Sri Lanka, tra crisi e speranza

Sri Lanka, tra crisi e speranza

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Aragalaya, Aragalaya, Aragalaya!”, in singalese significa “lotta”. È il grido del popolo dello Sri Lanka che da mesi risuona per le strade del Paese. Lo scorso marzo, in tutto lo Stato in migliaia hanno dato vita a proteste spontanee contro le difficoltà causate dalla più grave crisi dall’indipendenza, avvenuta nel 1948, dall’Inghilterra. Queste proteste hanno presto assunto la portata di un movimento di massa. È la prima volta che il popolo srilankese si trova unito per una causa comune. La profonda corruzione della classe politica ha portato a una crisi economica che da anni grava sulla nazione, esacerbata dalle conseguenze della pandemia di Covid-19. Il progressivo assottigliarsi delle riserve di valuta straniera ha compromesso la capacità del Paese di importare beni fondamentali quali carburanti, medicinali e cibo. Il contemporaneo aumento dell’inflazione, che ha raggiunto vette del 70%, ha provocato un generale aumento dei prezzi, mettendo così ulteriormente in difficoltà una popolazione già pesantemente provata.

Protestare per un cambiamento totale

“La maggioranza delle persone in Sri Lanka sono povere, come quanti praticano l’agricoltura, i pescatori, gli operai …”, mi racconta Padre Jeewantha Peiris, attivista sociale e portavoce del movimento di protesta. “Un cambiamento totale è importante altrimenti così non si può andare avanti. Questo mi ha spinto a venire a Colombo il 9 aprile dove è nata una occupying protest, cioè un accampamento spontaneo di tutti coloro che volevano partecipare alla protesta”, mi spiega mentre sediamo nel giardino sul retro di una delle principali chiese cattoliche di Colombo. Lunghi capelli corvini tirati indietro, indossa sempre un semplice saio bianco cinto da una fascia nera. “Abbiamo allestito tende nel Galle Face Green, l’area adiacente alla Segreteria presidenziale [n.d.r.]. Per la prima volta nella storia dello Sri Lanka diverse etnie e religioni si sono ritrovate insieme. Era una vita di comunità. È stato molto significativo vedere riuniti buddisti, cristiani, musulmani, induisti, però attivisti per i diritti umani, uniti dal sogno del cambiamento.”

Padre Jeewantha Peiris, sacerdote cattolico, è divenuto portavoce del movimento di protesta. Si batte per far conoscere al mondo la situazione in Sri Lanka e per la scarcerazione di molti attivisti detenuti dall’inizio delle proteste in violazione di leggi internazionali sui diritti umani e della Costituzione dello Sri Lanka.

Prima di venire violentemente smantellato lo scorso luglio dalla polizia, il sito era diventato rapidamente il luogo di riferimento delle proteste e prese il nome di GotaGoGama, che tradotto significa “Gota Go Village“, chiara espressione del principale obiettivo dei manifestanti: le dimissioni dell’ex presidente Gotabaya Rajapaksa. Insieme al fratello e vice presidente Mahinda Rajapaksa sono accusati di corruzione e nepotismo, e di aver governato per anni sfruttando le ricchezze della nazione a proprio beneficio. “Abbiamo creato una biblioteca grandissima” prosegue Padre Peiris, “dove ognuno poteva donare libri e le persone che venivano alla protesta potevano leggerli, tenerli per sé o donarli ad altre biblioteche. Era bellissimo. Cantavamo insieme, perché abbiamo iniziato a promuovere l’espressione della protesta attraverso la musica, il cinema, il teatro, attraverso studi universitari. Abbiamo infatti creato un’università del popolo. Ogni giorno c’erano attività dove le persone si riunivano e ragionavano insieme su quale sarebbe la miglior politica, quale sistema politico, cosa bisogna cambiare, quale sistema economico sarebbe migliore per lo Sri Lanka. Non un capitalismo venuto dall’esterno”.

Il “Galle Face Green” di Colombo, capitale dello Sri Lanka. È qui che tra aprile e luglio 2022 prese vita il grande accampamento del popolo della protesta, il “GotaGoGama“.

In un Stato che nel 2009 ha finalmente visto la fine di una sanguinosa guerra civile durata trent’anni e costata circa centomila morti, nonostante la presenza di centinaia di persone di ogni fascia demografica, occupazione, etnia, estrazione sociale o religione, il clima al GotaGoGama è rimasto sempre incredibilmente ordinato e pacifico. Almeno fino al 9 maggio.

Una donna mostra la bandiera nazionale gridando il suo dissenso nei confronti del governo e della grave crisi che colpisce la nazione.

“È stato un attacco da parte dei militari”, mi spiega Padre Peiris. La sua espressione finora calda e distesa si fa all’improvviso più seria, e non mi è difficile cogliere il profondo dispiacere nella sua voce mentre ricorda. “Eravamo lì verso il pomeriggio gridando i nostri slogan. Abbiamo visto alcuni politici radunarsi presso la casa del vice presidente. A un certo punto abbiamo visto arrivare questi gangster per assaltarci con barre di metallo, oggetti vari e tanta rabbia. Sono venuti con l’aiuto dei politici, perché era presente sia la polizia che l’esercito e abbiamo pensato fossero venuti per proteggerci. Ma non è andata così. Hanno invece iniziato ad attaccarci. Molti sono stati feriti e caduti a terra sanguinanti. Hanno anche bruciato le nostre tende. Non sapevamo cosa fare, volevamo restare pacifici. Poi la polizia ha iniziato a lanciare lacrimogeni e usare i cannoni ad acqua, invece di proteggerci perché stavamo protestando democraticamente. Molti di noi sono stati portati all’ospedale.” Nel corso del pomeriggio però è successo qualcosa di inaspettato.

Una giovane attivista affronta la polizia schierata a sbarrare la strada verso la Segreteria presidenziale.

“Molti di noi mostravano al mondo cosa stava accadendo con dirette streaming. È stato allora che, spontaneamente, tanta gente ha iniziato a venire in nostro soccorso. Lavoratori che erano in ufficio in città sono venuti ad aiutarci, ma anche molte persone da fuori. Migliaia di persone ci hanno difeso da quelli che erano venuti a colpirci. Così li hanno cacciati via. Quel giorno, il 9 maggio, tutto in Sri Lanka è cambiato. La rabbia del popolo è uscita come un vulcano”, conclude Padre Peiris con nella voce un rinnovato vigore. Nonostante la giornata si sia conclusa con l’istituzione dello stato di emergenza e del coprifuoco da parte del governo, il “popolo della protesta” è ritornato al GotaGoGama ripristinandolo in poche ore.

Al grido “Aragalaya”, a marzo 2022 migliaia di persone hanno dato vita a proteste spontanee in tutto lo Sri Lanka contro la corruzione della classe politica, ritenuta responsabile della grave crisi economica e alimentare che affligge il Paese.

Dal 9 maggio è però anche iniziata una forte repressione delle proteste da parte dello Stato. Nel corso dei mesi in diverse centinaia tra attivisti e manifestanti sono stati incarcerati, molti di loro sotto il cosiddetto Prevention of Terrorism Act, meglio conosciuto come PTA, la legge sulla prevenzione del terrorismo. Inizialmente approvata nel 1979 come misura temporanea per contrastare individui o gruppi di persone che cercavano di provocare un cambio di governo, è divenuta permanente nel 1982. Questa legge, oltre a consentire al governo di emettere ordini arbitrari che limitano la libertà di espressione e di associazione senza diritto di appello in tribunale, permette una detenzione arbitraria fino a 18 mesi, senza necessità di accuse formali e spesso in violazione del diritto al giusto processo. A distanza di quarantatré anni dalla sua approvazione come legge temporanea, il PTA è usato tutt’oggi dal governo dello Sri Lanka come minaccia e strumento per colpire e limitare le libertà di minoranze, attivisti, giornalisti e voci critiche, in piena violazione delle leggi internazionali sui diritti umani e della stessa Costituzione dello Sri Lanka.

Durante le proteste, un gruppo di donne urla i nomi degli attivisti incarcerati a causa della repressione governativa esercitata tramite il PTA.

Due mesi esatti dopo gli eventi di maggio, il 9 luglio, come in una pentola a pressione, le difficoltà quotidiane, i prezzi ormai alle stelle e la pesante repressione delle manifestazioni hanno fatto esplodere definitivamente la rabbia e il malcontento della popolazione chiamata a raccolta nella capitale. Fin dalla mattina migliaia di manifestanti si sono riversati come un fiume in piena nelle strade dell’area metropolitana, gli autobus diretti a Colombo straripanti di persone, tanto che in molti hanno camminato anche 20, 30 km per unirsi alla protesta. Il target questa volta fu la casa dell’ex presidente Gotabaya Rajapaksa.

Con migliaia di manifestanti radunati tutt’attorno, presto la polizia inizia a colpirli con cannoni ad acqua, lacrimogeni e manganelli. Verso l’una di pomeriggio, dopo che si è sparsa la notizia della fuga del presidente, nonostante la presenza della polizia e dell’esercito un gran numero di persone sono riuscite a sfondare e invadere l’abitazione, situata a poca distanza dal campo del GotaGoGama. Quel giorno viene assaltata anche la Segreteria presidenziale e incendiate le abitazioni di alcuni ministri. In quest’ultimo caso si ritiene si sia trattato di persone supportate da politici di partiti rivali dei Rajapaksa, che hanno sfruttato il caos generale per screditare le proteste e trarne vantaggio. Il presidente Gotabaya Rajapaksa, dopo aver riparato in Thailandia, ha presentato le sue dimissioni il 14 luglio. Al suo posto pochi giorni dopo è stato scelto dal parlamento il già sei volte primo ministro Ranil Wickremesinghe, un politico dai molti legami interni al parlamento e considerato dai politici l’uomo forte in grado di contenere le proteste, a sua volta accusato di corruzione e con a carico pesanti accuse di violazioni dei diritti umani e violenze nel periodo della guerra civile.

Un’anziana signora prende parte ad una manifestazione con partecipanti di ogni etnia, fede religiosa ed estrazione sociale, a novembre 2022.

La crisi del settore agricolo

Nel frattempo, le Nazioni Unite stimano che più di 8 milioni di persone, cioè più di un terzo della popolazione, si trovi in condizioni di insicurezza alimentare. A causa dell’aumento dei prezzi e del costo della vita molte famiglie sono costrette a scegliere fra cibo, medicine o educazione dei figli. La questione alimentare in Sri Lanka è particolarmente delicata. Sull’isola infatti una grossa parte della popolazione è in qualche modo legata ai settori dell’agricoltura o della pesca, entrambi pesantemente colpiti dalla crisi. Infatti, le attuali proteste hanno forse le loro origini nell’aprile 2021 con le prime forti manifestazioni di dissenso da parte degli agricoltori a causa dell’improvviso bando, da parte dell’allora governo del presidente Gotabaya Rajapaksa, alle importazioni di fertilizzanti chimici. Inizialmente promossa come misura per convertire lo Sri Lanka nel primo Paese al mondo con agricoltura totalmente biologica, si rivelò successivamente essere una misura fondata sulla necessità di limitare l’uso di valuta straniera per le importazioni, le cui riserve nella banca centrale iniziavano già ad assottigliarsi pericolosamente.

Un venditore di prodotti agricoli osserva le proteste di novembre a Colombo. La crisi dell’agricoltura e i prezzi del cibo in costante aumento hanno portato lo Sri Lanka sull’orlo dell’insufficienza alimentare.

In Sri Lanka circa un quarto della popolazione dipende dall’agricoltura per il proprio sostentamento, per cui se il settore viene colpito gli effetti negativi si ripercuotono sull’intera nazione. Tale misura, messa in atto con scarsissima pianificazione e senza dare il tempo agli agricoltori di adeguarsi, ha pesato enormemente sull’industria agricola dello Sri Lanka, con una drastica diminuzione della produzione interna divenuta al contempo più costosa. Nonostante il governo abbia poi cercato di correre ai ripari concedendo i fertilizzanti chimici su licenza, l’aumento dei prezzi stava già spingendo il Paese sull’orlo dell’insufficienza alimentare, favorendo al contempo il fiorire del mercato nero per i fertilizzanti. Per dare un riferimento, un chilo di pomodori era passato da costare 40 rupie fino 300, 400, a volte 1000 rupie. Le cipolle dall’India sono oggi vendute a circa 40 rupie al chilo, mentre quelle locali vengono circa 200 rupie al chilo, rendendo chiaramente più conveniente l’importazione per alcuni prodotti agricoli piuttosto che produrre localmente. Ciò ha provocato la vendita o l’abbandono di un gran numero di terreni coltivabili.

“Anche se all’inizio è stata dura siamo riusciti ad adeguarci”, mi racconta Fayaz, agricoltore di 42 anni originario di Puttalam, nella Provincia Nord-Occidentale. “Abbiamo iniziato a produrre noi stessi i fertilizzanti di cui abbiamo bisogno. Sono del tutto biologici e ricavati principalmente dagli scarti di lavorazione del pesce”. Fayaz possiede terreni di considerevole estensione che gestisce insieme al fratello, dando impiego a diversi lavoratori della zona. “Nonostante siamo indipendenti per i fertilizzanti, i costi di produzione restano alti. Tutto costa di più, soprattutto l’energia elettrica, il che ci ha costretti a smettere di usare alcuni terreni e metterli in vendita. Qualcuno li ha comprati ma altri restano semplicemente incolti. Inoltre è diventato difficile pagare gli stipendi ai nostri lavoratori, e abbiamo dovuto lasciare a casa alcune persone che lavoravano per noi da anni”, mi racconta mentre mi accompagna a visitare i suoi appezzamenti, e ci troviamo ai bordi di uno dei campi che ha dovuto smettere di coltivare. Insieme a noi c’è suo fratello, i suoi due figli e i due nipoti. Il paesaggio è bellissimo.

Fayaz, 42 anni, è imprenditore e agricoltore nella Provincia Nord-Occidentale dello Sri Lanka. Alle sue spalle, un terreno che ha dovuto smettere di lavorare a causa degli alti costi di produzione, e uno che ancora coltiva grazie al fertilizzante che produce lui stesso.

Siamo a poca distanza dalla costa occidentale, il terreno è piatto come una tavola e dal fondo sabbioso, e ciononostante sono riusciti a farlo rendere, ma proprio per questo l’uso dei fertilizzanti è fondamentale, altrimenti molte coltivazioni morirebbero. Le palme dominano la vista da ogni parte, mosse costantemente da una leggera brezza. Quel che salta agli occhi è il netto contrasto tra il giallo sabbia dei terreni incolti e il verde intenso delle coltivazioni che vi si alternano.

Insieme ai suoi figli, Fayaz mostra uno dei terreni che è stato costretto a vendere
per contenere i costi di produzione.

Pescatori in difficoltà

Non se la passano meglio i pescatori, anzi. Si stima che in Sri Lanka, su 22 milioni di abitanti, oltre il 10% della popolazione sia impegnato nella pesca, o che in qualche modo ne dipenda. È un settore poco meccanizzato e uno di quelli maggiormente impattati dalla crisi dei carburanti. Si tratta per lo più di piccole imbarcazioni con a bordo in genere un paio di persone. I costi della benzina ormai rendono le uscite quasi una scommessa. In passato il carburante per le imbarcazioni costava 87 rupie al litro (circa ai 25 centesimi di euro), ma per la crisi il prezzo è schizzati fino a 370 rupie al litro (quasi un euro), ben il 200% in più, ed è frequente che quanto pescato non basti a coprire i costi.

La maggior parte del settore ittico singalese è composta da piccoli pescatori, per i quali i mancati guadagni si traducono nell’impossibilità di sfamare le proprie famiglie.

Il governo è accusato di ignorare la gravità della situazione e l’aumento vertiginoso del costo del carburante è per molti pescatori divenuto insostenibile. A causa della crisi, oltre il 75% di loro ha abbandonato il settore. Chi resiste, per tentare di contenere le spese operative e consumare meno carburante si spinge meno al largo, mantenendo il raggio d’azione entro le 5 miglia dalla costa. Ma nonostante il mare attorno all’isola sia molto pescoso, a questa distanza la quantità di pesce è notevolmente inferiore. Ciò va a vantaggio dei molto meglio attrezzati equipaggi stranieri, soprattutto da India e Cina, che possono così sfruttare le risorse delle acque srilankesi.

Il magro bottino di un piccolo peschereccio mostra le conseguenze dell’aumento dei prezzi del carburante: i pescatori si mantengono entro poche miglia dalla costa per consumare meno benzina, ma a quella distanza la quantità di pesce è minore. Spesso il pescato sarà appena sufficiente a coprire i costi.

“Ho tre barche. Oggi tutte e tre sono rientrate in perdita. Anche se il pescato non è sufficiente a coprire tutti i costi noi proprietari delle barche dobbiamo comunque pagare il salario agli equipaggi.” Mohammad Qasim Ayoub è un pescatore di Arugam Bay, località situata sulla costa della provincia orientale dello Sri Lanka. Sguardo fiero e deciso dietro a un paio di occhiali da vista. Riusciamo finalmente a scambiare due parole al riparo di una pergola sulla spiaggia durante una pioggia passeggera al termine di una calda mattinata, dopo che anche l’ultima delle sue barche è rientrata e il poco pescato è stato scaricato e venduto.

Un pescatore di Arugam Bay mostra il pesce appena pescato dagli equipaggi della baia.

“Al mercato nero la benzina costa 750 rupie al litro”, mi racconta, “e per alcuni non ci sono alternative. Il carburante disponibile spesso non basta, ma questo ovviamente aumenta ancor di più i costi”. Il pescato degli equipaggi della baia è venduto principalmente alle famiglie o ai ristoratori locali. Con la quantità sempre minore di pesce con cui i pescherecci rientrano al porto, molto difficilmente ne catturano abbastanza da poterne vendere anche al mercato di Colombo.

