“La forza di un concerto”
la prigionia in Iran raccontata da un manifestante

“La forza di un concerto”. La prigionia in Iran raccontata da un manifestante

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“Torna a casa, Jafar! Ora è di nuovo sicuro.” Mai si sarebbe potuto immaginare che dietro questo messaggio si celasse una trappola, essendo stato inviato da un suo amico fidato, Naser. Gli chiedeva di rientrare in città, dopo che Jafar era dovuto scappare, trovando rifugio in un villaggio vicino.

Tre giorni prima della ricezione di questo messaggio, Jafar, Naser e Reza si erano incontrati nel centro di Mashhad per discutere dei loro piani per la protesta la sera successiva. Mashhad, insieme ad altre 140 città iraniane, durante gli ultimi mesi è stata luogo di proteste, scatenate dalla morte di Mahsa Amini, avvenuta il 16 settembre.

Jafar aveva paura di aggiungersi alle manifestazioni durante il giorno. In seguito a una serie di notizie che riportavano la morte di oltre 450 partecipanti e migliaia di arresti, temeva le proteste. Da ragazzo giovane, ha compiuto 21 anni il mese scorso, non si reputa un grande amante del rischio.

Al contempo, sentiva di non poter rimanere in silenzio. Un evento storico stava travolgendo il Paese e lui desiderava disperatamente poterne essere parte. Una soluzione è stata presto trovata: lui, insieme ad alcuni dei suoi amici, hanno deciso di agire di notte, dipingendo slogan e graffiti sulle mura della città.

“Morte a Khamenei” – una delle scritte di Jafar

Quella sera, una delle tante in cui si erano recati per le strade, le cose stavano andando come al solito: “Abbiamo scritto “Abbasso il dittatore!” e “Donna, vita, libertà” su diverse mura”, racconta Jafar. Con “dittatore” Jafar si riferisce ad Ali Khamenei, il maggiore esponente nazionale del clero sciita, nonché la Guida Suprema dell’Iran dal 1989, mentre la seconda frase è lo slogan attualmente utilizzato dai manifestanti. “Abbiamo scritto su dieci, forse dodici pareti, per poi tornare a casa,” spiega in una telefonata, avvenuta dopo il suo rilascio dal carcere.

“Nel momento in cui Naser ha aperto la portiera della macchina quattro uomini sono apparsi dal nulla, bloccandogli la strada,” mi racconta il ragazzo, la sua voce ancora carica della paura che ha provato in quel momento. Pur essendo passate quasi due settimane, la memoria dell’accaduto è ancora fresca: “Una volta finite le nostre scritte e avviatici sulla via di ritorno, due moto hanno iniziato a seguirci. Era chiaro che non si trattasse di forze della polizia, non ci avevano fatto vedere nessun documento di identificazione, ma dalle loro barbe e dai loro abiti scuri abbiamo capito che erano basiji, perché aspetto tipico di questa milizia volontaria paramilitare,” racconta Jafar. “Naser è stato arrestato immediatamente, poi hanno chiesto anche a noi di scendere dalla macchina. Invece di ubbidire, ho acceso il motore e siamo fuggiti.” Si sente in colpa per aver abbandonato il suo amico, ma appare chiaro che non aveva altra scelta.

Manifestanti iraniani si scontrano con le forze dell’ordine durante una protesta contro il regime della repubblica islamica, nella città di Mahabad. Mahabad. Iran. 16 novembre, 2022. Foto di SalamPix/ABACAPRESS.COM

“Non voglio vantarmi di essere coraggioso, perché non lo sono. Avevo paura di essere arrestato. Ma se tu vivessi in Iran, potresti comprendere perché non potevo stare a casa. Questa situazione sta richiedendo agli individui di agire e credevo ne fossi capace,” ha spiegato Naser, chiedendomi di non includere il suo nome intero nell’articolo, perché ancora spaventato di possibili conseguenze.

La morte di Mahsa Amini ha avuto effetto su tutta la popolazione del Paese ed entro breve le proteste si sono allargate ben oltre la questione dei diritti delle donne. “L’unica cosa che vogliamo è poter vivere normalmente,” ha detto Naser, ricordando anche lui la morte della ragazza curda-iraniana, avvenuta tre giorni dopo essere stata arrestata per aver violato le leggi iraniane sull’abbigliamento.

“Donna, vita, libertà”: lo slogan delle proteste contro il regime iraniano, scritto da Jafar su un muro in Iran

Timorosi di tornare a casa, i ragazzi hanno deciso di rifugiarsi a casa di parenti di Reza, che vivono a 70km da Mashhad. Per tre giorni Jafar è rimasto nel villaggio di Reza, finché Naser non lo ha chiamato, assicurandolo del fatto che fosse di nuovo sicuro per lui tornare a casa. Gli ha raccontato che l’avevano rilasciato dopo un giorno e che tutto fosse tornato alla normalità. Fidandosi dell’amico, Jafar è tornato a Mashhad, Reza invece è rimasto nel villaggio. Poche ore dopo il suo arrivo in città, però, Naser lo ha richiamato, dicendogli che doveva incontrarsi con degli ufficiali della prigione e che avrebbe fatto meglio a farlo il prima possibile.

