
Viaggio negli internati in Bielorussia
Quarantena a vita
Il 26 aprile è stato il 34esimo anniversario dell’incidente di Chernobyl. Per uno strano scherzo del destino, quest’anno aveva un sapore diverso. La pandemia ha infatti costretto il mondo a uno stop, a un momento di raccoglimento, quasi ai domiciliari, o in libertà vigilata.
Ci sono molte attinenze con l’incidente nucleare. Ancora oggi c’è chi si porta dietro l’eredità di Chernobyl e deve passare la sua intera esistenza in “quarantena”. Come in Bielorussia che ha ricevuto da Chernobyl il 70% delle ricadute di materiale radioattivo, con un incremento notevole di bambini nati con disabilità fisiche e mentali.

In tutti gli Stati dell’ex Unione Sovietica, i disabili sono sempre stati un problema, discriminati e marginalizzati. Il disabile deve essere nascosto, non ha diritti né doveri, non è in grado di vivere nella società. Quindi è lo Stato a prendere il controllo delle loro vite. In Bielorussia, per esempio, esistono delle strutture pubbliche che si occupano di disabili: gli internati. Questa parola forse può ricordare qualcosa ai più anziani, ma induce all’errore perché in Italia gli internati erano dei semplici collegi.

Non nella Bielorussia del dittatore Alexander Lukashenko. Qui, l’“internat” è un ibrido tra un orfanotrofio, un manicomio e un ospizio. Qui si entra in tenera età, per svariati motivi, e spesso non se ne esce più.
In una nazione che per anni è stata la prima al mondo per consumo di alcol, e dove la crisi economica dura da sempre, lo Stato toglie alle famiglie con problemi di questo tipo circa 4mila bambini l’anno.

A questi va aggiunto un numero variabile di abbandoni familiari. In Bielorussia, infatti, il 90% delle famiglie abbandona il figlio disabile appena si accorge della sua condizione. E il tasso di abbandono è molto alto anche tra i non disabili.
Ad oggi, secondo l’Unicef, ci sono circa 25mila minori rinchiusi negli internati. Solo alcuni di loro, al raggiungimento del 18esimo anno di età potranno sostenere un esame che giudicherà se sono idonei a vivere nella società.

A quel punto, lo Stato garantisce una casa per cinque mesi a coloro che riescono ad uscire, dopodiché dovranno dimostrare di poter vivere autonomamente e iniziare a pagarsi l’alloggio. Pochi riescono, perché la vita nell’internato lascia profondi segni che portano i ragazzi ad avere difficoltà relazionali e a non sviluppare una piena coscienza adulta. Molti di loro iniziano quindi a bere e usare droghe, imboccando la via del carcere o venendo di nuovo rinchiusi in un internato.

Ma il nostro Paese ha un legame speciale con la Bielorussia. In Italia, dopo l’incidente nucleare, sono nati spontaneamente gruppi di volontari per portare aiuti, specialmente per i più piccoli. Erano i cosiddetti “bambini di Chernobyl” che ogni estate passavano un mese presso delle famiglie ospitanti, il che permetteva loro di ripulirsi in parte dalle sostanze radioattive accumulate. Da quelle prime esperienze si sono create solide realtà che ancora oggi aiutano chi vive nelle terre contaminate della Bielorussia.