“Vi racconto come si vive nella capitale del Califfato”
“Mi chiamo Salah, ho 35 anni fino a tre settimane fa vivevo a Raqqa, la capitale dello Stato islamico. Sono fuggito in Libano, lasciando la mia casa, mia moglie e i miei due figli che però continuo a sentire segretamente per telefono, ascoltando i loro racconti su quello che sta succedendo”. La testimonianza raccolta dagli Occhi della Guerra a Beirut è di un esule siriano, fuggito da sole tre settimane dai territori controllati dall’Isis. Occhi e capelli scuri, carnagione olivastra, lo sguardo basso e un timido sorriso, Salah (chiamiamolo così) non è a suo agio di fronte alle telecamere. Non ha mai parlato con nessun giornalista e all’inizio non intende farlo. Raccontare al mondo la propria storia significa condannare a morte i suoi famigliari che ancora vivono a Raqqa. Non vuole farsi filmare né registrare. “Potrebbero riconoscere la mia voce” dice. Dopo giorni passati insieme, però, alla fine decide di aprirsi. E, pur rimanendo lontano da ogni riflettore, di raccontare la sua storia. La sua testimonianza narra di come inizialmente il regime di Assad fosse odiato dal popolo, dei “ribelli moderati” che erano in realtà dei meri banditi, della gioia di una parte della popolazione quando arrivò l’Isis. Della disillusione di molti quando Daesh iniziò a mostrare il suo vero volto.
“Sono nato a Raqqa da una famiglia di musulmani sunniti. Io e i miei fratelli siamo sempre stati degli agricoltori e ringrazio Dio di esserlo, altrimenti negli ultimi anni non saremmo sopravvissuti. Raqqa è sempre stata una delle città più importanti della Siria. Dove però il governo non è mai stato amato. Fin da quando sono piccolo ho ascoltato i racconti di come gli stessi esponenti della famiglia Assad abbiano, con le loro tesse mani, compiuto omicidi di massa contro persone indifese. Per questo c’era grande paura verso le autorità, soprattutto verso i servizi segreti, anche se alcuni avevano sviluppato la speranza che con la morte del presidente di Hafiz al-Assad e la salita al potere di suo figlio Bashar qualcosa sarebbe cambiato. Anche se Bashar ha inizialmente mostrato di essere più clemente del padre, i generali dell’esercito e dei servizi non sono cambiati. E i malcontento è rimasto profondo. Nel 2011 sono scoppiate delle enormi rivolte anti-governative. Più di 100mila persone sono scese in piazza nella sola Raqqa per protestare contro il governo, al grido di ‘Allah è grande’. La polizia ha risposto sparando sulla folla e con una repressione molto violenta ottenendo l’effetto opposto dal quello desiderato. Le proteste non si sono fermate, al contrario sono aumentate d’intensità perché molti hanno iniziato a viverle come una rivoluzione islamica contro il regime. La violenza tra i governativi e l’opposizione è esplosa e, incredibilmente, molti soldati delle forze armate si sono uniti alla rivolta, hanno aderito all’Esercito Libero Siriano (allora il più importante gruppo di opposizione armata) e hanno costretto i militari rimasti fedeli al governo a lasciare la città. Nonostante l’avversione popolare per il governo non tutti furono felici di questo esito. Alcuni dicevano che l’Esercito Libero Siriano fosse finanziato dagli americani (tali forze furono quello che Hillary Clinton definì “opposizioni moderate”), altri li accusavano di essere una forza non-musulmana. Sta di fatto che qualche settimana dopo il loro insediamento quasi nessuno poteva più soffrirli. I soldati erano semplicemente dei banditi che si misero a derubare e a compiere ogni tipo di violenza per arricchirsi ai danni del popolo. Fu così che quando qualche mese dopo Raqqa venne conquistata dall’esercito di Jabbhat al Nusra, che sconfisse l’ELS in battaglia, le sue truppe vennero accolte a braccia aperte.
