La retrovia della guerra al virus
La bassa lodigiana, per chi ha familiarità con la provincia lombarda, da sempre è quella terra tanto cara a Gianni Brera, fatta di osterie e cascine, di campi e rogge, di sagre d’estate e tradizioni che non si perdono nonostante la voracità uniformatrice dei tempi moderni. È la terra questa dove si abbracciano i nostri fiumi, l’Adda e il Po, ed è nelle genti che qui vi vivono che si fondono il pragmatismo lombardo e il gaudio emiliano. Questo è stato e sarà il basso lodigiano, ora però è soltanto la terra del Coronavirus. Zone rosse, posti di blocco e mascherine, sospetto e psicosi, paura: Lodi è la retrovia, la ”Bassa” come viene chiamata da queste parte, è invece la linea del fronte di una situazione che tutti subiscono ma non del tutto comprendono, dove gli appelli alla prevenzione hanno provocato l’assalto ai supermercati, la chiusura dei negozi e la ricerca in massa delle mascherine.
La deterrenza causa, talvolta, ciò che invece vorrebbe evitare e l’allarmismo, quando è incontrollato e frenetico, instilla, per contrappasso, in alcuni, una sopravvalutazione di se stessi, un indifferenza al pericolo e alla collettività e una superficialità nei comportamenti e nelle azioni.
E, come era ipotizzabile ma non prevedibile, sono arrivate anche le prime notizie dei fuggiaschi, di chi, scappando attraverso i sentieri tra i campi che circondano la ”zona rossa”, ha raggiunto la zona gialla. Codogno non è la Cayenna e non c’è neppure alcun epica da Papillon moderno nell’oltrepassare i confini di una area circoscritta forzatamente per contenere il diffondersi di un virus che per alcune categorie di persone, ed è la scienza a dirlo, potrebbe essere di più di una banale influenza.
Per comprendere qual è la realtà a ridosso della zona rossa occorre andare sino a Santo Stefano Lodigiano, un comune di 2mila abitanti nella zona gialla, separato soltanto da un campo appena arato, da San Fiorano, 1800 cittadini in zona rossa. Per arrivare occorre prendere l’autostrada, uscita Basso Lodigiano e poi aver dimestichezza con la toponomastica dei luoghi che separano Lodi da Piacenza. A Guardamiglio si incontrano le forze di polizia che impediscono l’accesso a Casalpusterlengo, allora bisogna dirigersi a San Rocco al Porto, attraversare il paese che deve il suo nome al patrono degli appestati e che in questo luogo sulla riva settentrionale del Po, nel Trecento, venne a dare supporto e aiuto agli ammalati. Per non impantanarsi nella retorica della storia e nei facili richiami della semiotica occorre lasciare il paese in direzione Santo Stefano Lodigiano, Checkpoint Charlie in salsa nostrana, ultimo presidio prima dell’inaccessibile. “Perché indosso mascherine e guanti? Perché mia sorella soffre di malattie respiratorie e non vorrei mai che potesse ammalarsi per colpa mia”, spiega l’edicolante del piccolo borgo, che poi aggiunge: “Io personalmente non ho paura, anzi, a dir la verità, inizio ad essere stufo di questa situazione, però bisogna avere pazienza e aspettare che questo momento passi”‘. Nel bar accanto al campo di calcio, dove è in corso una partita tra amici, giovani e non solo, chiacchierano di virus come fino a una settimana fa facevano con la politica e il campionato e commentano, senza prendere fiato, i titoli dei quotidiano. “Abbiamo suggerito noi ai carabinieri e alla polizia dove fare i posti di blocco”, racconta un uomo.
“Queste zone sono disseminate di stradine secondarie, una ragnatela di vie sconosciute ai più che la gente di qua ha sempre usato per spostarsi tra i paesi”. Ci sono la Filolungo, la Ranina e il Chiavicone, sentieri dai nomi fiabeschi e un po’ leggendari, vie sterrate che sono state percorse in lungo e in largo da contadini e partigiani, da cacciatori e ragazzi di un tempo cresciuti in sella alle “Saltafosso” e oggi utilizzate da uno sparuto gruppo di residenti della zona rossa che in sfregio alle norme prestabilite e al buon senso comune hanno aggirato i confini dell’ordinanza per fare una spesa di carne in macelleria o per un bicchiere di bianco fermo da bere con improprio vanto di impavidi fuggiaschi. “Qualcuno da Codogno e San Fiorano è venuto qua in paese, e sappiamo chi è che viene da fuori, qua ci conosciamo tutti”, ha proseguito l’avventore che poi ha aggiunto: “Non sono cose da fare perché se non rispettiamo le regole questa situazione non finisce più e vi assicuro che non è un bel vivere. Una figlia a Codogno con cui posso sentirmi solo al telefono, infermieri e medici dentro a tute ermetiche che sembra di vivere in un film e in aggiunta uno stato di sospetto che non se ne va. Dobbiamo rispettare le leggi, star attenti e sperare che tutto questo finisca quanto prima”. Due ragazze chiacchierano sedute ai tavolini, Chiara ha 22 anni, frequenta l’università a Piacenza e racconta così la sua gioventù ai margini dell’infezione: “Sono sincera e confesso che i primi giorni ero terrorizzata. Non volevo neppure che mia mamma andasse al lavoro. Poi però mi sono resa conto che dovevo e dovevamo noi tutti trovare un modo per continuare a vivere, altrimenti saremmo impazziti. Usiamo delle cautele, tra amiche non ci diamo più dei baci sulle guance quando ci salutiamo e portiamo con noi il disinfettante per mani. Ma oltre a questo non si può fare nient’altro e credo sia giusto così. Bisogna fare la vita di sempre, per quanto possibile, e considerare anche, con un po’ di fatalismo, che se dovessimo ammalarci non si tratta comunque di un morbo letale. Certo ho un po’ di preoccupazione per mio nonno, ma lui ha 103 anni ed è tutta un’altra storia”.
Gli anziani, con loro, com’è stato e continuerà ad essere, è sempre un’altra storia perché loro, che dovrebbero essere i più vulnerabili e i più accorti, sono quelli che invece soffrono maggiormente questa situazione essendosi visti strappare un quotidiano fatto di piccoli gesti, preziosi come diamanti, legittima ricompensa dopo una vita di sacrifici e fatiche. Le funzioni liturgiche sono riprese in paese e un gruppo di donne e uomini canuti, senza maschera e guanti, si affretta ad andare a messa. E con quel pragmatismo di chi è venuto al mondo coi calli già sulle mani e che nel lavoro ha trovato riscatto da fame e miseria, un anziano, interrogato sul fatto se avesse o meno paura, lapidario e profetico ha risposto: ”secùnd ti, mi pödi avéghe pagüra? Mi che ho fài la guèra e ho cunùsud i tugnin? (secondo te io posso aver paura? Io che ho fatto la guerra e ho conosciuto i nazisti?).
Risuonano le campane dopo il silenzio degli ultimi giorni, cala la sera e un altro giorno di emergenza se n’è andato. I militari sono alle rotonde, i giornalisti non lasciano le proprie postazioni continuando a fare dirette fiume e tra le cascine e i paesi di quest’angolo di mondo così piano che nemmeno i blindati e i posti di blocco riescono a nasconderne l’orizzonte, ecco però che la cortina del terrore inizia a incrinarsi e i gli abitanti della ”Bassa” si accomiatano con il comune desiderio di tornare quanto prima alla vita di sempre per non smettere così di essere se stessi: nel bene, nel male e al di là del Coronavirus.