L’inferno della cucina
Tra cocaina e valeriana

L’inferno della cucina, tra cocaina e valeriana

Il seguente reportage è stato realizzato da due vincitrici della Newsroom Academy: del corso di Ivo Saglietti e del corso di Daniele Bellocchio

Nel famoso saggio Anatomia della malinconia, Burton sosteneva – già nel XV° secolo – come la cucina si fosse tramutata in “un’arte”, “una scienza nobile” dove i “cuochi sono dei gentiluomini”. Un’idilliaca visione più che futuribile. Anzi, azzarderemmo dire visionaria nell’epoca del trend di MasterChef dove ogni donna o uomo ai fornelli si vuole immedesimare in Nadia Santini o Gordon Ramsay. Ma quanti degli avventori o degli chef dilettanti conoscono i retroscena di questo mestiere? Perché non sono molti gli ambienti di lavoro in cui può capitare di trovarsi a “salvare” una collega che viene presa per il collo dal responsabile per un lavoro mal riuscito – senza che qualcuno rimanga stupito o quanto meno colpito; o quelli in cui, entrando a lavorare alle 4:00 della mattina, ci si può trovare di fronte al proprio capo sotto evidente effetto di cocaina ancora prima di iniziare quello che in gergo viene chiamato “il servizio”: ossia il turno di lavoro giornaliero.

Alcuni racconteranno che si è “costretti a fare uso di sostanze per stare dietro ai ritmi folli” della quotidianità di una cucina, e descritti così, questi scenari appena abbozzati in poche righe, appariranno distanti al lettore ignaro: scorci abietti relegati ad ambienti degradati dove la legalità e il rispetto per gli esseri umani vengono meno come in una novella Dickensiana dove necessità, istintività, brama e violenza imperano al di sopra delle comuni regole e leggi. Si stupirà invece di scoprire che i fatti citati – l’uso continuato di stupefacenti, l’aggressività che sfocia nella violenza ai danni dei subordinati costretti a ritmi durissimi da sostenere – si verificano in quello che viene attualmente celebrato come uno degli ambienti più patinati ed eleganti che si sono affermati nell’ideale comune: quello dell’alta ristorazione.

Il mondo della ristorazione di alto livello nell’ultima decade è riuscito ad affermarsi in un’operazione che ha dell’incredibile se non dell’impossibile: accrescere ulteriormente il proprio fascino, rendendosi al tempo stesso esponenzialmente più popolare e facilitando  l’accesso ad un nuovo grande segmento di pubblico che negli anni ’80 e ’90 non avrebbe mai immaginato di trovarsi a sfogliare una guida Michelin per cercare un ristorante da provare.

Questo perché i ristoranti stellati, un tempo visti come luoghi inaccessibili alle masse, quasi emanassero un’aurea inviolabile per chiunque non fosse “addicted”, sono diventati un’ “esperienza da provare”. Una sfizio da concedersi. E questo a detta dei più. Che non sono “tutti”, ma sicuramente sono diventati “molti”. Almeno in Europa. Tra gli appuntamenti fissi con le puntante di Masterchef, una cena-regalo in uno dei ristoranti stellato “del territorio”, e la familiarità acquisita con cosa e dove sia il Noma – il primo ristorante del mondo nel 2021 con tre stelle Michelin (attualmente è il Geranium di Copenhagen il migliore del mondo) – attraverso la serie televisiva The Bear, per rimanere immediatamente scioccati dalla sua chiusura, tutti ci siamo ritrovati avvinti da questo piccolo ecosistema raffinato dove  scienza ed estro creativo si combinano per dare vita a creazioni gastronomiche che fanno concorrenza alla magia.

Eppure.
Eppure la ristorazione, in particolare modo quella di altissimo livello, non è solo questo. È appunto anche rabbia e stress, ansia da prestazione, pentole sbattute, lanciate talvolta, cocaina come ausilio per sostenere orari di lavoro massacranti, chef e capi di partita sull’orlo della crisi di nervi che si sfogano sui dipendenti, talvolta sottopagati, il tutto sotto aspettative e livelli di pressione altissimi. Tutti elementi che contribuiscono a rendere alcune cucine delle realtà soffocanti, dalle quali evadere per non rimanere “schiacciati”.

Secondo una recente ricerca condotta dalle università di Harvard e Stanford, quello dello chef può essere considerato tra i primi dieci mestieri più stressanti della nostra società, e i casi di suicidi tra chef e dipendenti di ristoranti sono aumentati negli ultimi anni.

