
La convivenza tra cristiani e musulmani alla prova della crisi
La convivenza tra cristiani e musulmani alla prova della crisi
“Il Libano non è un Paese, è un messaggio”. Queste furono le parole di Giovanni Paolo II per descrivere la Terra dei cedri, e queste sono le parole che ripete Rabi Qabis, collaboratore del mufti sciita di Tiro mentre parla in una sala adiacente alla moschea. Un messaggio di convivenza tra diverse confessioni religiose, ma soprattutto tra cristiani e musulmani.
Una caratteristica millenaria che non sembra essere scalfita, nel suo animo più segreto, nemmeno dalla devastante crisi economica e politica che sta annichilendo il Paese. Immuni, almeno al momento, dalla possibilità che il settarismo, con la sua rigida spartizione del potere, si tramuti in una lotta interreligiosa, i libanesi si sentono profondamente tali prima che appartenenti a una fede o a un partito. L’essere libanesi, l’appartenenza a questo microcosmo di tradizioni, cementa il legame di un popolo al proprio territorio, al punto che a volte questo sentimento appare così radicato da apparire quasi una tragica accettazione di qualsiasi cosa accade.
Rabi Qabis spiega la resistenza dell’universo libanese con parole chiare: “La crisi colpisce tutti, non fa distinzione tra cristiani e musulmani”. La convivenza, sottolinea il collaboratore del muftì e professore universitario, è necessaria e naturale perché “ogni libanese vede una propria luce dalla finestra, una luce diversa, ma l’importante è che ci sia”.
Ma vedere questa luce non sembra essere la cosa più semplice nel momento storico che vive il Libano. Ferito, paralizzato a livello istituzionale ed economico, senza una guida, e con una continua emorragia di cittadini che emigrano ingrossando la diaspora, il Libano oggi appare diretto verso l’abisso. “Tanti vogliono rimanere, ma sono costretti ad andare via” prosegue il religioso. E l’unica speranza sembra nascere da una sottile e allo stesso tempo profonda convinzione che traspare dalle parole di molti: cioè che prima o poi la crisi finirà o si troverà il modo di andare avanti con una strada alternativa. “La verità spesso non è quella che ci viene raccontata o viene descritta” sorride il collaboratore del mufti con il volto giovane coperto da una folta barba. Ed è un concetto che sembra riecheggiare spesso nelle strade di Tiro e del sud del Paese, come se il problema del Libano sia dì da ricercare al suo interno, ma debba comunque essere interpretato in un modo preciso e senza semplificazioni di sorta. Con la parola d’ordine della convivenza che ha come corollario il non soffiare sul fuoco anche solo momentaneo di divisioni interne.
Incontrando le persone per strada e parlando con autorità civili e politiche, è questo molto spesso il leitmotiv: rimanere immuni dalle divisioni, specialmente a fronte di un Paese che deve fare i conti con molteplici comunità religiose e con la contemporanea presenza di libanesi, profughi palestinesi e, da qualche anno, profughi siriani. A confermare questa visione è il sindaco della città di Tiro, Hassan Dbouk, a sua volta anche presidente dell’unione delle municipalità del sud del Libano. Dbouk sciorina i dati della città fornendo un quadro di grande complessità interna. “Nella città di Tiro abbiamo, in ordine, sciiti, cristiani melchiti, poi sunniti, poi altre minoranze come gli ortodossi”, spiega il sindaco, “e gli sciiti sono sempre di più, mentre i cristiani sempre meno”. Il presidente delle municipalità del sud continua: “Tiro ha 300mila libanesi, 60mila palestinesi e 30mila siriani. Di fatto un terzo dell’area della città non è di origine libanese, anche se ormai i palestinesi sono come noi, vivendo qui da 70 anni”.
La crisi mette a rischio questa convivenza? Per ora no, sottolinea Dbouk, che però conferma la situazione drammatica che vive la regione e tutto il Libano. “Quasi tutte le famiglie libanesi hanno parenti all’estero e vivono grazie alle rimesse, soprattutto dopo il crollo della lira”, racconta. “Le preoccupazioni della popolazione sono sempre più basiche: i farmaci, ad esempio, non si trovano più, tanto che le persone dall’estero arrivano spesso con le valigie piene di medicinali che qui non si riescono a comprare”. La sfida è sopravvivere ogni mese, afferma Dbouk con lo sguardo rivolto negli occhi dell’interlocutore, ma anche in questo caso le parole del sindaco sembrano trasmettere quella strana fiducia nel futuro mista a una forma di accettazione di ciò che accade nel Paese.
“Il Libano è abituato alle crisi, sono cicliche, siamo il Paese più piccolo e più debole, è normale che tutte le potenze vogliano qualcosa da noi. Ma l’importante è che i libanesi migliorino: perché se fossero stati migliori tra di loro, sarebbe stato tutto meglio” dice il sindaco con un misto di orgoglio, rassegnazione ma anche curioso ottimismo. Libanesi, non cristiani e musulmani. E lo confermano anche le sue parole sugli sviluppi politici dell’area meridionale del Paese. Secondo il sindaco di Tiro, dopo il 2006 Hezbollah si è rafforzato, specialmente con la guerra, ma tanti cristiani votano l’altro movimento sciita, Amal, che, a detta di Dbouk “non è fanatico, e per questo è votato anche dai cristiani, pure cattolici”.
Le appartenenze religiose e ideologiche sfumano in una città complessa come è complesso il Paese dei cedri. E tra le vie del mercato le vestigia della città romana e il canto del muezzin in lontananza, l’impressione è che Tiro, come tutto il Libano, resti sospeso in una calma quasi disarmante. Una paralisi esistenziale dove la politica non riesce a fare un passo in avanti, il settarismo sta fallendo, il Paese è in default ma dove tutti appaiono certi di una cosa: il Libano non deve cedere sul fronte della convivenza.