Morire per un po’ d’oro
(Sougou, Burkina Faso) Il sole è già alto e martella i sensi. Davanti a noi sentieri di terra rossa battuta, alternata a rocce di granito inaspettate, come fossero cadute dal cielo. Nella pace di questa calda pianura, si scorge improvvisamente un piccolo pendio ricoperto di ciottoli e polvere grigia, crivellato da decine di “buchi” e cosparso di capanne fatiscenti fatte di teli azzurri e pezzi di legno. Di tanto in tanto si percepisce un’esplosione sotterranea accompagnata da voci soffocate, martellamenti continui e rumori assordanti di motori. Siamo nella miniera d’oro artigianale di Sougou, nella provincia di Zoundwéogo, in Burkina Faso.
L’Africa è il continente dove si concentra la maggior parte delle società minerarie per lo sfruttamento delle risorse auree. Uno dei principali forzieri del Continente nero è indubbiamente il Burkina Faso. Qui, infatti, l’oro rappresenta la prima merce di esportazione e contribuisce al 20% del Pil del Paese. Il Burkina Faso, letteralmente Terra degli uomini Integri, è uno dei Paesi più poveri al mondo, dove si muore ancora di fame, di sete e di malaria. Dove l’Aids ha contagiato più del 20% della popolazione, l’infibulazione è praticata tacitamente e la corruzione governativa è all’ordine del giorno.
Come riportato dalla Federazione Mondiale dei Diritti dell’Uomo, l’estrazione dell’oro rappresenta per il Burkina Faso una delle principali attività economiche, a discapito dell’agricoltura di cui ancora vive la maggior parte della popolazione locale. Proprio ques’ultima ha risentito maggiormente della “corsa all’oro” le cui disastrose conseguenze si riscontrano a livello ambientale e umano.
In potenza, il settore minerario rappresenterebbe un’enorme risorsa per la crescita del Paese. Ma la realtà è un’altra. Le multinazionali che gestiscono le miniere, infatti, agiscono in totale libertà e decidono i programmi da attuare, senza preoccuparsi delle comunità locali, spesso costrette a spostarsi per far posto a nuove miniere. L’esenzione di queste multinazionali dal pagamento delle imposte, e il fatto che la maggior parte dell’oro estratto sia destinato all’esportazione, frenano la crescita economica del Burkina Faso.
Il governo, che dovrebbe arginare lo strapotere delle multinazionali, non è in grado di far rispettare la legge né di fermare il dilagante fenomeno delle miniere artigianali illegali (circa un migliaio che danno lavoro a quasi un milione di persone), gestite dai clan locali.
Nella miniera di Sougou, centinaia di corpi nascosti dalla polvere si affannano attorno ai buchi disseminati nel terreno. Sono tunnel verticali strettissimi, con una profondità media di 80 metri. Le rocce vengono frantumate con picconi e dinamite. E con notevoli rischi per le persone che vi lavorano. La possibilità che il terreno ceda e che i lavoratori rimangano intrappolati è infatti altissima, soprattutto nel periodo delle piogge, durante il quale le norme di sicurezza, deliberatamente ignorate, imporrebbero la sospensione delle attività.
Il turno di lavoro di un minatore va dalle otto alle dieci ore consecutive. Ore di buio totale, parzialmente illuminato da torce elettriche, di aria irrespirabile e di caldo insostenibile. I minatori rimasti in superficie cercano di aiutare i loro compagni a sconfiggere le alte temperature – che a determinate profondità possono raggiungere anche i 50 gradi – sventolando sacchi di juta e indirizzando l’aria in coni di plastica rudimentali calati nei buchi. I più fortunati possono permettersi un ventilatore alimentato ad energia solare.
La febbre dell’oro non risparmia neppure donne e bambini. L’Unicef ha reso noto che in Burkina Faso lavorano nel settore minerario tra i 500 e i 700mila adolescenti o pre-adolescenti. Questi, insieme alle donne, vengono solitamente usati per trasportare e spaccare le pietre portate in superficie. Alcune volte, però, vengono fatti calare nei buchi. Scendere o meno nei cunicoli non è una questione di età, ma di coraggio e corporatura.
