
Vajont, la strage e l’ingiustizia
Alle 22:39 del 9 ottobre 1963, 270 milioni di metri quadrati di roccia si staccarono dal monte Toc e scivolarono alla velocità di 90 chilometri orari nel bacino artificiale creato dalla diga del Vajont, provocando un’onda che superò di 250 metri in altezza il coronamento della diga, e che in parte risalì il versante opposto distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso: vennero spazzati via i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, e la parte bassa dell’abitato di Erto. L’onda che superò la diga si riversò nella valle del Piave, dove vennero rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Faè, Villanova, Rivalta, e risultarono profondamente danneggiati gli abitati di Castellavazzo, Fortogna, Dogna, Provagna e Codissago.
Giuseppe Vazza è un sopravvissuto di quella tragica notte e all’epoca abitava, e tutt’ora abita, a Codissago e ci riceve nella sua casa ricostruita dopo la catastrofe. Come un mantra da diversi anni ripete la sua storia, quello che ha vissuto sulla sua pelle con la tragedia del Vajont, esattamente da quando Paolini con il suo spettacolo teatrale sul Vajont, andato in onda sulla rai nel 1993, gli ha dato il coraggio di raccontare.
“Si perché era diventata quasi una vergogna essere un superstite del Vajont” racconta Giuseppe “Nei momenti successivi al disastro molte persone, e anche una certa stampa di allora, dicevano di noi che eravamo imbottiti di soldi, con tutte le donazioni ricevute, e che quindi potevamo piangere i nostri morti con le tasche piene. Questo dicevano di noi. E non capitava di rado di trovare il cretino di turno per strada che ti diceva la stessa cosa. Oltre alla tragedia abbiamo subito anche l’umiliazione. E non ultimo l’ingiustizia.” Nonostante siano passati 60 anni, la rabbia e la sofferenza che ha Giuseppe è qualcosa che ormai gli appartiene da sempre e che non lo ha mai lasciato.

“Qui a Codissago avevo una macelleria e fornivo due mense operaie che lavoravano su in diga,” continua il suo racconto “per cui avevo un rapporto di lavoro diretto con il cantiere della diga, mi recavo su tutti i giorni a fare queste consegne. Per questo motivo era un pò a conoscenza di quello che stava succedendo. Mi sono capitati diversi fatti, ma uno in particolare mi ha colpito e impaurito molto. Venti giorni prima del disastro, un pomeriggio, mentre stavo consegnando la carne alla cuoca della mensa operaia che era sul pendio dell’invaso, abbiamo visto staccarsi l’ennesima fetta di montagna dal monte Toc che stava di fronte a noi al di là del lago. Questa frana cadde e sollevò un’onda, mi spaventai perché con quell’onda vidi la mia fine. Per fortuna l’onda si dissolse e non successe nulla. Rimanemmo entrambi sconvolti e senza parole, salutai la cuoca e rientrai alla macelleria. Un paio di giorni dopo tornai a consegnare la carne alla cuoca ma non la trovai, si era licenziata. Sapevo che aveva paura ma non fino a quel punto. La Sade l’aveva rimpiazzata con un’altra cuoca, una giovane ragazza che aveva appena avuto una figlia e l’aveva lasciata a casa con la nonna. La notte della tragedia sicuramente si è coricata come sempre nella baracca dove dormivano. Pare sia stata trovata 200 metri sulla parte opposta della frana, smembrata in mezzo ai rovi.
