Il mio Padre dall’Oglio
Frammenti di viaggi indimenticabili

Il mio Padre dall’Oglio

Foto e testo di

Conobbi Padre Paolo Dall’Oglio nel 2001 grazie all’amicizia comune con Francesca e Mario Peliti, editori di libri fotografici di grande qualità. Ci incontrammo vicino all’ambasciata siriana a Roma e fui subito colpito da quell’uomo grande e dal viso franco. Tra di noi nacque una empatia immediata.

Mi parlò di Mar Musa, un antico monastero abissino posato su di una rocca di fronte al deserto ad 80 chilometri da Damasco, in Siria. Quando gli proposi di realizzare un reportage, accettò con entusiasmo e ne parlai con la mia agenzia: Zeitenspiegel. 15 giorni dopo partii per Damasco, dove rimasi per quattro giorni in attesa di Tilman Woerzt, il giornalista che avrebbe dovuto scrivere l’articolo. Abituato al Libano o alla Palestina, Damasco mi apparve come una città bellissima, persino ordinata: la cittadella, con i suoi profumi di spezie, i suoi artigiani, i suoi negozi di tessuti, i bugigattoli dove si poteva gustare del buon te. Era bello perdersi nei suoi vicoli fino a giungere alla grande moschea degli Ommayyadi, una delle più belle di tutto il mondo islamico.

Finalmente, con l’arrivo di Tilman, partimmo in autobus fino alla città di Nebek e in auto fino a Mar Musa, dove ci attendeva una feroce scala di pietra che salii con difficoltà. Fummo accolti con acqua e ancora del buon tè e, per fortuna, in cucina incontrai una caffettiera moka. La vista sul deserto era magnifica. Sulla terrazza, una grande tenda beduina fatta con lana di capra e cammello ci accoglieva in un’atmosfera mediorientale affascinante. Padre Paolo mi accolse in un abbraccio affettuoso: potevo fotografare tutto e tutti senza riserve. Cominciai a conoscere gli altri monaci: Huda, monaca sempre gentile e dolcissima nello sguardo; Hihad, dalla presenza un po’ burbera ma sempre disponibile. È con lui che ho mantenuto un bel rapporto di amicizia.

La vita a Mar Musa iniziava presto nella cappella con un’ora di meditazione; poi la messa tra strisce di luce che entravano dalle finestrelle e che spesso si concludeva in musica con Paolo al tamburello e Jihad al violino. Io, ateo, cominciavo ad intravedere la bellezza e l’anima di quel luogo. Fuori, sotto la tenda, ci attendeva la colazione: yogurt, pane arabo, olive e formaggio indimenticabile di capra. Io riuscivo a volte a farmi anche un caffè, poi la prima sigaretta di nascosto. Tilman faceva le sue interviste ed io le mie fotografie.

Gli operai continuavano nella ristrutturazione del monastero e Paolo rispondeva alle mie domande e a sua volta mi chiedeva. Un giorno mi portò a Damasco dove doveva incontrarsi con il Gran Mufti, ma prima ci fermammo nella vecchia stazione ferroviaria dove un tempo si fermava il tee per un caffè. Fu lì che iniziò la nostra amicizia.

Verso le sei di sera una campanella ci riportava nuovamente in chiesa: ancora meditazione e liturgia. Lì le cose erano un po’ più complicate: non c’era luce, ma credo che padre Paolo organizzò per la mia piccola macchinetta nera una buona disposizione di candele. Riuscivo a scattare con 1/8 f2, geniale da parte sua, tra le più difficili e suggestive foto che realizzai. Dopo la cena ci incamminavamo verso le nostre stanze, qualche ultima parola, un ultimo sguardo al deserto e un buon sonno. 

Durante la giornata sulla terrazza e nella tenda era un via vai di visitatori: cristiani, musulmani, giovani e bambini. In quei momenti preferivo osservare il rapporto che si instaurava tra la comunità e i visitatori che era sempre allegro e piacevole. Ogni tanto Paolo li raggiungeva, a volte suonavano insieme. Sempre si serviva tè e acqua; unico dovere non obbligatorio di quei passanti era una offerta.

Fu durante quel mio primo viaggio che scattai la fotografia di te che sali per far visita ad un monaco in ritiro spirituale in eremitaggio. Vidi il sentiero di roccia luccicante uno squarcio di luce che avvolgeva il tuo abito. Vidi il profilo del tuo viso e d’istinto scattai. Quando, nel 2013, a Raqqa sparisti nel nulla ripensai spesso a quell’immagine quasi fosse stato un presagio. È la fotografia che più stringo nel mio cuore con dolore e tristezza.

Dopo quel mio primo viaggio ce ne fu un secondo, poi un terzo ed altri ancora. Quando tornavi in Italia ci incontravamo sempre e la nostra amicizia si rafforzava: diventava più intima e profonda. Nel 2013 ti incontrai a Milano, era giugno se ricordo bene. Ci sedemmo, comme d’habitude, al bar della galleria Hoepli e parlammo. A lungo ti chiesi di accompagnarti se avevi il progetto di entrare in Siria. Ci guardammo a lungo in silenzio. Fu il nostro ultimo sguardo.