La minaccia silente dell’Isis nel Kurdistan iracheno

La minaccia silente dell’Isis nel Kurdistan iracheno

(Sulaymanyya) “Se anche dovessi morire ne sarei orgoglioso, sarei un martire per il mio popolo”. Non smette di accarezzare il suo M4, Goran, mentre pronuncia queste parole. È uno degli agenti operativi più alti in grado tra gli Swat dell’Asayish, il corpo d’élites delle forze di sicurezza del Governo regionale curdo. Ottanta uomini divisi in sedici unità d’assalto con il compito di combattere il terrorismo interno. Siamo dentro alla base militare dove si addestrano. Un fortino. Il muro di cinta, alto più di tre metri, è sormontato da filo spinato e difeso da quattro torri di sorveglianza. Goran ci ha chiesto di fare l’intervista nella “Stanza delle Vittorie”. Alle pareti ci sono AK47, lanciarazzi, bombe, lame di varie dimensioni, cinture esplosive, bandiere. Cimeli di guerra. “Appartenevano ai soldati dello Stato islamico che abbiamo catturato o ucciso. Sull’altra parete ci sono le foto dei nostri martiri, caduti durante le operazioni”.

Durante la guerra gli Swat hanno sostenuto gli sforzi dei Peshmerga al fronte. “In molti sono morti, altri sono rimasti feriti.” Goran fa un cenno verso uno dei commilitoni che assistono all’intervista. Ha la parte destra del corpo paralizzata. “Un proiettile gli ha attraversato la testa. È stato un cecchino di Daesh.” Oggi, però, le attenzioni sono rivolte tutte all’interno: “Quella guerra si combatteva sul campo di battaglia. Ma dopo la sconfitta lo Stato islamico si è riorganizzato in cellule capaci di compiere azioni mirate. La nostra ultima operazione è stata solo poche settimane fa. Ci hanno informato che uno degli emiri di Daesh stava pianificando un attentato a Kirkuk con altri tredici uomini. Abbiamo fatto un raid nella casa dove stava e c’è stato un scontro a fuoco. Li abbiamo eliminati tutti”. I

n Iraq lo Stato islamico è stato dichiarato sconfitto nel dicembre 2017 ma per Goran la guerra non è mai finita: “Per il nostro Paese è ancora un pericolo ma noi ci addestriamo giorno e notte per eliminare il problema.” Le sue ultime parole si perdono tra i colpi sparati nel vicino poligono tiro.


Fotografie di Carlo Gabriele Tribbioli 

Le nuove tattiche dello Stato Islamico

Sulaymanyya è la seconda città del Kurdistan iracheno dopo Erbil. Si trova al confine con l’Iran. È una città moderna, costruita nell’800, e del suo recente passato non conserva quasi nulla. Colpisce invece la quantità di grattacieli, molti dei quali non finiti.

Il boom economico che ha seguito la caduta di Saddam Hussein si è arrestato di colpo quando è scoppiata la guerra contro lo Stato islamico. Certo, a Sulaymanyya gli scontri non sono arrivati e, anche durante le fasi più intense del conflitto, la vita ha continuato a scorrere normale. Eppure è sufficiente farsi un giro al bazar o prendere il tè in uno dei chioschi in strada, per capire che la calma è solo apparente. Ogni giorno, l’argomento sulla bocca di tutti è quanto accade nelle zone di confine tra la regione autonoma curda e l’Iraq. Sono territori da sempre contesi tra Baghdad e Erbil, per questo privi di reale controllo. È qui che i combattenti dello Stato islamico si sono nascosti: “Anche se non hanno più uno Stato sono sparsi sul territorio dove si sono riorganizzati in cellule. Sono ancora un pericolo per il Kurdistan”. È quanto ci dice Pshtiwin Hmad Mawlud, un ex Peshmerga che incontriamo al mercato: “Queste cellule hanno connessioni, soprattutto vicino a Kirkuk. Da allora hanno ripreso a fare attentati.”

Secondo Kurdsat, uno dei principali organi di informazione della regione, dall’inizio del 2019 si sono susseguiti rapimenti, attentati, imboscate, estorsioni. A fine giugno, a Kirkuk, due esplosioni hanno provocato la morte di una donna e il ferimento di altre 17 persone. Non mancano gli agguati contro forze di sicurezza e capi tribali accusati di collaborare con le autorità. Ma sono gli incendi di fattorie e campi l’ultima forma di guerriglia adottata dai jihadisti. Solo a maggio centinaia di ettari di coltivazioni sono stati dati alle fiamme nei distretti di Erbil, Diyala, Kirkuk e Nineveh. Come ci dice l’ex Peshmerga: “Hanno iniziato da poco a fare questo tipo di azioni e il raccolto di un intero anno è già andato perduto.