Io quella sera vigliaccamente ero al bar con gli amici, vi dico vigliaccamente perché potrete anche comprendere o capirete, c’era una partita importante, il Real Madrid contro il Glasgow di Londra e lasciai a casa mia mamma e i nonni che abitavano dietro. Mia moglie, che era in stato interessante, era andata via per un po’ di giorni da sua sorella e si è salvata, e diciamo che ha salvato anche me, sennò non sarei stato di certo con gli amici al bar. All’ora fatidica, cioè alle 22.39, è scoppiato questo finimondo, siamo scappati fuori dal bar e il bar è imploso su sé stesso, un rumore assordante copriva tutta la valle. Capisco subito che è la diga, dal bar a casa mia sono circa 150 metri e inizio a correre per poter svegliare mia madre e i nonni ed andare più in alto possibile, perché i “signori” ci avevano già inculcato da tempo che se avessimo sentito dei rumori provenire dalla diga avremmo dovuto andare più in alto possibile. E a questo ho pensato. Mentre corro vedo le luci di Longarone sparire come fossero state mitragliate e lì rimango sconvolto e terrorizzato. Arrivato vicino casa sono stato investito dalla prima ondata, che era di vento, un vento impossibile, un vento che ti strappava la pelle, non ti faceva respirare. Mi ha denudato dalla cintola in su, mi ha sollevato e riportato da dove ero partito. Correvo ma non toccavo terra e questo è un incubo che mi attanaglia da allora. Dopo un poco mi sono rialzato e l’acqua ha iniziato a defluire. Piano piano, a carponi, scavalcando macerie sono arrivato alla mia casa, che non c’era più, rasa al suolo. Abbiamo trovato il nonno dove abitava, il nonno era ferito ma ancora vivo.
Il giorno dopo arrivati i soccorsi fu trasportato in ospedale in elicottero, dove sopravviverà alcuni mesi e poi morirà. Mia nonna invece è stata trovata nel sottoscala dopo parecchie ore. Vivrà pochi giorni poi colpita da ictus morirà anche lei. Mia madre purtroppo non fu più ritrovata, né allora né mai. Io purtroppo della mia famiglia ho perso 14 familiari. Ma il dramma di queste 14 persone è che solo sette sono state ritrovate e questo purtroppo pesa su noi sopravvissuti. Stavamo aspettando che venisse l’alba, per capire cosa fosse accaduto a Longarone, allora già di Codissago mi ero fatto un’idea, la parte dalla chiesa in giù sapevo che non c’era più. Però di Longarone dove avevo diversi parenti non si sapeva ancora niente, i ponti erano stati spazzati via quindi non ci si poteva muovere. Alle sei, arrivate le prime luci dell’alba inizio a intravvedere qualcosa, mi pareva di aver visto nebbia. Quella che credevo fosse nebbia non era altro che una landa desolata di ghiaia e melma che luccicava alle prime luci dell’alba. E Longarone? Non c’era più, la chiesa, la ferrovia, la stazione ferroviaria, le industrie, le case, tutto spazzato via. E la gente? Dove sarà? Già si vedevano i primi soccorritori aggirarsi in mezzo a questi agglomerati più scuri, lì c’erano grovigli di piante e vittime. Con gli alpini abbiamo cercato mia madre per molto tempo, ma di mia madre niente…
Mio padre invece era fuori per lavoro in Africa, anche quello rientra dopo pochi giorni, non trova più la casa, non trova più sua moglie, suo padre destinato irreversibilmente a morire, diversi parenti morti. Anche quello aveva 52 anni, a 55 anni muore anche lui. E questo è il dopo Vajont. Il dopo per conto mio è stato più traumatico, più drammatico degli altri due aspetti, perché i morti del dopo non si raccontano mai. Vedete questi paesi erano paesi di emigrazione allora, e pertanto chi era fuori si era salvato, ma le loro famiglie, le loro mogli, i loro figli, sono morti tutti. E io avendo una attività pubblica, li conoscevo un pò tutti. E io quelle persone del dopo le ho viste autodistruggersi, una dopo l’altra, tragicamente, chi per una vita scorretta senza più un obiettivo, chi dal dolore, chi dalla rabbia, chi per suicidi anche. Nel giro di qualche anno li ho visti autodistruggersi. E quei morti lì dove li mettiamo? 1910 quella notte, tra i quali 702 riconosciuti, 740 corpi straziati sepolti senza nome e più di 400 mai ritrovati. Questo è il dramma della scienza di allora, la sconfitta della scienza”.
Ma la tragedia del Vajont inizia molto prima, già dagli anni precedenti i contadini dicevano: “Ma siete matti il monte Toc e un monte marcio, lo sanno tutti!” Tutti lo sapevano, ma la Sade andava avanti con gli espropri, rubando le terre e le case ai contadini e mandando fuori casa intere famiglie con bambini piccoli, incuranti di dove andassero a finire. La diga del Vajont fu costruita al confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia nella valle del Vajont, dalla Sade (Società Adriatica Di Elettricità) una società elettrica privata fondata nel 1905 a Venezia. I lavori di costruzione cominciarono nel 1957. Per gli studi geologici della zona fu consultato un famoso geologo austriaco Leopold Müller. In questo primo studio le sue indagini non rivelarono la paleofrana che poi sarebbe stata vista come causa determinante, anche se la conclusione fu comunque che realizzare un bacino idrico in quel luogo poteva causare frane. La Sade incaricò degli studi anche il geologo italiano Dal Piaz, considerato uno dei padri della moderna geologia in Italia, nonostante fosse già in pensione dal 1942 e ormai anziano. Fu lo stesso Dal Piaz a chiedere all’ingegnere Carlo Semenza, progettista della diga, di effettuare lavori per la Sade per la sua necessità di arrotondare la pensione da docente universitario. L’ingegnere Semenza nel frattempo valutò la possibilità di aumentare l’altezza della diga dai 200 metri previsti nel primo progetto a 263 metri. Fu così che la Sade presentò la domanda al ministero dei lavori pubblici nel 1957, La relazione geologica fu firmata da Dal Piaz ma non era sua. Infatti in una lettera Dal Piaz chiede a Semenza di preparare lui stesso una perizia geologica, che poi Dal Piaz avrebbe firmato. E fu proprio così che fu preparata la relazione geologica per l’innalzamento della diga, dove in contraddizione alle rilevazioni di Müller, Dal Piaz , o meglio Semenza, non riteneva che fossero presenti rischi concreti di frane pericolose. Solo nel 1959 il geologo Edoardo Semenza, figlio del capo progettista Carlo, ipotizzò la presenza di una paleofrana sul monte Toc, con un grave rischio di frana disastrosa. Il padre, letta la relazione, gli chiese di “attenuare alcune delle affermazioni più estremiste, tanto non cascherà il mondo”.

Nel frattempo, nel 1959 la diga era stata terminata ed era iniziata la prima prova di invaso. Il 4 novembre 1960, con il livello del lago a 650 metri sul livello del mare, vi fu una prima frana di medie dimensioni (800 mila metri quadrati). Contemporaneamente si aprì una immensa fessura sul monte Toc, a forma di M, lunga oltre 2500 metri. Ma il collaudo della diga doveva andare avanti lo stesso perché con la legge nazionale del 6 dicembre 1962 n. 1643, tutte le imprese elettriche vennero nazionalizzate, diventando proprietà dell’Enel (Ente Nazionale Energia Elettrica). Tutte le opere che producevano energia elettrica dovevano passare allo stato ma per il loro passaggio dovevano avere il collaudo. E la diga del Vajont non l’aveva ancora. Per ottenere il collaudo la diga doveva superare la prova del terzo invaso di 722 metri (s.l.m.). Per questo motivo la Sade andò avanti in fretta e furia con il collaudo e l’invaso nonostante i continui segnali di instabilità della frana, i terremoti, le frane ricorrenti. La Sade doveva cedere la diga all’Enel, spacciandola per impianto funzionante per capitalizzare il più possibile. Ma il problema maggiore per la Sade è che era una società quotata in borsa, quindi era di assoluto interesse della Sade mantenere il massimo riserbo circa i problemi che stavano insorgendo sul bacino del Vajont, dato che se la notizia fosse divenuta di dominio pubblico prima della cessione della diga all’Enel, il valore delle sue azioni sarebbero crollate. Inoltre restavano da incamerare la parte di fondi erogati dallo Stato come finanziamento all’opera e rimasti congelati per legge fino a dopo il collaudo. Il collaudo dell’impianto risultava quindi necessario per sbloccare questi finanziamenti. La Sade pur di terminare la diga e poterla cedere all’Enel procedette al terzo invaso superando quota 700 metri, quella che il professor Ghetti dell’università di Padova aveva ritenuto “di assoluta sicurezza”. Ma superata quota 700 la frana iniziò a muoversi con maggiore velocità. La possibilità di far staccare la frana era ben nota all’ingegnere Biadene, che aveva sostituito Semenza deceduto nel 1961, al capocantiere Pancini e ai collaboratori. Ma si decise di procedere ugualmente, forse nella consapevolezza che sarebbe bastato mettere in sicurezza gli abitanti più vicini al lago per evitare problemi. Durante la mattina e il pomeriggio di quel tragico 9 ottobre 1963, a causa dei movimenti impressionanti registrati dai capisaldi rispetto ai giorni precedenti, fu chiaro che la caduta della frana era imminente, tanto che molte località del Comune di Erto furono sgomberate durante quella giornata. Fu anche deciso di sospendere la circolazione stradale, sulla strada che dal paese di Dogna, portava alla diga e alla Valcellina, ma non vennero sgomberati i paesi del fondovalle e tutte le frazioni di Erto più prossime alle sponde dell’invaso per non creare troppo allarmismo. L’ingegner Biadene la mattina del 9 ottobre scrisse una lettera al capocantiere Pancini che si trovava in America, e alla fine della lettera scrisse di suo pugno un post scriptum: “Mi telefona ora il geometra Rossi dicendomi che le misure di questa mattina della frana mostrano essere ancora maggiori a quelle di ieri, raggiungendo una maggiorazione del 50%. Si nota anche qualche piccola caduta di sassi al bordo ovest della frana. Che Iddio ce la mandi buona…”.
A tal proposito Giuseppe Vazza continua il suo racconto: “Quella sera la strada che andava su alla diga era già stata chiusa dai carabinieri alle sette e non si poteva andare su, e quindi si sapeva anche il minuto, non l’ora della frana! Dalle 7 alle 22 e 39, quanta gente si sarebbe potuta salvare, ma chiediamoci, perché non l’hanno voluto fare? Anche io purtroppo avevo fiducia in quei tecnici che incontravo, non ero riuscito a connettere, a unire le preoccupazioni dei contadini, con le sicurezze dei geologi. Il geologo Dal Piaz con la sua piccozza batteva la roccia, buono costruisci! 200 metri doveva essere la prima diga, poi in fase di costruzione si sono accorti che se l’avessero alzata un pò di più l’invaso si allarga… quindi da 200 a 263 è stato un lampo, e i progetti? e i permessi? Chi se ne frega. Il presidente della provincia di Belluno da Borso, preoccupato, era andato a Roma per capire cosa stesse succedendo, è stato giù diversi giorni per ministeri. Una volta rientrato in un consiglio provinciale ha detto: “signori la Sade è uno stato nello stato per cui dobbiamo soccombere”.
“Il processo del Vajont si è concluso nel 1999, per trovare i responsabili. Subito dopo il disastro, il presidente del Consiglio dei Ministri di allora, che era Giovanni Leone, venne a fare visita a Longarone, mi ricordo che era lì dove c’era la chiesa di Longarone, sul tappeto rosso, c’era la gente e il vicesindaco protempore di allora, perché il sindaco era morto nella catastrofe, gli disse: “Eccellenza guardi che noi non vogliamo vendetta, vogliamo giustizia”. E il presidente Leone rispose, perentorio: “e giustizia sarà fatta!” Di li a poco il governo cadrà e Leone, non più presidente del consiglio, divenne capo del collegio degli avvocati della Sade-Enel. Nel processo, prese la difesa di chi aveva causato questa strage di innocenti. E allora che fiducia si può avere in istituzioni di questo tipo?”
