Tossici di guerra

Tossici di guerra

“In Afghanistan la dipendenza dalla droga è un’enorme piaga sociale. Negli ultimi anni il numero di tossicodipendenti è aumentato considerevolmente ma ora il governo dell’Emirato sta conducendo una vera e propria battaglia per aiutare le persone che utilizzano le sostanze a risolvere il loro problema di dipendenza e per combattere ed eradicare la coltivazione del papavero da oppio”. Alhaj Muwlawi Abdul Nasir Munqad, direttore del centro di recupero per tossicodipendenti “1500 Bed National Drug Addicts Hospital”, è seduto nel suo ufficio all’interno dell’ospedale costruito in quella che, fino a pochi mesi fa, era una base delle truppe americane. Alle sue spalle campeggia la bandiera dei talebani e sulla scrivania una scultura ritrae l’Afghanistan e reca incisa la Shahada, la professione di fede musulmana che recita: “tutto appartiene ad Allah e Maometto è il suo Profeta”.

Il direttore del centro, folta barba nera, turbante, gilet e shalwar kameez bianco, con estrema pazienza e attenzione racconta del suo incarico. Lui è infatti una delle figure cardine della lotta alla droga a Kabul. Dirige il più importante centro di recupero, ha dato vita a un team di medici che si occupano di ricevere, curare e reinserire nella società le persone affette da dipendenza e ha organizzato unità di mujaheddin incaricate di affiancare i medici nelle attività di prevenzione, informazione e recupero dei pazienti. “Il nostro governo, ad aprile, ha dichiarato illegale la coltivazione del papavero. Noi vogliamo completamente eliminare il problema del consumo e delle vendita della droga. E bisogna farlo a diversi livelli: c’è chi combatte contro i trafficanti e chi per aiutare i consumatori a uscire dalla dipendenza, e questo è ciò di cui io sono stato incaricato”. Il direttore Abdul Nasir non ha timore e neppure fretta nel rispondere alle domande, spiega che secondo la sharia il consumatore non è considerato alla stregua di un criminale ma come un malato e per questo deve essere curato, precisa che nessun paziente subisce punizioni corporali e che l’utilizzo della forza nei confronti dei ricoverati è severamente vietata.

Afghanistan, Kabul. L’ospedale “1500 Bed National Drug Addicts hospital” gestito da Alhaj Muwlawi Abdul Nasir Munqad- talebano che ha combattuto 20anni sulle montagne, ed ex-prigioniero di Guantanamo- oggi ha esaurito la sua capacità di accoglienza.  Secondo i dettami della Sharia, il governo talebano, nonostante sia il primo Paese al mondo nell’esportazione di oppio ( stime calcolano tra l 80e il 90% della produzione mondiale ) sta cercando di contrastare la piaga interna del paese del uso di stupefacenti che interessa oltre 3milioni di persone.  L’ospedale non ha fondi garantire il supporto necessario ai pazienti che riversano in uno stato di totale indigenza

Poi, però, alla domanda in merito a quali competenze abbia in campo medico sanitario, improvvisamente si interrompe. Chiede di spegnere la telecamera e solo una volta accertatosi che l’apparecchio non  funzioni confida: “Io sono esperto di strutture carcerarie e penitenziari perché durante la guerra sono stato prima prigioniero a Bagram e poi a Guantanamo!”. 

E’ una confidenza destabilizzante perché costringe a guardare, conoscere e ascoltare l’altro andando oltre l’argine delle convinzioni date per certe, degli schematismi prestabiliti del giusto e dell’ingiusto e dell’irreprensibile certezza del proprio punto di vista. 

“Sono stato un leader talebano, un combattente e un guerrigliero. E’ vero. Ho combattuto contro gli americani. Ma voi non immaginate cosa ho subito in carcere. Io li ricordo ancora i cani che ringhiavano contro i prigionieri a Bagram e come venivano trattati gli afghani. Quando una persona è stata a Guantanamo o a Bagram, per lui, la parola perdono si svuota di qualsiasi significato. Ma vi racconto tutto questo perché se voi pensavate di trovare una ‘’Guantanamo” nel mio ospedale, vi sbagliate. Perché io non lo permetto. So cos’è la prigione e non infliggerò mai certe sofferenze al mio popolo. E adesso vedrete voi stessi come lavoriamo”. 

Un pick up con a bordo cinque combattenti talebani si prepara per recarsi al ponte di Pul e Shukta, punto di ritrovo e alloggio di centinaia di tossicodipendenti della città. Mentre percorre il caotico centro cittadino, Hussain, il capo del gruppo, spiega: “Stiamo andando a controllare la situazione. Non possiamo portare tutte le persone che vedrete nei centri di recupero perché al momento non abbiamo abbastanza posti ma, se qualcuno ci dirà che vuole essere ricoverato faremo in modo di indirizzarlo verso qualche struttura e intanto controlliamo se ci sono degli spacciatori. Per loro è previsto l’arresto”.

