmente, rappresenta il pericolo più importante per la popolazione dello Yemen: si tratta del colera. Si calcola che almeno un milione di persone potrebbero contrarre questa pericolosa epidemia entro il 2018, in assenza di cure e di spazi igienici adeguati. L’impossibilità di accedere nello Yemen, inoltre, non facilita il compito di chi potrebbe portare cure e medicine adeguate nel Paese. Non mancano soltanto condizioni igieniche adeguate, ma anche la stessa possibilità che i medici entrino per cercare di evitare contagi ed alleviare una situazione drammatica.

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Le condizioni disumane in cui vive buona parte della popolazione yemenita, sia nei territori occupati dagli Houthi che in quelli sotto il controllo dei filo sauditi, sembrano sfuggire agli occhi dell’Occidente. Lo Yemen, nonostante una situazione di guerra che perdura da anni ed una condizioni terribile in cui vive la popolazione, non riesce ad occupare le prime pagine delle principali testate europee ed arabe. Dunque, quella in corso è una strage silente che sta avvenendo di fronte ad una comunità internazionale che, nel suo complesso, sembra non aver intenzione di puntare i fari su questo sfortunato Paese della penisola arabica.

Nessuna denuncia e nessun allarme mosso negli anni passati dalle organizzazioni umanitarie e dagli stessi organismi riconducibili alle Nazioni Unite, sembrano in grado al momento di smuovere le acque e fare in modo che, pur senza accordi politici ed a conflitto in corso, sia possibile quantomeno alleviare le sofferenze del popolo yemenita. In Yemen si muore sotto le bombe, per la fame e per le epidemie: dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi difficilmente è stato possibile riscontrare un tale degrado.

Dopo anni di stallo, una svolta sembra arrivare nel dicembre 2017. Ancora una volta è l’onnipresente Saleh ad essere protagonista di uno dei passaggi che ha rischiato di essere decisivi, all’interno del contesto della guerra nello Yemen. Tutto nasce il 2 dicembre, quando durante la festa del Mawlid, alcuni esponenti di Ansarullah appongono uno stendardo del proprio partito in una moschea a Sana’a. Questo irrita alcuni gruppi vicini a Saleh e ne nasce uno scontro a fuoco che in poco tempo coinvolge gran parte della capitale dello Yemen.

Ma tutto ciò appare solo un pretesto: tra Houthi e Saleh l’alleanza forse è già rotta da alcuni giorni. L’ex presidente yemenita, infatti, in quelle ore è molto attivo sotto il profilo mediatico ed il suo nome appare in diverse interviste rilasciate ad alcuni quotidiani della regione. Il filo comune dei suoi discorsi appare essere quello di un atteggiamento più morbido nei confronti dell’Arabia Saudita. Ma è quando si fa intervistare da Yemen al Yaoum, tv da lui controllata, che scoppia la vera scintilla: in quell’occasione, Saleh dichiara la fine definitiva dell’alleanza con gli Houthi, invita i gruppi a lui vicini ad abbandonare gli Houthi e detta le condizioni per attivare un tavolo di negoziati con l’Arabia Saudita. In particolare, viene chiesto a Riad lo stop ai bombardamenti e la fine del blocco navale: i Saud, dal canto loro, appaiono possibilisti.

Ma la reazione interna a questo discorso sorprende forse lo stesso Saleh. Molte delle sue forze, compresi interi reparti della Guardia Repubblicana, non sciolgono l’alleanza con gli Houthi e non mostrano alcuna volontà di aderire alle nuove richieste dell’ex presidente. Saleh, dal canto suo, intuisce la situazione e decide di scappare da Sana’a dove, nel frattempo, gli Houthi hanno attaccato il quartier generale della sua famiglia. Ma, mentre si trova poco fuori dalla capitale yemenita, il suo convoglio viene individuato: un cecchino o un commando forse degli stessi Houthi apre il fuoco ed uccide Saleh.

Non è chiara la dinamica della fine umana oltre che politica dell’ex uomo forte dello Yemen, l’unica cosa certa è l’assenza di dubbi sul suo decesso: il suo corpo senza vita viene infatti mostrato in un video a bordo di un pick up.

Come detto, buona parte della Guardia Repubblicana e delle forze fedeli a Saleh non abbandonano gli Houthi. Lo dimostrano i lanci di missili verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, circostanza questa che testimonia l’attività della Guardia Repubblicana al fianco degli sciiti di Ansarullah.

Ma è anche vero che l’uscita repentina di scena di Saleh provoca un vero e proprio contraccolpo. Sul piano militare, dal dicembre 2017 in poi gli Houthi appaiono sulla difensiva. La coalizione a guida saudita, anche se non guadagna molto territorio, riesce comunque a guidare l’iniziativa militare e gli sciiti sembrano arrancare.

Le difficoltà maggiori per gli Houthi si hanno nelle zone pianeggianti e costiere. L’esempio più lampante arriva dalla città di Hodeidah: principale porto del nord dello Yemen, in mano alla milizia sciita da tre anni, qui a partire dal mese di maggio la coalizione a guida saudita ha lanciato la più importante operazione via terra dal 2015. Per settimane gli Houthi sono costretti alla difensiva e perdono terreno nella periferia della città e sulla costa. Hodeidah appare strategica sia a livello militare che civile: da qui parte l’autostrada per Sana’a, così come in questo porto arrivano gran parte degli aiuti umanitari destinati alla popolazione visto che tutte le altre strutture subiscono il blocco navale saudita.

