Quella cattedrale del comunismo abbandonata nel cuore dei Balcani

Quella cattedrale del comunismo abbandonata nel cuore dei Balcani

Fatta eccezione per il triennio filo-nazista tra il 1941 e il 1944 che meriterebbe un capitolo a parte, la Bulgaria è stata per più di un secolo legata a doppio, anche triplo filo alla Russia. Un idillio che inizia già nel 1876 quando, in risposta alla rivolta di Koprivshtitsa, l’impero ottomano massacrò 30mila civili bulgari, spingendo i russi a dichiarare guerra alla Turchia l’anno successivo. L’avanzata zarista si interruppe solo a 50 chilometri da Costantinopoli, con 200mila cadaveri lasciati lungo la strada, gli ottomani in ginocchio e il 60% della penisola balcanica nelle mani della Bulgaria.

Il Paese dei leoni tornò poi sotto l’egida della grande madre Russia dal 1946, quando Sofia divenne una delle più importanti province dell’Unione Sovietica. Gli occhi e le orecchie del Cremlino nell’arco dei seguenti 43 anni furono i tre leader comunisti padri della Bulgaria moderna: Georgi Dimitrov (1946-1949), Vălko Červenkov (1950-1954) e Todor Živkov (1958-1989).

Il primo, dopo anni al servizio del bolscevismo staliniano, divenne leggendario perché su di lui i nazisti tentarono di far ricadere la responsabilità dell’incendio del Reichstag di Berlino del 1933, ma fu così abile da riuscire a farsi assolvere persino da un tribunale già fantoccio. Ritornato in Russia con l’aureola del martire, venne innalzato alla massima carica del Comintern e messo alla guida del partito comunista bulgaro. La sua ossessione per l’ideale sovietico lo spinse a pretendere come futura tomba un mausoleo simile a quello col corpo imbalsamato di Lenin nella Piazza Rossa. Le spoglie di Dimitrov vennero deposte allora a Sofia in piazza 9 settembre (il giorno del 1944 in cui le truppe sovietiche liberarono la Bulgaria), quella che oggi è stata ribattezzata piazza della democrazia e che al posto del mausoleo con la mummia di Dimitrov (per demolirlo del tutto sono servite tre detonazioni) ospita un inguardabile monumento in ferro.

Il posto di Dimitrov venne preso dal cognato Červenkov, lo Stalin di Bulgaria che per sua sfortuna venne ridimensionato nei poteri secondo il criterio della dirigenza collettiva. Todor Živkov, viceversa, restò alla guida del partito per oltre trent’anni, e lo portò al suo apice tra gli anni ’70 e ’80. Durante questo periodo provò ben due volte a legiferare in favore di una completa e totale annessione della Bulgaria all’Unione Sovietica, ma soprattutto dotò la nazione di imponenti opere architettoniche, che esprimessero al meglio la robustezza e allo stesso tempo l’ambizione del popolo bulgaro.

Su queste basi nel 1975 fece progettare il Buzludzha Monument, situato sulla vetta del monte omonimo a 1441 metri d’altezza. Il nome in bulgaro significa “luogo glaciale”, come lo spirito di Živkov, e venne scelto perché qui si combatté nel 1868 l’ultima battaglia fra i ribelli bulgari, guidati da Hadji Dimitar e Stefan Karadzha, e l’Impero Ottomano.

Il prodotto di 70mila tonnellate di calcestruzzo, 3mila tonnellate di acciaio e 40mila tonnellate di vetro, composte tra loro in modo da formare un anfiteatro a forma di disco volante, è un inno alla laboriosità. Ai due lati della torre alta 70 metri che sovrasta l’Ufo di cemento vennero poste le due più grandi stelle di vetro mai realizzate fino ad allora: ben 12 metri di diametro. Gli interni furono rivestiti da mosaici, sculture e pitture realizzate pro bono dai più famosi artisti della Bulgaria. Così come a titolo gratuito vi lavorarono centinaia di cittadini, membri del partito e ingegneri civili. Tutti vollero partecipare all’affermazione dell’uomo nuovo sovietico sulla gelida natura balcanica (qui d’inverno le temperature toccano i -30), convinti che l’avveniristico santuario, nella forma e nella sostanza, sarebbe rimasto a testimonianza della grandezza della Bulgaria comunista per decenni.

Tuttavia, nel giorno della goebbelsiana parata d’inaugurazione del 1981, nessuno immaginava che l’edificio avrebbe ospitato convegni, incontri e manifestazioni per appena 8 anni. Dopo la caduta del regime comunista, il monumento cadde nell’abbandono. I ritratti di Živkov e consorte furono i primi ad essere depredati da un popolo tanto affamato quanto pervaso dal desiderio di vendetta. Poi fu la volta degli ornamenti in rame. Poi ancora dei mosaici, delle statue e del mobilio. Persino le maestose stelle rosse vennero fatte in mille pezzi dai proiettili, quando si sparse la voce che fossero fatte di rubini.

