Come muore un missionario
Siamo alla fine degli anni Ottanta e anche nelle Filippine del sud arriva il fondamentalismo. Il terreno è fertile, nella zona, infatti, sono già presenti numerosi gruppi musulmani con aspirazioni separatiste che hanno iniziato la loro guerra contro il governo di Manila e contro la comunità cristiana.
Quel periodo se lo ricorda bene padre Sebastiano D’Ambra: “In quegli anni a Zamboanga erano presenti molti integralisti islamici che arrivavano dall’Afghanistan, molti passavano anche davanti alla casa del PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere) di allora. Tra loro potrebbe essere passato anche Bin Laden”. Già, perché proprio Osama Bin Laden ha avuto stretti rapporti con i jihadisti presenti nella zona. Ed è grazie al suo finanziamento di sei milioni di dollari, fatto passare attraverso alcune organizzazioni umanitarie musulmane attive nel Mindanao, che nasce Abu Sayyaf Group (ASG), la costola filippina di Al Qaeda, successivamente affiliata allo Stato Islamico.In questo clima avviene l’uccisione del missionario italiano del PIME Salvatore Carzedda, arrivato nelle Filippine nel gennaio del 1977.“La crescita del fondamentalismo in questa zona è la causa della morte di padre Salvatore”, mi spiega Sebastiano D’Ambra, che lo conosceva bene e che, molto probabilmente, era la vittima prescelta dai fanatici di Abu Sayyaf.
È la sera del 20 maggio del 1992. Salvatore Carzedda sta tornando a casa dopo un incontro per promuovere il dialogo tra la comunità cristiana e quella musulmana, quando all’improvviso due persone in sella a una moto lo affiancano. Uno dei due estrae una pistola e spara otto colpi a distanza ravvicinata contro il missionario. Per padre Salvatore non c’è nessuna possibilità di scampo. Il furgone Mitsubishi sul quale sta viaggiando sbanda e finisce la sua corsa contro un palo di cemento.“Quella sera – racconta padre Sebastiano mentre ripercorriamo insieme la strada dove è stato freddato il missionario – dopo un incontro interreligioso, abbiamo fatto il punto della situazione ed io ho deciso di non far rientro a casa. Molto probabilmente il commando voleva colpire me”.Dopo l’uccisione di padre Salvatore la situazione diventa sempre più pericolosa per i cristiani. Abu Sayyaf avverte: “Come lui ne uccideremo altri”. Un giovane cattolico che incontro davanti a una bellissima chiesa in riva al mare, negli stessi luoghi dove ventiquattro anni fa è stato colpito il missionario italiano, mi dice che “ancora oggi per entrare a far parte del gruppo jihadista devi uccidere un cristiano, meglio se un prete”.
Ma Sebastiano D’Ambra si ricorda bene le parole che gli aveva detto l’amico missionario prima di morire: “Se ci sono io o non ci sono, voi andate avanti nel percorso del dialogo”. E così ha fatto padre Sebastiano. “Da quel giorno abbiamo un motto: Padayon. Che in lingua visaya vuol dire andiamo avanti”. Una parola che testimonia la forte determinazione dei cristiani che vivono in queste terre insanguinate dall’odio fondamentalista.