L’offensiva su Hodeidah viene quindi vista come decisiva. Ma, anche in questo caso, nonostante le difficoltà degli Houthi, la coalizione a guida saudita non è riuscita a centrare i suoi obiettivi. I militanti sciiti annunciano infatti di aver respinto l’assalto e di aver impedito lo sbarco di forza saudite ed emiratine dal mare. La situazione è in stallo ancora una volta, con le organizzazioni internazionali che lanciano l’allarme circa la paura per la popolazione civile: si calcola che almeno 800mila persone hanno lasciato l’area e si teme che l’unico porto fino ad oggi utilizzabile rischi di non poter essere più usufruibile.

Ad oggi, Sana’a e la parte nord dello Yemen appaiono saldamente in mano agli Houthi, i quali però arrancano lungo la costa settentrionale del Paese. Il sud dello Yemen è invece controllato dalle forze vicine ad Hadi e filo saudite, mentre la parte orientale appare poco controllabile e sono presenti sacche di Al Qaeda e dell’Isis.

A Mosca, durante gli ultimi anni dell’Unione Sovietica, si faceva notare la convivenza forzata di due centri di potere: da un lato quello dell’Urss di Gorbaciov e dall’altro quello della Repubblica federale russa di Eltsin. Con le dovute proporzioni, ad Aden accade la stessa cosa: da un lato il potere centrale provvisoriamente stabilitosi in questa città con Hadi presidente, dall’altro il potere del governatore della regione di Aden, Aidarous al Zubeidi.

I due sembrano inizialmente poter convivere bene, del resto sono finanziati dalla stessa coalizione e sono entrambi vicini ai sauditi. Ma qualcosa, dal mese di aprile 2017, inizia ad andare storto. Hadi, quasi a sorpresa, decide di rimuovere Al Zubeidi dal suo ruolo di governatore e questo fatto provoca diversi malumori tra la popolazione. Al Zubeidi, dal canto suo, si pone alla testa di milizie che si dichiarano separatiste e che danno vita al “Consiglio Nazionale transitorio del Sud“.

Hadi, nel mese di luglio 2017, denuncia un’eccessiva influenza degli Emirati Arabi Uniti in questa nuova formazione politico-militare, con Abu Dhabi in grado, secondo il presidente yemenita, di dare soldi ed armi ad Al Zubeidi. Uno scontro quindi tutto interno alla coalizione filo saudita, in grado di destabilizzare ulteriormente lo Yemen. La miccia vera e propria scatta lo scorso 28 gennaio: in quel giorno, infatti, scoppiano scontri tra milizie vicine ad Hadi e quelle fedeli ad Al Zubeidi. Nel giro di tre giorni, queste ultime sovrastano le prime e prendono possesso di Aden. Da quel momento, la seconda città yemenita è in mano al consiglio di transizione del sud con il presidente Hadi costretto alla fuga.

Che gli Emirati Arabi Uniti puntino al controllo del sud dello Yemen lo dimostra anche un altro importante episodio. Ad inizio maggio, infatti, circa cento uomini dell’esercito emiratino occupano l’isola di Socotra.

Sotto controllo yemenita da circa due secoli, l’isola rappresenta un avamposto importante a pochi passi dalla convergenza tra Golfo di Aden e Mar Rosso. Da qui passano gran parte dei commerci diretti poi verso il canale di Suez e, quindi, il Mediterraneo. Approfittando della debolezza del governo yemenita con a capo che Hadi, le cui forze controllano fino a quel momento Socotra, da Abu Dhabi parte l’ordine di inviare un contingente sull’isola. In poche ore vengono occupati il porto e l’aeroporto e Socotra passa sotto il controllo degli Emirati Arabi Uniti.

Il governo di Hadi parla di atto di aggressione, confermando in tal modo l’astio tra le due parti già trapelato con il presunto finanziamento delle milizie che occupano Aden. Potrebbe questo essere un episodio in grado, tra le altre cose, di creare un’altra grave spaccatura all’interno della coalizione a guida saudita.

Dopo mesi di stallo, nel novembre 2021 si ha una svolta nel conflitto. Le milizie Houti infatti riescono a prendere definitivamente la città di Hudaydah, importante porto del nord del Paese. La coalizione filo saudita si ritira da questo territorio vista l’impossibilità di difendere le proprie posizioni. In tal modo gli Houti possono avere a disposizione uno strategico scalo portuale in grado di servire la stessa capitale Sana’a. Inoltre, le milizie nello stesso periodo rivendicano avanzamenti anche nell’area di Marib, zona petrolifera di fondamentale importanza soprattutto sul fronte economico.

Dal canto loro però, le forze vicine all’Arabia Saudita annunciano controffensive sia nell’area di Marib che sulla capitale. Sana’a infatti è oggetto di intensi bombardamenti, soprattutto nelle aree dove si presume l’esistenza di grandi nascondigli di armi e missili a disposizione degli Houti. A livello umanitario, la situazione nello Yemen si fa sempre più complicata. Milioni di persone, per via dell’inasprirsi dei combattimenti, non hanno accesso a cibo, acqua, medicinali e altri generi di prima necessità.