I curdi di Daesh

La capacità dei combattenti dello Stato islamico di nascondersi nei territori contesi solleva interrogativi sul consenso che l’ideologia jihadista esercita ancora in queste zone. Se innegabile è stato il contributo dei Peshmerga alla vittoria militare, non si può ignorare il numero di quanti, anche tra i Curdi, si sono arruolati tra le fila del Califfato. Una cifra che le autorità regionali stimano intorno ai 2000 combattenti. Alcuni di loro sono, catturati dall’Asayish, sono detenuti in un carcere di massima sicurezza vicino a Sulaymanyya. Dopo una lunga trattativa, ci autorizzano a incontrarli.

Per raggiungere il carcere occorre superare una mezza dozzina di posti di blocco. Si prosegue a passo d’uomo scortati dai blindati dell’esercito. Nell’ultimo tratto bisogna aggirare una serie di barriere di cemento armato. Una volta dentro ci conducono in una stanza spoglia, dove la luce filtra appena dalle finestre e un ventilatore fatica a muovere l’aria.

Dopo un’ora di attesa arriva Ardelan, ha appena 22 anni: “Mi sono unito allo Stato Islamico nel 2014, avevo 17 anni. Ero uno studente. Un mio amico mi ha detto di raggiungerlo a Mosul. L’ho fatto per la mia fede nel Corano. Chi prende le armi dona la propria vita a Dio. Abbandona ogni altra cosa per la morte. È una persona migliore per l’Islam.” Ardelan spiega così la sua scelta in favore della jihad. Quando gli chiediamo come si sentisse a combattere contro il suo popolo, risponde senza esitazioni: “I nemici della jihad sono i nemici del Corano. Se vengono convinti con la parola, va bene, altrimenti devono essere convinti con la violenza.”

Dopo un istante Ardelan attenua la sua durezza, forse perché realizza che nella stanza c’è un agente di sicurezza: “All’inizio i Curdi non erano coinvolti. Quando sono entrati in guerra non mi è piaciuto, ma non ho pensato di abbandonare.” Le ultime parole riguardano il futuro della jihad: “Non finirà mai. Anche se resterà una sola persona questa convincerà il figlio, e il figlio il nipote. E la jihad continuerà.”  Ardelan viene da Halabja, la città a sud-est di Sulaymanyya dove nel 1988 le armi chimiche dell’esercito iracheno hanno sterminato circa 5000 Curdi. Da allora la città è diventata il simbolo dell’identità nazionale. Ma Halabja non è solo questo.

Halabja è il centro dell’islamismo curdo

Negli anni cinquanta i Fratelli musulmani vi fondano il primo movimento per l’islamizzazione del Kurdistan. Ma soprattutto è qui che nasce Ansar al-Islam, il gruppo salafita che dà vita a una prima forma di emirato islamico del Kurdistan. È il settembre 2001, pochi giorni prima degli attentati a New York e tredici anni prima della nascita del Califfato di Al Baghdadi.

“Hanno attaccato una postazione dei Peshmerga nel villaggio di Xeli Hama, ne hanno uccisi cinquantasei. Quando abbiamo recuperato i loro corpi gli avevano amputato le mani, le braccia, ad alcuni la testa.” È quanto ci dice il comandante Peshmerga Jazza Jalal Hama Salil che all’epoca ha combattuto il gruppo islamista. Lo incontriamo in una vecchia fabbrica di tabacco a pochi passi dal centro di Sulaymanyya. “Dopo quel primo attacco si sono ritirati a Biyara e ne hanno fatto il loro quartier generale. Nel 2002 hanno ripreso gli attacchi.”

Nei territori occupati Ansar al-Islam impone la sharia e adotta pratiche di guerra che anticipano quelle del Califfato: attacchi sucidi, esecuzioni filmate di ostaggi, devastazioni dei luoghi sacri delle minoranze, conversioni forzate, eccidi. A capo di Ansar al-Islam c’è il mullah Krekar, un predicatore curdo che si è fatto le ossa contro i Sovietici in Afghanistan. Eppure, il comandante Peshmerga minimizza l’originalità curda del fenomeno: “I loro capi erano Curdi ma dietro c’erano Arabi e Afghani che li influenzavano. E comunque, se sono nemici del Kurdistan, vanno combattuti. Arabi o Curdi non ha importanza.”