“Ero sorpreso del fatto che Naser è stato in grado di fare una cosa del genere a noi! La sensazione era che ci avesse traditi, ma ho cercato di capirlo. Se mi avessero spaventato o minacciato in carcere, forse avrei fatto la stessa cosa.” Entro breve Jafar ha potuto capire cosa ha mosso il suo amico Naser ad un’azione del genere: appena entrato in prigione, le guardie sono state molto dure con lui. “Dopo essersi segnati il mio nome e avermi registrato, mi hanno coperto gli occhi e legato le mani. Mi hanno poi spinto in un capannone vuoto, in cui erano presenti altri ragazzi e uomini.”

“Mahsa Amini”, una delle scritte di Jafar, che sembrerebbe essere stata coperta nel tentativo di renderla illeggibile

Non ha saputo dirmi il numero esatto, visto che è stato bendato, ma ha stimato che ci fossero altre 30-40 persone lì con lui. “Trattandosi di una carcere ufficiale, eventuali ferite sul nostro corpo sarebbero state un segno di tortura, che in questo tipo di prigioni è proibita. Ciò però non significa che non riuscissero a torturarci in altri modi. Per dirlo in poche parole, avevano a disposizione molte cose per farci soffrire e costringerci a confessare i nostri crimini,” ha spiegato, disperato. Ricordare questi eventi gli causa ancora molta sofferenza, tanto che si rifiuta di approfondire ulteriormente questa parte. “Ci hanno tirato addosso acqua fredda, per poi lasciarci fuori all’aria a gelare per un’ora. Si sono inventati di tutto pur di obbligare ragazzi come me a confessare.”

Tra le tattiche utilizzate, Jafar ha raccontato anche che usano tortura psicologica: “Hanno continuato a mentirci sulla data del nostro rilascio, dandoci informazioni false sulla situazione al di fuori della prigione e sullo stato delle nostre famiglie.” Vedersi rasare i suoi capelli ricci durante il suo primo giorno di permanenza è stato uno dei momenti difficili che Jafar ha dovuto passare durante la sua prigionia. “Non hanno tagliato i capelli a tutti, ma a me li hanno rasati il primo giorno. Non ho dubbi sul fatto che lo abbiano fatto perché era ovvio che ci tengo molto ai miei capelli e che li avevo curati molto per raggiungere il loro aspetto.”

Dopo una settimana Jafar è stato trasferito in una prigione collettiva. Il primo impatto della prigione “reale” era quella di un luogo “molto affollato”, contenente almeno 200 persone. Anche se ufficialmente denominata una prigione, era molto diversa da quello che Jafar si era aspettato: si trattava di una grande sala, divisa in diverse sezioni, tutte raccolte però sotto un unico tetto. “C’erano delle cuccette, letti a castello tripli, che però erano già stati occupati da chi era arrivato prima di noi. Io, insieme ad alcuni altri nuovi arrivati, abbiamo quindi dovuto trovarci un posto per terra dove poter riposare.”

Un incendio, seguito da vari scontri, è scoppiato a Tehran, presso la prigione Evin, nota per contenere prigionieri politici, giornalisti e stranieri. La struttura a nord di Tehran è famosa per il maltrattamento dei suoi prigionieri. Tehran, Iran. 16 ottobre 2022. Foto di SalamPix/ABACAPRESS.COM

In prigione, le giornate di Jafar iniziavano con un accendino: la prima sigaretta veniva accesa la mattina presto e i prigionieri dovevano proteggerla fino a notte, siccome era difficile reperire un’altra fiamma. Per garantire a tutti la possibilità di fumare durante il giorno, bisognava assicurarsi che ci fosse almeno una sigaretta accesa ad ogni momento della giornata.

“C’era uno spazio stretto dove potevamo fumare. Quella parte della prigione veniva chiamata “la strada” dai prigionieri,” ricorda Jafar. “Non veniva solo fumato lì, i prigionieri lo usavano pure come luogo per litigare e combattere!”

La maggior parte dei prigionieri erano persone arrestate durante le proteste, ma tra di loro c’erano anche alcuni criminali. A Jafar erano giunte voci che tra i prigionieri ci fossero anche degli informanti, cosa che rendeva impossibile potersi fidare degli altri e discutere apertamente di politica. Le notizie dall’esterno, però, continuavano a circolare.

“Non potete rimuovere la vostra vergogna dipingendoci sopra” – una delle scritte di Jafar

Inoltre, Jafar era venuto a sapere che le prigioni in Iran hanno creato nuove sezioni per contenere i manifestanti e che hanno assunto personale da città diverse rispetto a dove sono localizzate. Per esempio, i dipendenti della prigione di Mashhad erano di Tabriz, una città nella parte opposta dell’Iran. Questo è per assicurarsi che possano controllare i prigionieri, siccome non hanno nessun legame con il luogo e dunque non persiste il rischio che dei loro parenti possano diventare prigionieri della struttura in cui lavorano.

In conclusione alla nostra telefonata, ho chiesto a Jafar cosa gli fosse mancato di più durante la sua prigionia. “Musica” è stata la sua risposta. “Volevo sentire musica, di qualunque tipo, qualunque armonia.” Si ricorda di una specifica occasione, in cui diversi prigionieri si sono riuniti: “Inizialmente c’era chi imitava dei politici, altri dei cantanti, ma ben presto un piccolo raduno si è trasformato in una performance pubblica! Molti prigionieri facevano rumore, battendo le loro coperte, i loro cuscini e altro. Alcuni hanno cantato, mentre altri ancora hanno ballato! Per tutto il tempo sono stato felicissimo di poter ascoltare della musica!”