Ad Arugam Bay, sulla costa orientale dello Sri Lanka, alcune persone attendono in coda
per comprare il pesce appena pescato.

Crisi economica ed emigrazione

In un simile contesto, dove il prezzo del cibo a dicembre 2022 è del 65% più alto di un anno prima, non è da sorprendersi che chi può tenti di lasciare il Paese. Nel solo mese di giugno 2022, l’Ufficio per l’occupazione all’estero dichiara che più di 200.000 persone sono partite per lavorare fuori dallo Sri Lanka. Molti di questi si sono diretti verso paesi del Medio Oriente, pronti ad approfittare della crisi economica singalese per importare manodopera a basso costo. Dall’inizio di questa crisi si parla invece di più di un milione di persone emigrate, e i locali raccontano che in estate lunghe code all’ufficio passaporti erano quotidiane. Inoltre, sono molti quelli che si rivolgono ai trafficanti per raggiungere altri Stati, principalmente del Sud-Est asiatico, non potendo contare su di un minimo di risparmi o un passaporto valido per affrontare il viaggio legalmente.

“A causa della crisi anche molti medici hanno lasciato lo Sri Lanka per dirigersi verso paesi occidentali. Nel corso degli ultimi dieci mesi circa 550 medici hanno lasciato lo Stato, alcuni di loro senza nemmeno notificarlo al Mistero”, mi spiega il Dr. Vasan Ratnasingam, portavoce dell’Associazione degli ufficiali medici governativi (GMOA). “È una situazione pericolosa e il governo dovrebbe intraprendere le misure necessarie a sostenere i medici del Paese per mantenere efficiente il sistema sanitario. Ma attualmente la fuga di cervelli è diventata inevitabile a causa della cattiva gestione e pianificazione. D’altro canto non abbiamo nemmeno adeguate scorte di medicinali o apparecchi medici. In passato, durante la guerra civile, è successo lo stesso”, mi spiega. “Medici e professionisti lasciavano il Paese. A guerra finita abbiamo potuto trattenere molti professionisti e dottori che sono poi passati da 600 ai circa 3000 di oggi. Ma sfortunatamente a causa dell’attuale crisi economica stiamo ritornando al punto di partenza.”

Anche se lo Sri Lanka produce circa il 15% dei medicinali che necessita, le materie prime sono importate da altri stati, il che lo rende virtualmente dipendente da altri paesi per il proprio fabbisogno.

Le influenze regionali

Secondo l’Osservatorio Economico del Ministero italiano, lobby e clientele condizionano pesantemente la vita economica e politica dello Sri Lanka. Come altri stati asiatici è fortemente indebitato con la Cina, il che dà a Pechino un’influenza rilevante su Colombo. La Cina è infatti il principale partner commerciale dello Sri Lanka grazie ad enormi investimenti fatti nel Paese e in particolare nelle sue infrastrutture, e il governo Rajapaksa è stato fortemente criticato e accusato di aver svenduto l’isola al Paese del dragone, divenendone sempre più dipendente. A questo si contrappone il forte interesse che l’India ha nei confronti del vicino paese insulare; anche Nuova Delhi infatti sembra individuare in questo difficile momento per lo Sri Lanka una valida opportunità di investimento. Così, mentre lo Sri Lanka sprofonda nella recessione e la popolazione è sempre più provata, nelle stanze del potere si gioca la competizione tra India e Cina, due superpotenze in costante ascesa sul palcoscenico internazionale.

Nel corso delle proteste dello scorso novembre una donna esprime con un gesto eloquente la situazione in cui si trova gran parte della popolazione a causa della crisi economica.

Prima di salutarlo, chiedo a Padre Peiris che visione abbia del prossimo futuro del Paese e delle proteste. “Anche se continuo ad essere parroco,” mi spiega, “non smetto di portare avanti il mio impegno nella protesta. Il mio ruolo è di coordinare diverse persone insieme agli altri rappresentanti dei gruppi di attivisti e fare arrivare il nostro messaggio alla comunità internazionale. Spero che ci sarà un altro momento in cui il popolo si radunerà, magari anche attraverso nuove elezioni. Perché questo governo non rappresenta il volere del popolo. La mia speranza è che ci possa essere una nuova società, perché per 74 anni abbiamo sofferto questo sistema. Sarà un cammino molto difficile, ma sono convinto che ci sono persone pronte a dare la vita e le loro energie per il cambiamento sociale.”