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Dar es Salaam, casa della pace, un nome profetico per un villaggio poco distante da Bol dove vivono le vittime degli jihadisti di Boko Haram. Una plaga infinita di sabbia e capanne dove famiglie stravolte e sconvolte dall’odio e dalla paura trascorrono il presente in un infinito di ricordi di puro dolore senza amnesie. Zenaba Ali Abou, ha 36 anni e nel 2014 fu rapita, insieme al figlio ancora in fasce, dai ribelli di Shekau.
Le rughe che la tragedia le ha scolpito, come stigmate del dramma, le impietriscono il viso su cui si è cristallizzata una sofferenza senza speranza. ”Per due anni sono stata una loro schiava e mi hanno data in sposa a un soldato che ha fatto di me ciò che ha voluto e sono rimasta incinta. Io ho partorito quando ero prigioniera; poi, dopo un anno, una notte, ho preso i miei figli e, approfittando di una battaglia che era in corso, sono fuggita con un’altra donna.
Durante la fuga, non riuscendo a scappare con due bambini in braccio, ho dato il mio piccolo, quello nato dalla violenza, alla donna che era con me. Io ero consapevole che se fosse successo qualcosa a lei, avrei perso per sempre anche mio figlio. Ed è per questo che odio Boko Haram, perchè hanno spinto una madre ad accettare di abbandonare il proprio bambino. Fortunatamente, tutto è andato bene e oggi i miei figli vivono insieme e voglio per loro una vita felice, ma il senso di colpa e il dolore per ciò che ho fatto non mi daranno mai pace”.
Analoga alla sua è la storia di Mariam Hassan. Ha 20 anni, originaria del villaggio di Midi Kouta, oggi vive anche lei a Dar es Salaam, è seduta al di fuori dell’abitazione di fango e paglia in cui abita, un velo bianco le contorna il volto ed è intenta ad allattare il suo bambino: ”Venni rapita dagli uomini di Boko Haram e mi diedero in sposa a un soldato; credo che si chiamasse Mahamat, non ne sono sicura, ma non importa, voglio dimenticarmi di lui.
Ha abusato di me e sono rimasta incinta. Sono riuscita a fuggire poco prima di partorire e sono contenta che mio figlio sia venuto al mondo quando ero già libera e non sia nato anche lui da prigioniero. Io oggi ho solo lui: è lui il futuro!”, spiega la donna, mentre tiene il piccolo stretto al seno, e poi conclude l’intervista dicendo: ”Dopo quello che mi è successo, io sono la donna senza passato”.
Per comprendere l’orrore dello jihadismo occorre però fare un passo in avanti, superare il margine che divide vittime e carnefici, abbandonare quella solidarietà connaturata con gli innocenti su cui la tragedia si è abbattuta e spingersi invece a conoscere anche l’altro, l’artigiano della tragedia, l’esecutore della violenza, il cattivo della storia. E’ un confine pericoloso da oltrepassare, ma è doveroso farlo, perchè il compito è raccontare l’uomo che soffre, senza discriminazioni, anche quando ciò comporta l’avanzata del dubbio, l’incertezza della fede negli schematismi di giusto e ingiusto, la presa di coscienza che, forse, talvolta, il carnefice altro non è che una vittima votata all’orrore per obbligo, per necessità, per mancanza di possibilità di scelta difronte al rigorismo jihadista, che è un male antropomorfo, che mira alla cancellazione dell’uomo.
Abdoullaye Tidjani, ex soldato di Boko Haram, vive a Bol, ha trascorso tre anni della sua vita con indosso una mimetica, un passamontagna e un fucile d’assalto e oggi lavora in una falegnameria. E’ difficile immaginare quelle mani, che usano pialla e martellina e cercano redenzione in un mestiere di biblica sacralità, compiere stragi, premere il grilletto e sporcarsi di sangue innocente. ”Io sono nigeriano e facevo il commerciante.
Ero al lavoro quando i terroristi sono arrivati e hanno costretto me ed altri uomini a diventare dei combattenti. Chi non aderiva veniva ucciso. Mi hanno portato in un campo d’addestramento e subito è iniziata la formazione militare; una volta conclusa mi hanno mandato in battaglia. Prima di andare ad attaccare i villaggi o le postazioni dei militari ci facevano pregare e gli imam ci dicevano di uccidere perchè era il volere di Allah”. Poi l’ex ribelle islamista così prosegue: ”Continuavo a vedere gente uccisa senza ragione ed è arrivato un giorno in cui mi sono domandato: ”perchè?”.
Da quel momento non ho desiderato altro che fuggire. Una notte durante un’azione militare sono scappato e sono arrivato a Bol. E’ da sette mesi che sono qui e vorrei ritornare alla mia vita di sempre; ma come si può tornare indietro dopo tutto questo orrore?”.
Un interrogativo che permea anche il contingente di Halima Adama, la sola kamikaze, di cui si ha notizia, ad essere sopravvissuta ad un’azione nella quale avrebbe dovuto morire compiendo una strage. La donna ha vent’anni oggi e vive sull’isola di Gomirom Domou. Per incontrarla occorre navigare per ore su una piccola piroga a motore tra le acque del Lago Ciad. Le temperature sono infuocate, la paura di imbattersi in un drappello di uomini di Boko Haram nascosto tra i canneti o negli acquitrini accompagna per tutta la durata del viaggio, i soldati dell’esercito regolare non smettono di tenere le canne dei kalashnikov spianate e, solo quando l’imbarcazione attraversa un piccolo strato di limo e si arresta su una spiaggia arida e deserta, si comprende di essere arrivati sull’isola dove vive la donna che tutti oggi conoscono come ”la kamikaze”. Dopo una marcia tra rovi, cardi e sterpaglie ecco la capanna di frasche di Halima Adama: è seduta su una stuoia di rafia e subito decide di raccontare il suo vissuto.
”Quando avevo dodici anni sono stata data in sposa a un uomo che faceva il pescatore. Un giorno, nel 2016, mio marito mi disse che ci saremmo trasferiti su un’isola dove la pesca era più redditizia, ma mi ha condotta dai terroristi. Dopo un anno di indottrinamento è venuto a dirmi che mi aveva designata come kamikaze. Ero sconvolta, i capi mi convocarono, mi dissero che avrei compiuto il volere di Allah e che avrei dovuto fare una strage nel mercato di Bol. Poi mi drogarono e mi diedero la cintura esplosiva; non potevo oppormi, altrimenti mi avrebbero decapitata”. Ascoltarla significa guardare negli occhi un male terreno, che destabilizza, fa paura e sconvolge. E solo l’obbligatorietà della testimonianza resta come unico appiglio, cui aggrapparsi per non farsi sommergere dalla tragicità del racconto. Halima Adama accarezza la protesi delle gambe e prosegue: ”Eravamo un commando di 8 attentatori, uomini e donne ciadiane, nigeriane, nigerine e camerunensi, tutti loro avevano le cinture esplosive legate sul corpo, io invece la misi nella borsa; avevo troppa paura di morire. Quando fummo a tre chilometri da Bol, venimmo intercettati dai comitati di autodifesa. Gli altri kamikaze attivarono subito le cinture, ci fu l’esplosione, morirono tutti: i vigilantes e gli attentatori. Io fui l’unica a salvarmi, mi svegliai in ospedale senza gambe e senza più una vita.