Il problema è ormai largamente riconosciuto. Per questo abbiamo chiesto ad alcuni chef, che vivono o hanno vissuto la realtà lavorativa dei ristoranti di alto livello, di raccontare cosa significa affrontare ogni giorno quel “sottobosco senza leggi” che è il mondo delle cucine, come lo ha definito Daniele, il primo dei giovani chef con i quali abbiamo parlato.

Daniele non ha neanche trent’anni e già può vantare una carriera importante con esperienze a Parigi, Londra, Barcellona e Venezia: oggi, giovanissimo, è lo chef al timone di uno dei ristoranti più in vista di Genova. L’esperienza che lo ha segnato maggiormente, però, è durata solo pochi mesi: l’unica volta in cui ha abbandonato un lavoro all’improvviso. “Gli orari erano dalle otto del mattino a mezzanotte, non si mangiava, non ci si fermava e tutti facevano uso di sostanze per riuscire ad andare avanti. Ho perso 10 chili nel giro di 4 mesi poi sono andato via” ci dice. In un altra cucina, in un altro locale, ha dovuto liberare ricorrendo alla forza una ragazza che era stata afferrata al collo da un superiore (responsabile di cucina, ndr), sotto l’effetto di “sostanze”. Dell’esperienza londinese, infatti, ricorda in particolare come i suoi colleghi “si facevano prima di cocaina, per riuscire a stare dietro ai ritmi, e poi di valeriana, per riuscire a calmarsi una volta passato il picco di stress”. Secondo lui quello che sta sotto a queste degenerazioni non sono tanto i ritmi frenetici e lo stress che ne deriva, quanto il non riuscire ad avere un ritmo di vita regolare. Il convivere con la perenne sensazione di star perdendo qualcosa e il bisogno di compensare questo vuoto con delle reazioni spropositate. “Rischi di perdere delle relazioni. Magari convivi con una persona ma non ci sei mai. Pesa a te e all’altra persona. E questo voler sopperire a qualcosa che non hai, a una mancanza, può portare anche a degli eccessi”.

È come se il mondo fuori dalla cucina e il mondo della cucina si guardassero senza capirsi. Come se alla base ci fosse un’incomunicabilità di fondo. La pensa così Gabriele. Anche lui con un percorso di crescita alle spalle che lo ha portato a viaggiare all’estero per fare poi ritorno nella sua città di origine e affrontare il sogno e la sfida di condurre un ristorante innovativo e ricercato come la nuove tendenze suggeriscono. “La cucina è un ambiente difficile, chi non la vive fa fatica a capirlo. Le ferie sono tutte sballate, fai una vita completamente diversa rispetto a quella delle persone intorno a te, e questo alla lunga pesa”.

E questo peso spesso sfocia in tensioni non gestite, in gesti non controllati.

“Ho lavorato in un ristorante di livello molto alto, è stata l’esperienza più formativa che ho fatto, ma dal punto di vista comportamentale mancava il rispetto da parte dei capi verso chi lavorava. Una volta avevo preparato una portata che non andava bene; lo chef, quel giorno particolarmente nervoso, mi ha lanciato addosso il vassoio con la portata, facendo volare coltelli. Uno poteva arrivarmi addosso”

Anche Ruggero, che si è formato nei ristoranti della Costa Crociere per poi arrivare, con molta fatica e dedizione, ad aprire un suo ristorante. Non dimentica le mattine, quando fuori è ancora buio e l’alba è ancora distante, lui diretto in cucina per preparare le prime colazioni, e il cuoco lo aspettava, dopo aver assunto probabilmente sostanze stupefacenti. Lo ricorda: “..con due occhi così, pronto a cercare anche il minimo pretesto per farmi nero”.

Per Andrea, chef ligure di 32 anni, l’ambiente lavorativo peggiore mai vissuto, è stato un 3 stelle Michelin. “La pressione lavorativa era enorme, l’orario dalle 8 del mattino alle 2 di notte. I piatti da realizzare erano difficili, delle sfide immense, e ci si perdeva del tutto la propria vita. Le persone si trovavano costrette a cercare vie alternative per riuscire ad arrivare alla fine della giornata; ad esempio tantissimi ragazzi avevano bisogno di fare uso di cocaina, non a scopo ricreativo ma per sopravvivenza”.

In mezzo a questo quadro piuttosto sconsolante rimane però un fatto: pur avendo visto tutto il peggio di quello che la ristorazione può offrire, in termini di trattamento umano, loro sono ancora tutti lì, con le loro divise da chef, le mani che portano i segni delle piccole ustioni e dei tagli, sempre impegnate a lavorare la materia prima che diventerà “magia” dopo l’impiattamento rigoroso o estroso, pronti a giocarsi  tutto, ogni giorno, fino alla fine, tra comande e servizi. Perché?