Infatti il processo del Vajont fu una farsa e una presa in giro per tutte le vittime. Il processo penale ebbe luogo a partire dall’ottobre 1968 davanti al Tribunale de L’Aquila e si concluse il 25 marzo 1971, quindici giorni prima che maturasse la prescrizione, in Cassazione. Il processo si aprì con 11 accusati, Alberico Biadene (responsabile in capo della diga), Mario Pancini (capocantiere), Pietro Frosini (presidente consiglio superiore lavori pubblici), Francesco Sensidoni (ingegnere capo del servizio dighe), Curzio Batini (ispettore generale del genio civile), Francesco Penta (geologo del servizio dighe), Luigi Greco (presidente consiglio superiore lavori pubblici), Almo Violin (capo genio civile di Belluno), Dino Tonini (dirigente ufficio studi Sade), Roberto Marin (direttore generale Enel-Sade) e pure il professor Augusto Ghetti, tutti per vari reati, dall’omicidio colposo plurimo aggravato al disastro colposo di frana, al disastro colposo di inondazione, aggravati, per l’accusa, dalla previsione dell’evento. L’accusa chiese ventuno anni e quattro mesi di reclusione per tutti gli imputati, ma alla fine vennero tutti assolti tranne Biadene e Sensidoni riconosciuti colpevoli di inondazione, aggravata dalla previsione dell’evento, frana e omicidi. Biadene venne condannato a cinque anni, Sensidoni a tre anni e otto mesi, entrambi con tre anni di condono. Soltanto Biadene finirà in prigione, per un anno e 6 mesi. Alla fine i due maggiori responsabili della tragedia, Carlo Semenza, l’ingegnere progettista della diga e Giorgio Dal Piaz, l’anziano luminare della geologia che per bisogno di soldi aveva firmato delle perizie sulla valle dal contenuto accomodato, tale da nascondere il pericolo di frane catastrofiche, morirono poco prima del disastro del Vajont rispettivamente nel 1961 e nel 1962. Ancora più travagliato fu l’iter del processo civile. La vicenda processuale si concluse il 27 luglio 2000, dopo ben 37 anni dal disastro, con la firma dell’accordo definitivo per il risarcimento delle vittime e dei danni causati dalla frana da parte dei tre corresponsabili: Stato, ENEL e Montedison (ex Sade) che risarciranno a tutti i comuni colpiti una cifra totale di 450 milioni di euro.
“E le vittime? e i superstiti?” continua il racconto di Giuseppe Vazza “Quando racconto non posso non esimermi dal ringraziare tanto il popolo italiano, il popolo italiano è stato di una generosità incredibile sia a livello economico che a livello morale. La gente è venuta a infonderci coraggio, e la stampa di allora e la televisione aggiornavano continuamente le donazioni che le persone facevano a favore delle vittime del Vajont, ero orgoglioso di appartenere a un popolo così generoso. La Rai aveva già incassato miliardi di lire, le industrie donavano 20 ore di lavoro dei propri operai, e così via. Era veramente una corsa all’aiuto. Ma purtroppo questi soldi non sono mai arrivati a noi, nonostante i titoli cubitali dei giornali che dicevano che i superstiti del Vajont sono tutti imbottiti di denaro e con le tasche piene possono piangere meglio i loro morti. Questo dicevano i titoli, purtroppo questo è stato deleterio, veramente deleterio per noi superstiti e per anni mi sono vergognato di essere un sopravvissuto. Pertanto era meglio ignorare, almeno in quel modo potevi conservare la dignità del dolore che almeno quella ci apparteneva. Chissà dove sono finiti tutti quei soldi, chi se li è mangiati alle spalle dei morti. Per quanto riguarda i risarcimenti l’Enel nel 1965 ha istituito una transazione da fare con i sopravvissuti, con un pull di avvocati, periti, e quant’altro, che vennero sul territorio per fare una mappa dei sopravvissuti, di chi aveva perso che cosa, dalle vite umane ai terreni, dalle case alle attività. E soprattutto per convincere i sopravvissuti ad accettare una elemosina previa sottoscrizione che in futuro non si sarebbero mai interposti con atti giudiziari. E purtroppo questi sedicenti operatori, con pressioni di ogni tipo, di ogni genere, con intimidazioni, sono riusciti a convincere il 94% degli aventi diritto ad accettare questa miseria. Il 94% ma non per convenienza, ma per disperazione perché nel frattempo era dilagata la diceria che non si può andare contro la Sade e l’Enel, vi conviene accettare, meglio un uovo oggi che la gallina domani. Tutte queste persone avevano bisogno perché non arrivavano a fine mese. Sono state prese per disperazione. Perché se vedete quanto pagavano per i nostri morti, capirete perché sono andati avanti con l’invaso. Per un marito davano poco più di 2 milioni di lire, per una moglie 1 milione e 800 mila lire, per un figlio 1 milione e 200 mila lire, per una madre 600 mila lire. La Sade aveva capito che i morti sarebbero costati molto, ma molto meno dei vivi”.
La tragedia del Vajont fu un disastro annunciato fondato come spesso accade sull’avidità e il denaro. Progettisti e dirigenti occultarono le prove della frana in atto, guidati dall’interesse economico, in totale spregio della vita umana e della consapevolezza dei rischi che si correvano. Un crimine perché tutti sapevano e nessuno fece niente. Soprattutto lo Stato che doveva controllare.