Una volta che le pietre sono state totalmente frantumate, vengono macinate e ridotte in sabbia aurifera con appositi macchinari. Rumori assordanti di generatori e motori la fanno da padrone, assieme alla polvere che ricopre corpi striscianti sfatti dalla stanchezza.
Alla roccia polverizzata vengono infine aggiunte acqua e alcune sostanze nocive, come il mercurio, così da formare un amalgama con l’oro, chiamata semplicemente “pasta”. Parte del mercurio usato viene recuperato per distillazione, riscaldando l’amalgama. I fumi altamente tossici prodotti durante questa operazione vengono regolarmente respirati e contaminano inevitabilmente anche acqua e terreni. A tutto questo si aggiungono i danni a lungo termine sulla salute delle persone, causati principalmente dall’avvelenamento da cianuro che attacca il sistema nervoso centrale, causando disabilità permanente. Senza contare i rischi causati da crolli o incidenti.
Trovare l’oro, però, non è semplice. A volte si scava per mesi. Durante questo periodo l’investitore garantisce ai minatori solamente del cibo. Nulla di più. I lavoratori verranno pagati solo quando porteranno in superficie rocce aurifere.
All’investitore spetta il 20% della produzione mineraria e, nel caso di terreni privati, ai proprietari dei terreni è dovuta una quota variabile tra l’1% e il 10%. Il profitto restante viene diviso tra il capo villaggio e i minatori. Questi ultimi, fino alla fine del processo, non sanno se le loro pietre contengono oro, né in che quantità. Potrebbero quindi scavare per mesi senza percepire alcun reddito, con la sola garanzia di un vitto.
Un grammo d’oro viene venduto ai privati della capitale Ouagadougou a 10mila franchi (circa 15 euro). In alcuni casi il guadagno è davvero sostanzioso e sono proprio le storie dei minatori che hanno ottenuto un buon profitto ad alimentare le speranze dei disperati.
Tapsoba, 26 anni, lavora nella miniera da due mesi e racconta a Gli Occhi della Guerra: “Sono stato fortunato perché a solo 25 metri ho trovato l’oro, per un valore di 300mila franchi. Il padrone ha preso la sua parte e il resto è stato diviso per due”.
Tapsoba ha un sogno: aprire una falegnameria tutta sua. Ed è per questo sogno che continua a scavare. Ad oggi è sceso a 50 metri di profondità ma non si arrende. “Sono certo che troverò altro oro”, aggiunge. “La vita da minatore per me finirà presto”.
Ma non tutti sono fortunati. “Ho lavorato diversi anni in Costa d’Avorio”, racconta Kabakoti, minatore di 37 anni, “ma con la guerra civile nel 2006 sono dovuto scappare. Arrivato in Burkina Faso, a Tiebelè ho sentito parlare di questa miniera e ho voluto provare. Sono due mesi che scavo, ho raggiunto i 98 metri di profondità, ma dell’oro ancora nessuna traccia”. Sospira e aggiunge: “Prego Allah ogni giorno, prima di entrare nel buco, affinché i miei sforzi siano ricompensati”.
C’è poi chi, come Ibraim, chiama la propria famiglia prima di calarsi. Ha 30 anni ed è padre di due figli. “Se sono qui è solo per la mia famiglia, per dare loro una piccola casa”, ci racconta con gli occhi bassi. “Ho guadagnato un po’, ma non è ancora abbastanza. Quel che è certo è che in miniera ho la possibilità di guadagnare di più che nei campi”. La sua voce debole si arresta. Poi alza lo sguardo e, con gli occhi lucidi, continua a raccontare: “Credo di essere un buon padre, penso solo ai miei figli: quando sono giù in quel buio pesto mi sembra quasi di vederli. Li chiamo sempre prima di scendere, ho paura che potrebbe essere l’ultima volta. Raccomando loro di obbedire alla madre e di aiutarla nei lavori. Faccio lo stesso ogni volta che risalgo vivo”.
Il lavoro nella miniera di Sougou in Burkina Faso è l’emblema della della schiavitù moderna. Racconta di un luogo di desolazione, di diritti umani violati e di sfruttamento. E dove il domani è appeso alla speranza di tornare alla luce con la fortuna tra le mani.