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Ecuador: il grande gioco
Il grande gioco in Ecuador
Parlare del Sudamerica ha spesso significato raccontare i movimenti del mondo con la quasi certezza che ogni sua contrazione, per quanto piccola e contenuta, sia in realtà il sintomo di un malessere cosmico dell’uomo. Se il continente sudamericano è la faccia dalla quale si percepiscono le espressioni dello Spirito del Tempo, allora l’Ecuador è il suo neo più pronunciato. Un’escrescenza così piccola eppure così significativa, un laboratorio sociale complesso e frastagliato. Le violente manifestazioni dello scorso ottobre, con 7 morti e 1340 feriti, non delineano solo momenti di lotta contro qualcosa, ma rappresentano un momento di riflessione universale sugli esili equilibri sociali su cui è costruito un mondo fatto di modelli economici iniqui e conformismo culturale. Le proteste in Ecuador sono iniziate il 3 ottobre, quando il governo ha approvato un insieme di misure economiche conosciute in Sudamerica come il “paquetazo”.

Tra queste il decreto 883 del presidente Lenin Moreno, che determinava la fine dei decennali sussidi statali sul carburante. Questo pacchetto seguiva le richieste di austerity del Fondo monetario internazionale (Fmi) come condizione per rientrare del prestito di 4.2 miliardi, contratto da Moreno nel 2018. Come mai un Paese ricco di petrolio è costretto a chiedere un prestito?

L’accusa al presidente è di essersi allontanato dalle linee guida della precedente amministrazione socialista di Rafael Correa, del quale Moreno era vicepresidente. La sua svolta neoliberista è stata percepita dalle città più grandi e turistiche come un’apertura importante a investimenti esteri. Al contrario, le periferie e le campagne, che non beneficiano direttamente del turismo, hanno subito espropriazioni a causa delle estrazioni. Nei giorni delle manifestazioni, le comunità e gli studenti, aiutati da volontari locali, hanno creato dei presidi permanenti occupando le università e La Casa de la Cultura. Il 9 ottobre, a soli 900 metri da quest’ultima, i manifestanti irrompono nell’Assemblea Nazionale al grido di “Moreno vattene”.

Mentre i media internazionali osannavano la rivolta degli indigeni come un movimento di classe contro il governo dei poteri forti, c’è chi racconta la vicenda in altri termini. Secondo alcuni giornalisti, come ad esempio Álvaro Vargas Llosa, editorialista del Washington Post, gli indigeni sono stati strumentalizzati. Ad essere sotto accusa è la Conaie, la più grande associazione di rappresentanza degli indigeni dell’Ecuador. È stata la potente Conaie a chiamare in massa gli indigeni a Quito. L’aumento del prezzo del carburante sarebbe stato solo un pretesto per manifestare contro la svolta neoliberale di Moreno e per chiedere più diritti. È interessante riportare a questo punto il dato sulla libertà personale e sui diritti in Ecuador di Human Rights Watch, che indica la presidenza di Moreno come il punto di svolta verso una società e una stampa più libera e indipendente.

Un altro pezzo del mosaico è da cercare nella struttura sociale e culturale del Paese. In Ecuador convivono varie etnie indigene che sono inquadrate come minoranze, pur contando assieme il 53% della popolazione. Alcune di queste sono gli Achuar, i Shuar, i Kichwa, gli Otavalos e i Waorani, a cui viene riconosciuto un ruolo culturale centrale: a loro si riconosce la potestà della terra e per questo godono di un’aura ieratica. Eppure los indígenas sono quelli che abitano le periferie, i campi, sono i più poveri e gli ultimi, sono gli esclusi della globalizzazione. Per loro sembra non esserci spazio nel nuovo Ecuador.

Miguel Ángel è un attivista di discendenza Otavalos che ha preso parte alle manifestazioni di ottobre: “Mentre sotto la sede del governo c’erano le cariche della polizia, a meno di due isolati la gente andava al centro commerciale, beveva caffè e fumava la pipa come se nulla fosse. Lì ci siamo resi conto che i nostri problemi non interessavano al nostro Paese”. C’è un forte senso di frustrazione tra i manifestanti indigeni, dovuto principalmente al realizzare che, repentinamente, si sta giocando un Risiko sulle loro teste. “Entrambi i Presidenti (Correa e Moreno) hanno venduto il Paese agli stranieri. Il nostro oro verde era il mais e ora ci troviamo con PetrolChina che sfrutta i nostri giacimenti”.

Le manifestazioni di ottobre sono solo la punta dell’iceberg. Infatti, l’ultimo pezzo del mosaico, forse l’apicale, è da individuare nel rapporto degli ecuadoriani con la loro maggior risorsa: il petrolio. Basta passare qualche tempo tra la gente per rendersi conto di esser di fronte a una sindrome di Stoccolma collettiva, dove tutti hanno un rapporto di dipendenza psicologica con l’oro nero. Dalla commercializzazione de “el crudo”, cioè del petrolio grezzo, l’Ecuador ricava circa il 50% del suo Pil.
Da Coca si entra in quello che è oggi il parco dello Yasuní. Qui il turismo è oro, come lo è il petrolio. La via Auca percorre perpendicolarmente la giungla e sembra una cicatrice nel verde della foresta pluviale. La strada è intervallata da chiese e piccoli agglomerati urbani, dove vivono i lavoratori dei pozzi, quasi tutti di etnia Shuar. Di continuo transitano autocisterne che creano una piccola economia di passaggio. Sui cigli spuntano minuscoli supermercati che vendono Coca-Cola e altri prodotti importati dagli Stati Uniti.

La famiglia di Gaba vive sulla costa destra del fiume Shiripune, nella foresta amazzonica, a cinque ore di barca dall’ultimo centro abitato. La lingua parlata è il Sabela, una lingua non scritta forse più antica del latino. Un suo nipote, Nenkerey, che parla spagnolo, dice che Gaba va pazzo per la Coca-Cola.

Nel 2019 un tribunale dell’Ecuador ha confermato una sentenza che impedisce al governo di vendere terreni nella foresta pluviale alle compagnie petrolifere. Una mossa che gli attivisti hanno definito una vittoria storica per la tribù indigena Waorani che vive lì da sempre. Ma nonostante la sentenza, il presidente Moreno sta spingendo per aprire più foresta pluviale e sviluppare le sue riserve di petrolio e gas, nella manifesta speranza di risanare l’economia e ridurre l’elevato deficit fiscale e debito estero. Gli attivisti sono convinti che dietro ci siano forti pressioni del Fmi e degli Stati Uniti che cercano di togliere il controllo dei pozzi alle multinazionali cinesi.

Sono in gioco poteri molto grandi e forse incomprensibili per gli abitanti della foresta pluviale. Solo a metter piede in questo piccolo, ricco lembo di terra ci si rende conto dell’invadenza molesta del mondo esterno, con le sue pretese e i suoi interessi. Un mondo vizioso, che ha già contaminato la materia e lo spirito. Un mondo che non si fa domande e penetra con le sue armi più seducenti, cha vanno dalla Coca-Cola al Padre Nostro.

Tutto il Sud America è una polveriera con la miccia innescata, basti citare i tumulti in Cile, Venezuela, Bolivia o Argentina. Da un certo punto di vista è un continente simile all’Africa, dove potenze neo-coloniali e commerciali non si fanno scrupolo alcuno a calpestare governi, a ledere diritti acquisiti e individuali, anche solo per questioni geo-economiche e geopolitiche.