Nusra impose una società fondata sulla sharia, lasciando però molte libertà ai cittadini. Le donne potevano avere il volto scoperto, gli uomini potevano indossare pantaloni anche stretti. In molti erano felici che un regime musulmano si fosse finalmente insediato, anche perché i miliziani di Nusra erano quasi tutti siriani e conoscevano bene il territorio. Chi non condivideva la loro autorità poteva andarsene senza troppe difficoltà. In qui mesi gli ultimi cristiani presenti lasciarono Raqqa e le ultime chiese vennero o sequestrate o abbattute. Anche Nusra, però, durò poco. Un giorno si presentarono alle porte della città le milizie di Daesh, si scontrarono militarmente con quelle di Nusra, le sconfissero e entrarono vittoriose in a Raqqa. Per loro vincere non fu difficile. Molti soldati di Nusra aderirono a Daesh immediatamente, facendo sì che la conquista della città diventasse un semplice passaggio di bandiera. A me, però, fu subito evidente come le differenza tra i due movimenti fossero marcate. Mentre Nusra era un movimento composto soprattutto da siriani, quasi nessuno dei soldati di Daesh che entrarono in città lo era. Tra di loro c’erano sauditi, tunisini, algerini, egiziani, iracheni, turchi, russi, yemeniti, cinesi, francesi, belgi, italiani. Alcuni di loro non parlavano l’arabo, ma solo la lingua del Paese in cui erano cresciti, nonostante tutti avessero origini in Paesi mussulmani. Ricordo che un giorno, camminando per strada, ascoltai la conversazione in una lingua sconosciuta di due jihadisti, che poi seppi stessero parlando in italiano. Daesh impose immediatamente una vita impostata sulla visione più ortodossa della sharia. Ogni persona era tenuta ad andare a pregare 5 volte al giorno, lasciando i propri negozi e le proprie attività. Chi non lo faceva veniva prelevato dai soldati e obbligato alla preghiera, altrimenti veniva ucciso. Le donne dovevano essere totalmente vestite di nero e non lasciare vedere nessuna parte nuda del loro corpo: gli occhi dovevano essere coperti, le mani avvolte da guanti neri. Gli uomini avevano l’obbligo di lasciarsi crescere la barba lunga e di indossare vesti larghe.
Le leggi che vennero imposte erano molto chiare: a chi rubava veniva tagliata la mano che aveva commesso il furto, chi beveva veniva sgozzato. Gli uomini scoperti a fare sesso prima o fuori dal matrimonio venivano uccisi con un colpo di pistola, le donne lapidate. Chi veniva scoperto con persone dello stesso sesso veniva buttato giù da tetto di una casa. Se sopravviveva alla caduta veniva poi ucciso a calci. Daesh non obbligava però nessuno ad arruolarsi tra le proprie fila. Chi non voleva doveva attenersi alle loro regole nella vita quotidiana. La maggior parte dei cittadini non si è arruolava. Alcuni lo hanno fatto per ottenere un lavoro. Senza la loro amicizia, infatti, è impossibile avere qualsiasi attività. Per vivere ho iniziato a vendere sigarette di contrabbando, dato che Daesh le aveva vietate. Poi ho però smesso, era troppo rischioso. Fumare era proibito e a chi veniva visto farlo veniva tagliato un dito. Allora sono tornato a lavorare la terra e per anni ho vissuto solo di quello che seminavo. Ringrazierò sempre Dio per avermi fatto nascere in una famiglia di contadini, senza la terra non avrei avuto scelta che chiedere un lavoro a Daesh. Da quando però è nato il mio secondo figlio le risorse hanno iniziato a non essere più sufficienti. Per questo ho deciso di andarmene. Nessuno, però, è autorizzato ad abbandonare lo Stato islamico. Per questo ho dovuto farlo segretamente, affidandomi a un’organizzazione clandestina di contrabbandieri di esseri umani. Insieme ad altre 5 persone ci hanno caricato su un carro bestiame, nascosti tra gli animali. Ci hanno portato dove una volta c’era il confine tra Siria e Iraq, che ora è stato abbattuto. Da lì fino a Palmira dove abbiamo cambiato camion, abbiamo lasciato la città e siamo usciti dai territori controllati da Daesh. Ho poi saputo che qualche giorno dopo Palmira è stata conquistata dalle truppe del regime. Una volta fuori da Daesh siamo andati a Damasco, dove siamo stati accolti dai soldati di Assad. Ci hanno tenuto in degli uffici, fatto una serie di domande e di controlli e poi lasciati andare in città. Da dove ho preparato i documenti per andare in Libano e una settimana dopo sono partito per Beirut, dove oggi vivo e lavoro come manovale. Sento sempre al telefono mia moglie, attraverso una linea telefonica turca. La situazione non è cambiata a Raqqa, la vita scorre come prima. Non so oggi che cosa ne sarà del mio futuro né del futuro di migliaia di persone nella mia stessa condizione. Il mio desiderio, ovviamente, è di tornare a casa, di vivere con la mia famiglia, di accudire mia moglie, di crescere serenamente i miei figli. Non so se questo sarà mai possibile. L’unica cosa di cui posso avere la certezza è che siamo tutti nelle mani di Dio. Fuggendo e vivendo sotto lo Stato islamico non ho potuto fare altro che affidarmi alla fede. Non amo esibirmi e per questo non mi faccio mai vedere mentre prego. Ma lo faccio 5 volte al giorno e ogni giorno che passa ringrazio Dio per tutto quello che ci dona. Mi auguro solo che la guerra non faccia perdere la fede a nessuno. Perché abbiamo tutti bisogno di Dio”.