Oggi il Buzludzha Monument è una cattedrale nel deserto dei Balcani, rimasta vittima di un fatale contrappasso. Per chi arriva da Sofia (250 chilometri a ovest) lungo l’unica strada che percorre la zona, ignorare l’Ufo comunista è praticamente impossibile, proprio com’era nelle intenzioni di Živkov. Il problema è che resta a perpetua testimonianza della punizione divina a cui andarono incontro quanti pensarono di aver portato il paradiso in Terra.

Una Babele moderna, insomma, i cui resti vandalizzati rappresentano un richiamo per gli amanti dell’avventura. Che lo volessero o meno, per il loro set da film di fantascienza gli ingegneri civili bulgari scelsero un sito più adatto a una pellicola dell’orrore, dal paesaggio tipicamente montano e perennemente avvolto dalla foschia. Giunti ai piedi della montagna, di fronte a una gigantesca scultura incavata nella roccia a rappresentare due proletarie mani che impugnano delle torce, l’oggetto volante non identificato fa capolino solo a intermittenza. L’impervio percorso che si snoda verso la sommità è forse proprio per questo un perfetto climax verso l’inaspettato.

Una cinquantina di metri al di sotto del monumento una spaventosa colata di cemento in puro stile sovietico dà vita a una piazza in grado di ospitare oltre 30mila persone. Nelle giornate più nebbiose la visibilità è inferiore ai venti metri. È impossibile vedere la campagna sottostante, ma è allo stesso modo impossibile persino distinguere i sinuosi contorni del monumento. L’unico segnale che aiuta il senso dell’orientamento è il colonnato che anticipa una serie di gradini sconnessi. Nonostante solitamente sia meta di pellegrinaggio di qualche temerario, in condizioni meteo così ostili il silenzio dell’abbandono è rotto solo dal vento e dalle infiltrazioni d’acqua nel calcestruzzo. Che comunque continua a rimanere nell’invisibilità. Eppure, lo si percepisce. Muovendo qualche timido passo in avanti a tentoni il battito cardiaco accelera. Il cervello inizia a produrre adrenalina. È disorientato. Non capisce se sia il momento di suscitare terrore oppure euforia. L’oggetto volante appare solo all’ultimo, si fa largo tra la nebbia come fosse davvero appena planato sulla taiga. Sarà pure per via della natura pericolante dell’edificio ma l’apparizione improvvisa trasmette inesorabile sudditanza.

L’impatto visivo con le smisurate lettere in pietra che ricoprono la base del monumento peggiora se possibile ancor di più le cose. Molte di queste sono cadute in pezzi, ma nonostante i graffiti le scritte in cirillico sono ancora ben leggibili. Una di queste dice: “In piedi, compagni disprezzati! In piedi, schiavi del lavoro! Oppressi e umiliati, alziamoci contro il nemico! Abbattiamo, sì, senza pietà e senza perdono, il vecchio e marcio sistema!”. Nel mezzo, una doppia inferriata sigilla quella che in origine era l’entrata principale. Visto lo stato di totale abbandono l’in29gresso nell’edificio è vietato dalla legge e nel corso degli anni sono state chiuse le insenature più spaziose e installati sistemi di allarme. Nient’altro che una motivazione in più per i ghostbusters più arditi. Da alcune botole nel terreno sui lati nord e sud, divincolandosi tra rifiuti, sporgenze varie e il buio più pesto si riesce infatti ad accedere nel piano interrato che porta verso il salone principale del mausoleo rosso. Il 50% del perimetro è tutt’ora affrescato con gli eventi più importanti della storia del comunismo. Il soffitto, invece, è da togliere il fiato. Gli archi in ferro battuto lo rendono più simile alle pareti arse dell’Hindenburg che a una copertura per eventi di gala, ma il centro della cupola ritrae ancora un emblema da 50 metri quadrati con falce e martello. Tutt’intorno, la citazione del Manifesto: “Proletari di tutto il mondo, unitevi!“.

Ultimamente, assieme agli altri deterrenti, il governo ha incaricato un custode in divisa di sorvegliare tutto il perimetro per ridurre al minimo le irruzioni furtive. Per alcuni sarebbe il segno dell’inizio di un grande piano di rivalutazione del complesso invocato da tempo dagli esponenti di sinistra e dai nostalgici del BKP, anche se, oltre alle implicazioni di carattere politico, il costo previsto per il progetto di recupero è di oltre 20 milioni, più del doppio di quanto venne speso all’epoca per costruirlo da zero. Per certi versi, la deriva scheletrica del sito e il contributo offerto dall’ambiente circostante trasformano Buzludzha in un monito contro l’ideologia comunista con ogni probabilità ben più efficace di quanto lo sarebbe dopo una rivisitazione in salsa contemporanea. Resta un peccato mortale, certo, pari soltanto alla natura dell’utopia bolscevica.