Nel 2002 l’arrivo di Abou Moussab Al-Zarqawi porta in dote al gruppo la benedizione di Osama Bin Laden. Ansar al-Islam diventa la costola curda di Al Qaeda attirando le attenzioni degli Stati Uniti. Nel marzo 2003, con il sostegno dell’esercito americano, i Peshmerga riconquistano i territori intorno ad Halabja. Ma Ansar al-lslam non sparisce. Tra il 2005 e il 2007 firma attentati in Iraq. Durante la guerra in Siria combatte contro l’esercito di Assad. Nel 2014 si unisce al neonato Califfato di al-Baghdadi. “Non so se sia stata l’origine dello Stato islamico ma è la stessa ideologia. Forse si può dire che sia stata la stessa cosa. Di certo molti di loro si sono uniti allo Stato islamico”, ci dice il comandante Peshmerga ricordando come già nel 2009, in un’intervista, Krekar auspicava la nascita di un Califfato in Iraq.


Fotografie di Carlo Gabriele Tribbioli

Dal 1991 il mullah Krekar vive in Norvegia, dov’è oggetto di un decreto di espulsione che resta però sospeso. Il timore della autorità norvegesi è che, una volta in Iraq, possa essere giustiziato. In questi anni è entrato e uscito di prigione più volte. L’ultima a Oslo, il 16 luglio scorso. Il giorno prima il Tribunale di Bolzano lo ha condannato a 12 anni di reclusione in quanto leader della cellula di terroristi curdi Rawhti Shax. Nonostante gli arresti, negli ultimi venticinque anni, Krekar ha continuato a predicare l’islamizzazione del Kurdistan.

Oggi la sua influenza si sente soprattutto nella zona di Sulaymanyya, la città dov’è nato. È quanto ci racconta Harim, un giovane interprete che incontriamo in un caffè nascosto tra i vicoli del bazar: “Ha ancora un grande consenso. Parla attraverso youtube e Facebook. Molti giovani ne sono influenzati. Ho degli amici che lo ascoltano tutto il giorno. Pensano che possa essere un leader forte per il Kurdistan.” La società curda è moderata e tollerante. Nei negozi di alimentari si trova facilmente l’alcol e per strada è raro vedere donne con il velo integrale. Eppure, per Harim, la situazione sta cambiando anche per la propaganda di figure come il mullah Krekar: “Le persone oggi sono più attratte dai media islamisti. Sono più presenti. È una propaganda che ha influenza sulle nuove generazioni. Prima della guerra contro Daesh, per esempio, hanno creato il background culturale che ha spinto molti giovani a unirsi ai jihadisti. Credo che la radicalizzazione non possa che crescere.”

È lo stesso quadro che dipinge Mohammed, giovane ricercatore dell’American University, nato e cresciuto in uno dei quartieri più conservatori della città: “Questi predicatori usano social media, scuole online, classi in curdo. Non è chiaro chi stia rispondendo a questa narrativa. Ma posso dirti che alcuni dei miei amici si sono radicalizzati nelle moschee del mio quartiere e poi si sono uniti ai gruppi in Siria.” Per Mohammed Krekar ha successo perché si presenta come portavoce dei problemi del Kurdistan proponendosi come un’alternativa politica: “Pur essendo apertamente un jihadista, anche i laici lo ascoltano e ne sono attratti perché la jihad curda che professa per il Kurdistan è diversa da quella globale. È adattativa, si adegua ai problemi nazionali. Convoglia il suo messaggio contro il sistema al potere.” Krekar propone una jihad nazionalista che denuncia il sistema dei partiti percepito come corrotto da gran parte della popolazione. Proprio per questo, per Mohammed, può attrarre anche i più moderati: “Al di là dei radicalizzati, sotto la superficie c’è una popolazione di radicalizzabili. Persone che protestano contro il governo ma che per ora rifiutano la violenza jihadista. Eppure sono solo a un passo.” Secondo il Governo Regionale Curdo sono già migliaia, soprattutto tra i più giovani, le persone che si sono unite ai vari gruppi jihadisti in Iraq e Siria. Il rischio è che il volto gentile del Kurdistan Iracheno possa cambiare per sempre.