Afghanistan, Kabul. Il ponte Pul-e-Sokhta è il principale luogo di spaccio e consumo di Crystal meth ed eroina del Afghanistan. Diverse centinaia di tossico dipendenti ( junkies ) trascorrono la loro esistenza sotto il ponte nonostante da quando sia salito il nuovo governo si svolgano regolarmente retate da parte dei talebani

Il fuoristrada si ferma accanto a un canale. In mezzo alle acque di scolo  si muovono alcuni cani randagi e due uomini accucciati sono intenti a pulire le loro siringhe. Avvicinandosi e percorrendo l’argine si osservano dozzine di persone vivere tra le acque delle fogne di Kabul abbandonati a sé stessi, alla droga e con la propria disperazione cucita addosso come un marchio di infamia. Alcuni hanno creato giacigli di fortuna con coperte e cartoni, altri hanno scavato delle vere e proprie buche sottoterra nelle quali dormono esausti per la sostanza. I talebani avanzano circospetti con i kalashnikov in pugno osservando ogni movimento, ma è sotto al ponte che si palesa uno scenario orrendo e insostenibile. Centinaia di individui, impassibili e indifferenti alla presenza dei mujhaeddin, persistono nell’assumere la propria dose. C’è chi scalda l’eroina sulla stagnola, chi si stringe il laccio dei pantaloni intorno al braccio per gonfiare la vena, altri invece non smettono di fumare con delle pipe di vetro i cristalli di metanfetamina. Un ragazzo di neanche vent’anni è esanime in mezzo a rifiuti di ogni tipo con una flebo attaccata al braccio, un uomo ha il corpo completamente ricoperto di vescicole, ci sono giovanissimi e anziani consumati dalla dipendenza e uomini che hanno conosciuto nella loro vita soltanto la guerra, contro gli altri e contro di sé, e che ora stanno consumando al buio , tra l’afrore dei liquami, la canicola che oltrepassa i 40 gradi e i fumi bianchi delle pipe gli ultimi istanti della loro esistenza.

“Svuota le tasche!”, intima un talebano a un giovane uomo colto mentre frettolosamente nascondeva delle rupie nei pantaloni. Il ragazzo finge di non aver sentito ed esita ad obbedire all’ordine e subito il mujaheddin lo colpisce con il calcio del fucile. A quel punto, a testa bassa, senza il coraggio di affrontare gli occhi incendiati dall’odio dell’islamista, il giovane getta per terra della stagnola, delle siringhe e una manciata di rupie. Immediatamente i talebani gli legano le braccia dietro la schiena e lo trascinano sul pick-up. “Non puniamo i consumatori che l’Esecutivo vuole aiutare a uscire dalla loro situazione, ma le pene per gli spacciatori sono molto severe”.  

Oggi in Afghanistan il numero dei consumatori di sostanze stupefacenti si aggira intorno ai 3 milioni, ovvero più del 7% della popolazione ha problemi di tossicodipendenza. Un numero accresciuto a causa della crisi economica che dall’agosto del 2021 sta travolgendo il Paese. L’Afghanistan è il primo produttore mondiale d’oppio, l’85% della produzione globale avviene  nella valle dell’Helmand,  e quindi la facilissima reperibilità di sostanze psicotrope, la perdita di lavoro, l’assenza di prospettive, l’aumento della depressione e di un annichilimento generalizzato di ogni speranza futura hanno spinto sempre più persone a cercare consolazione e rifugio nella droga. A spiegarlo è il medico psichiatra Wahedullah Ikoshan , vice direttore dell’ospedale “1500 letti”. “La droga è un problema che investe tutto il mondo ma in Afghanistan è esponenziale. Noi stiamo utilizzando tutte le nostre risorse e i nostri mezzi per cercare di fermare il problema della dipendenza”.