Una volta Anthony Bourdain, famoso chef statunitense e autore del libro bestseller Kitchen Confidential, recentemente scomparso, scrisse  che “La gastronomia è la scienza del dolore”. “I cuochi professionali appartengono a una società segreta i cui antichi rituali derivano dai principi dello stoicismo di fronte all’umiliazione, la ferita, la fatica e la minaccia della malattia. I membri di una cucina stretta e unta sono più o meno come l’equipaggio di un sottomarino. Confinati per la maggior parte delle ore in cui sono svegli in spazi caldi, poco ventilati, e guidati da capi dispotici, spesso acquisiscono le caratteristiche di quei poveri babbei che venivano arruolati nelle marine reali dei tempi napoleonici – superstizione, disprezzo per gli estranei, e lealtà solo verso la propria bandiera”.

Ecco, forse per Daniele, Gabriele, Ruggero, Andrea, e tutti i loro colleghi, tutti coloro che “sanno” cosa vuol dire essere una brigata di cucina pronta a tutto, quegli spazi angusti, caldi e unti, dove le leggi comuni vengono soppiantate da nuovi dogmi, rimane un luogo affascinante. L’unico che riescono a desiderare, nonostante tutto. Uno spazio dal quale possono nascere esperienze meravigliose, maturate dalla “necessità di arrivare a un prodotto con la collaborazione di tante persone, nel desiderio di creare qualcosa di bello collettivamente, con dentro un aspetto agonistico che, se ben gestito, diventa stimolante e appagante”, come ha ben riassunto Andrea. Perché dopo tutto, quello della cucina è un lavoro che ripaga molto in termini di soddisfazione. Anche quando la sfida supera la soglia della sopportazione e si rende massacrante. A patto di trovare un equilibrio sostenibile tra la vita privata e lavoro, sottintendono molto. “Anche grazie al Covid è diventato evidente che deve esserci anche una vita al di fuori della cucina, altrimenti si ricade nel rischio di sfogarsi sulle persone del ristorante” ha commentato Daniele.

Da dove ripartire dunque? E come trovare quell’equilibro per non abbandonare il campo di battaglia? Senza piegarsi o assuefarsi alle lezione più sbagliate che può impartire.

Per Andrea il punto focale è nel motivo per il quale si sceglie di stare in cucina. La chiave di tutto. Gli orari di servizio, interminabili, lo stress o la pressione per l’ottenimento dei risultati sono tutti “effetti”, ma possono essere la causa scatenante della crisi di sistema in cui sta incorrendo la ristorazione. Quando a vincere sono i tecnicismi, la bravura, l’esercizio di stile, insomma: quando a vincere è il piatto e non il “destinatario” del piatto, il cliente, si crea evidentemente una stortura. E qui bisognerebbe fermarsi e riflettere. Quando nasce il culto dell’immagine dello chef, che non lascia spazio ai sottoposti, e che vuole tutto il focus solo sulla realizzazione perfetta e sempre impeccabile dei propri piatti, si finisce per avere una brigata che passa le proprie giornate a “raccontare la storia di un altro, tenendo dei ritmi sovrumani”. Perdendo l’equilibrio necessario a tutti. Rischiando di far crollare l’individualmente i membri di una squadra che invece richiede una sintonia speciale quanto essenziale.

“In queste situazioni ho visto una ambiguità che non ho desiderato seguire e che ho visto portare tanti amici anche a crollare umanamente. Se uno che dedica la propria vita a perfezionare il gesto tecnico ma poi si accorge che nella vita non gli è rimasto niente se non un piatto di ravioli è un casino” chiosa Andrea. Mentre Marco, chef di lungo corso, tiene a precisare: “Se la ristorazione vuole continuare a svilupparsi deve mettere l’essere umano al centro del progetto, non può essere solo il cibo o il piatto: gira tutto intorno a questo”.

Anche per Marco il tema centrale è questo.

Entrambi, e come loro decine di migliaia di altri nel mondo, mentre voi leggete le ultime battute di questo articolo, sono ancora o già a lavoro per il nostro piacere. Se siano gentiluomini o avanzi di galera, non possiamo saperlo quando prenderemo posto e poseremo il tovagliolo sulle gambe. L’unica cosa di cui potremo essere certi, è che sono persone generose e caparbie.

TRASPARENZA

Questo reportage è stato realizzato con il sostegno dei lettori. Qui di seguito tutte le ricevute delle spese sostenute dal reporter