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Chernobyl
Una ferita ancora aperta
Una ferita ancora aperta
Chernobyl, una ferita ancora aperta
Il 26 aprile del 1986, nella centrale atomica di Chernobyl situata in Ucraina, furono inviati da tutta l’Unione Sovietica i cosiddetti “liquidatori”, per contenere il disastro e liquidare le conseguenze dell’incidente. Dal 1986 al 1988 furono mandate 600mila persone e il Kazakistan fornì 60mila uomini. Di questi oggi ne rimangono vivi solo 3mila. A Semey c’è un piccolo museo dedicato a Chernobyl e a quegli eroi dimenticati.

È stato fatto proprio dall’associazione dei liquidatori di Chernobyl del Kazakistan, per non dimenticare quella tragedia. Inoltre in Kazakistan i liquidatori di Chernobyl sono due volte vittime delle radiazioni: non solo di Chernobyl ma anche del poligono di tiro di Semipalatinsk.
Il primo liquidatore lo incontriamo a Semey, in una piccola stanza del museo che raccoglie ricordi e le reliquie di chi ha vissuto direttamente quella tragedia e che adesso non c’è più. Ci riceve Kaisanov Soviet, vice direttore dell’associazione di volontariato in favore degli invalidi di Chernobyl della città di Semey, e anche lui liquidatore.

“A quel tempo nessuno ne sapeva nulla perché dopo quanto accaduto l’argomento era stato immediatamente secretato. Io ne sono venuto a conoscenza soltanto dopo il 9 maggio. All’epoca prestavo servizio nell’esercito e tutti i militari furono inviati laggiù. O meglio, non soltanto i militari, ma anche unità civili specializzate. Io ho partecipato all’operazione nel 1988, anno in cui sono stato inviato a Chernobyl per tre mesi. Sono rimasto a Chernobyl per 83 giorni consecutivi, vivevamo a 13 – 15 chilometri di distanza dalla centrale nucleare.

Lavoravamo giorno e notte senza sosta, a nessuno era permesso andarsene, e tutti gli accessi erano regolati da un rigoroso sistema di lasciapassare. C’erano divieti ovunque, ogni luogo era interdetto. In questo modo ho trascorso a Chernobyl 83 giorni della mia vita. Dopo Chernobyl, nel 1990, ho iniziato ad avvertire i primi sintomi della malattia. Inizialmente mal di testa, poi ho avuto un attacco di cuore. Però all’epoca ero giovane, non gli ho dato il giusto peso e ho continuato a lavorare senza neppure consultare un medico. Poi, verso la fine del 1990, tutti coloro che presero parte alle formazioni inviate a Chernobyl furono convocati nei locali dell’ospedale distrettuale, sottoposti a una visita e messi al corrente della situazione. Ma io volevo considerarmi sano con tutte le mie forze, tanto da rifiutare l’invalidità che mi era stata riconosciuta. Finché, nel 1997, ho dovuto accettare lo status di invalido.”
Il secondo liquidatore lo incontriamo proprio a Kurchatov, la città militare che serviva il poligono dei test delle armi atomiche di Semipalatinsk.

Juri Berezuev vive qui: “Nel 1986 siamo stati i primi incaricati alla liquidazione dei danni provocati dall’incidente di Chernobyl. Appena arrivati a Pripyat ci siamo spaventati, perché tutti indossavano maschere e camici bianchi. Certo era agghiacciante, ma l’essere umano finisce per abituarsi a tutto. Ci siamo guardati attorno e abbiamo capito il senso del nostro lavoro. Inizialmente è stato uno choc, poi tutto si è normalizzato e abbiamo iniziato a lavorare Volevamo essere d’aiuto, perché si era verificata un’enorme disgrazia, era terribile, nessuno sapeva cosa fare e come farlo. Io ho voluto farlo. I primi a partire lo hanno fatto volontariamente, come noi”.
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“A quel tempo, il 26 aprile del 1986, avevo quasi trent’anni. Quando arrivammo, la legge marziale era già in vigore, noi eravamo stati richiamati in qualità di personale militare, indossavamo l’uniforme, e soltanto allora ci spiegarono quello che era successo. Da quel momento tutto ci fu chiaro. Ci illustrarono i nostri compiti, esattamente com’era in uso nell’esercito. Si usciva al mattino e si rientrava alla sera, tutto secondo una tabella di marcia prestabilita. Fummo tutti dotati di speciali uniformi militari, impregnate di una qualche sostanza sconosciuta, e fino all’inverno lavorammo alla dismissione dei centri abitati, di villaggio in villaggio. Tutti gli abitanti erano già stati evacuati, non era rimasto nessuno, i villaggi erano completamente deserti, delle vere e proprie città morte.

Alcuni ragazzi dovettero entrare nel quarto blocco, furono impiegati là dentro. A me non capitò mai, grazie a Dio non mi ci mandarono, perché sicuramente chiunque abbia lavorato là non è sopravvissuto. Sono rimasto di stanza laggiù per due mesi e mezzo. Poi, nel mese di novembre del 1986, ci hanno rimandati a casa. Molti di coloro che hanno prestato servizio assieme a me oggi non ci sono più. Alcuni sono rimasti invalidi, altri si sono ammalati gravemente. Oggi ho la possibilità di raccontarvi questa storia, una storia inusuale per le giovani generazioni. Perché non ci siamo accorti di niente, nessun odore, nessuna traccia, nulla tranne la polvere. È stato terribile…è stato terribile…”.