Afghanistan, Kabul. L’ospedale “1500 Bed National Drug Addicts hospital” gestito da Alhaj Muwlawi Abdul Nasir Munqad- talebano che ha combattuto 20anni sulle montagne, ed ex-prigioniero di Guantanamo- all’oggi ha esaurito al sua capacità di accoglienza.  Il governo talebano, secondo i dettami della Sharia, nonostante sia il primo paese al mondo nell’esportazione di oppio ( stime calcolano tra l 80e il 90% della produzione mondiale ) sta cercando di contrastare la piaga interna del paese del uso di stupefacenti che interessa oltre 3milioni di persone. L’ospedale non ha fondi garantire il supporto necessario ai pazienti che riversano in uno stato di totale indigenza

Il medico racconta che ci sono due momenti attraverso i quali opera il personale sanitario. Il primo è quello più critico e riguarda la disintossicazione. “Quando i pazienti smettono con la droga affrontano dei giorni terribili. Crisi di astinenza, dissenteria, febbre, allucinazioni. I nostri operatori specializzati gestiscono questa fase molto delicata che dura di solito quindici giorni”. Mentre spiega le procedure adottate da medici e infermieri, il Primario mostra il padiglione dove sono ricoverati i giovani appena arrivati nella struttura. Un ragazzo piange avvolto tra le coperte mentre cerca di scaldare con le mani il corpo pervaso dai brividi, un altro uomo, immobile, osserva la luce che filtra dalla finestra, altri dormono sotto effetto dei tranquillanti, qualcuno fa degli esercizi di ginnastica, intanto dal piano superiore sopraggiunge l’eco di un singhiozzo lento e inarrestabile. “Se superano questa fase che è la più critica allora c’è davvero speranza che possano smettere con la droga e ricominciare una nuova vita. Noi, a causa della crisi economica, non abbiamo nemmeno i farmaci necessari per aiutarli ad affrontare la disintossicazione. Dipende solo dalla loro forza di volontà. E’ un momento estremamente delicato”.

Afghanistan, Kabul. L’ospedale “1500 Bed National Drug Addicts hospital” gestito da Alhaj Muwlawi Abdul Nasir Munqad- talebano che ha combattuto 20anni sulle montagne, ed ex-prigioniero di Guantanamo- all’oggi ha esaurito al sua capacità di accoglienza.  Il governo talebano, secondo i dettami della Sharia, nonostante sia il primo paese al mondo nell’esportazione di oppio ( stime calcolano tra l 80e il 90% della produzione mondiale ) sta cercando di contrastare la piaga interna del paese del uso di stupefacenti che interessa oltre 3milioni di persone

Dopo la prima fase i pazienti vengono trasferiti in un secondo padiglione dove inizia un vero e proprio processo di riabilitazione. “Abbiamo palestre, laboratori di artigianato, un barbiere, delle mense. Cerchiamo di fare il possibile per accompagnarli in una nuova fase della loro vita ma il problema è che non abbiamo abbastanza risorse. Loro dovrebbero ricevere pasti molto calorici perché hanno anche una situazione fisica debilitata. Quello che possiamo fare è dare a loro soltanto tre piatti di riso al giorno”.

In enormi camerate alloggiano centinaia di uomini. Hanno corpi talmente magri da poter vedere le ossa del costato e occhi infossati e pervasi da una stanchezza infinita. Molti si lamentano della mancanza del cibo, quasi tutti confidano di aver iniziato a utilizzare l’eroina perché senza lavoro e senza prospettive e poi c’è Maidan Nwardak, che ha 24 anni, è seduto sul suo letto ed è ben visibile l’amputazione che ha subito al suo braccio destro.

Afghanistan, Kabul. L’ospedale “1500 Bed National Drug Addicts hospital” gestito da Alhaj Muwlawi Abdul Nasir Munqad- talebano che ha combattuto 20anni sulle montagne, ed ex-prigioniero di Guantanamo- all’oggi ha esaurito al sua capacità di accoglienza.  Il governo talebano, secondo i dettami della Sharia, nonostante sia il primo paese al mondo nell’esportazione di oppio ( stime calcolano tra l 80e il 90% della produzione mondiale ) sta cercando di contrastare la piaga interna del paese del uso di stupefacenti che interessa oltre 3milioni di persone.  L’ospedale non ha fondi garantire il supporto necessario ai pazienti che riversano in uno stato di totale indigenza. 

“Ero in un parco, una bomba posizionata in un carretto dei gelati è esplosa e la deflagrazione mi ha investito. È così che ho perso il mio braccio, il mio lavoro e mi sono ritrovato in mezzo a una strada e ho iniziato a fumare eroina. Ora son qua, spero di ricominciare una nuova vita quando esco ma a volte mi chiedo che prospettive possano esserci per una persona nel mio stato”. L’uomo, estremamente lucido, dice che non ha parenti e neppure amici, siede in silenzio prega e confida nella provvidenza di Dio per il suo domani. 

E infine, a bassa voce, sussurra: “Sapete chi mise la bomba che mi ha ridotto così? I talebani. Prima mi hanno rovinato e ora cercano di salvarmi”. Si accomiata in questo modo Maidan, con una chiosa rivelatrice del volto più recondito dell’Afghanistan: