Le superstiti della scuola di Chibok
Sono sedute nella biblioteca dell’American University a Yola, nord est della Nigeria. Quattro ragazze che parlano, si confidano, che hanno capelli raccolti, anelli, orecchini e sorrisi difficili da decifrare. Sono volti che a un primo sguardo appaiono rilassati e che sembrano rincorrere la speranza: forse sembra addirittura che l’abbiano raggiunta. Ma non è così; perchè hanno in sé un qualcosa di recondito, un dolore profondo soppesato in silenzi improvvisi, in occhi che spesso si stagliano contro il vuoto e scavano nel passato senza tregua. Hanno un fardello incastrato tra la coscienza e la memoria, ed è quello che accompagna ogni sopravvissuto che deve fare i conti con la sua condizione di vincitore quando pensa alla vita che non gli è stata strappata ed il senso di solitudine da cui viene travolto quando invece pensa agli altri che non ce l’hanno fatta e all’ ingiustizia per ciò che è stato.
Si chiamano Marta, Glory, Mary e Grace: hanno dai 17 ai 19 anni e sono 4 studentesse che la notte del 14 aprile del 2014 erano nel collegio di Chibok. La notte in cui un commando di Boko Haram fece irruzione nell’istituto e rapì 276 studentesse. Loro sono riuscite a scappare, a mettersi in salvo e oggi, mentre provano a prendere parte a una piéce che mette in scena il ritorno alla vita, non riescono comunque scordare quei momenti che scorrono nei loro occhi e si materializzano in lacrime gemelle che scivolano sul volto come cicatrici indelebili dell’incubo. In 56 sono riuscite a fuggire ed è Marta, la più grande del gruppo, a ricordare quel momento: ”Era notte e a un certo punto abbiamo sentito delle urla; all’inizio non capivamo cosa stesse succedendo perchè c’erano uomini armati che dicevano di essere dell’esercito e che erano venuti ad aiutarci”. Si concede una pausa, guarda negli occhi le altre ragazze e poi, dopo aver ripreso fiato prosegue: ”Non avevano però delle divise, o meglio, solo alcuni indossavano delle divise; altri erano in abiti civili, altri ancora indossavano delle sciarpe che coprivano loro il volto. Ed è stato osservando queste figure che abbiamo iniziato a insospettirci e poi, quando abbiamo iniziato a sentire le urla Allah u Akbar, non abbiamo più avuti dubbi: erano i terroristi di Boko Haram”.
Quello che è accaduto quella notte è storia nota: le studentesse rapite, il villaggio isolato, la polizia senza le forze per reagire, le giovani portate nella foresta di Sambisa, i videomessaggi, le lacrime dei genitori e gli appelli del mondo intero che ha abbracciato la campagna mediatica lanciata da Michelle Obama, racchiusa nello slogan ”bring back our girls”. Ma l’angoscia, il terrore puro, senza filtri, ritrova la sua violenza atroce nelle parole che esplodono nel silenzio della libreria: ”Noi, spinte dall’istinto e dalla paura, che a volte pietrifica e altre invece ti dà la forza per reagire, siamo riuscite a nasconderci e a salvarci, ma quella notte ce la ricordiamo sempre: ritorna prepotente nei nostri ricordi. E soprattutto non scordiamo le nostre amiche”.
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Nella scuola oggi ci sono 21 ragazze che sono riuscite a mettersi in salvo la notte del 14 aprile 2014, altre 21 studentesse ad ottobre sono state rilasciate dal gruppo terrorista, un’altra ancora a novembre è riuscita a scappare; ma le altre? Quale sorte? Come stanno? Dove sono? ”Noi ci domandiamo in continuazione come stanno le nostre amiche e questa cosa non ci dà pace”. E ciò, sebbene oggi la vita delle giovani sia cambiata: studiano in un ateneo che garantisce loro un’istruzione all’avanguardia, hanno la possibilità di dedicarsi alle loro passioni e stanno partorendo sogni che sui libri si materializzano; Mary infatti vuole fare l’avvocato, le altre invece sognano un futuro in camice bianco: il ricordo però le riporta sempre là, a quella notte, agli attimi del terrore.
E, interrogate su che cosa vorrebbero dire a quegli uomini dal volto coperto e dalla violenza in corpo, se avessero modo di mandare un messaggio, all’unisono, come se stessero salmodiando un verso biblico, rispondono: ”Perchè! Questo vogliamo chiedere: perchè fanno tutto questo? Perchè le donne, i bambini, la gente comune? Perchè gli innocenti?”
Forse non avranno mai occasione di porgere questa domanda, o forse la faranno ma non avranno risposta; e questo per una ragione: non c’è un perchè. Il male è tale per tautologica natura e non ha bisogno di tardive o supposte legittimazioni: ha bisogno di orrore per nutrirsi e per infettare, così come ha fatto infettando del morbo della paura la vita di 276 ragazze, colpevoli solo di essere nate in una terra orfana ormai di ogni pietà.