Dentro il ristorante della strage
DACCA – “Mi dispiace molto per quello che è successo, non so come sia stato possibile”. Sadat Mehdi, il proprietario dell’Holey Artisan Bakery a Gulshan, la zona diplomatica della capitale del Bangladesh, è provato. Le indagini della polizia sono state appena chiuse e le autorità gli hanno riconsegnato le chiavi del ristorante. Siamo i primi giornalisti occidentali ad entrare nel luogo del massacro. Per ragioni di sicurezza, però, non possiamo fare riprese. Le forze dell’ordine stazionano fuori dal cancello che chiude l’accesso. Dopo qualche controllo arriva l’ok. “Potete andare”, dice il capo della polizia in servizio nella zona. “Ma non dovete assolutamente riprendere nulla, né foto né video”.
La strage degli innocenti
Doveva essere la sera di un venerdì qualsiasi. Una cena tra amici o di affari per i clienti. Una giornata lavorativa per cuochi e camerieri. Ma il primo luglio scorso non è stato così. Verso le 21.00, all’improvviso, un commando di terroristi che combattono in nome dell’islam radicale fa irruzione nel locale e semina il panico. Vogliono gli stranieri, gli “infedeli”. Cercano di capire chi dei presenti sia musulmano. Per farlo, chiedono di recitare il Corano. Chi non lo conosce verrà brutalmente ucciso. È un massacro. Alla fine di una lunga notte di spari e brutalità, rimangono senza vita 23 persone innocenti. Tra loro anche nove cittadini italiani, più il bambino che Simona Monti, una delle vittime, portava in grembo.
Dentro il luogo dell’orrore
All’interno del ristorante si vedono ancora i segni della violenza. Nei muri ci sono i fori dei proiettili, quelli dei terroristi e quelli dei reparti speciali della polizia che hanno provato a salvare gli ostaggi. Mentre guardiamo, alcuni operai stanno ripulendo tutto. Stanno cercando di sistemare, come per voler cancellare per sempre i segni di un orrore incomprensibile. Quell’orrore arrivato per mano di radicali figli della borghesia di Dacca. Mehdi, il proprietario, non vuole parlarci davanti alla telecamera. Ma continua a chiederci scusa. Ad un certo punto prende il cellulare e ci mostra le foto di come era il suo Holey Artisan Bakery prima di quel maledetto giorno. Bellissimo. “Qui la gente si divertiva e passava qualche ora di svago. Anche io sono musulmano e proprio non riesco a capire tutta questa pazzia”.
Volevano morire
In strada c’è silenzio. Non sembra di essere neanche a Dacca, dove i rumori dei clacson delle auto e dei motorini si sentono ovunque e a qualsiasi ora. Nella lunga via che porta al ristorante staziona solo la polizia. I controlli sono stati aumentati notevolmente e i checkpoint si vedono in ogni angolo. A meno di cento metri dal teatro della strage c’è l’ambasciata italiana. Poco più avanti quella russa. Molti diplomatici e stranieri erano clienti abituali. Ed erano proprio loro quelli che i terroristi volevano colpire. L’Holey Artisan Bakery si trova in fondo ad una via chiusa. Nessuna possibilità di uscita. I terroristi sapevano anche questo. E sapevano che non sarebbero sopravvissuti. Ma l’odio verso un troppo spesso indifferente Occidente, non li ha fermati.