Le miniere maledette
Discesa nell’inferno
Discesa nell’inferno
Le miniere maledette
Il sentiero che dall’abitato di Nyabybwe conduce alla vicina miniera di cassiterite dapprima si snoda sulla cresta di una collina, poi si tuffa in una foresta fitta e impentrabile e poi quando la vegetazione si dirada, di nuovo, il tratturo si inerpica e conduce sulla sommità di una montagna che si affaccia su un oceano verde che disorienta e spaventa. E’ un verde infinito quello che travolge e circonda i monti del Sud-Kivu e gli unici rumori che sopraggiungono sulla sommità del monte sono quelli della giungla circostante. Il cinguettio degli uccelli, le urla delle scimmie, il ticchettio di una leggera pioggia sulle foglie di banano. Tutto appare enorme, sublime, numinoso. Ma in realtà, in questa magnificenza della natura, si celano le ragioni della dannazione della Repubblica Democratica del Congo. E’ tra le vallate e sui pendii delle montagne infatti che si trovano le cave e le miniere da cui vengono estratti i minerali e sono i minerali la ragione dei conflitti e delle violenze che travolgono il Paese africano da decenni.
Dagli anni ’90 ad oggi tutte le guerre che hanno investito l’est del Paese hanno avuto due comuni denominatori: la ricchezza come fine e la violenza come mezzo. Così è stato durante la prima guerra del Congo, quella che ha visto l’AFDL di Kabila destituire Mobutu, lo stesso si è verificato nella seconda guerra del Congo, iniziata nel ’98 e mai formalmente finita e che vide l’Uganda e il Ruanda creare degli eserciti ombra per mettere mano sul forziere congolese. Sempre per il sottosuolo, nonostante i proclami di etnicità, è stata combattuta la guerra del 2012 tra i ribelli M23 e il governo di Kinshasa e anche oggi, il conflitto che vede gli jihadisti dell’ADF avanzare nel Nord Kivu, secondo osservatori ed analisti, vede, più che nella guerra santa, nella ricchezza del territorio congolese il suo combustibile.

Occorre marciare per diverse ore, arrampicandosi tra le colline e oltrepassando foreste e boscaglie, prima che appaia in lontananza la miniera di cassiterite di Nyabybwe. Vista dall’alto la cava ha le proporzioni di un ciclopico formicaio: un alternarsi geometrico e ordinato di cuniculi e rivoli, venature e avvallamenti all’interno dei quali centinaia e centinaia di piccole figure si muovono e non si arrestano mai. Avvicinandosi al centro estrattivo, ecco che le sagome diventano sempre più nitide e sono centinaia gli uomini, le donne e i bambini piegati sotto al peso dei sacchi e dei badili che lavorano incessantemente e senza sosta.

È un brulicare continuo, ininterrotto, di persone che scavano, setacciano, riempiono sacchi di sassi e detriti e scavano di nuovo e poi strisciando ed entrano nel ventre della terra. Non si danno tregua. Hanno i volti ricoperti di terra, marciano scalzi su pietraie e nel fango, hanno mani di marmo e occhi rossi, irrorati di sangue e velati di polvere.

”In Africa , dove non ci sono risorse, non ci sono guerre. Le guerre in questo continente avvengono per le miniere. L’import export è molto semplice: escono minerali ed entrano soldi, pochi, ed armi, molte. E dove non c’è lo Stato è più facile mettere mano sulle ricchezze. Nessuno vuole la pace lungo le frontiere congolesi, né i Paesi vicini né altre potenze mondiali. In questo modo tutti possono accaparrarsi una parte del Congo.” Così parla padre Justin Nkunzi, direttore della Commissione giustizia e pace dell’arcidiocesi di Bukavu che aggiunge: ”Ma chi paga il prezzo più alto dello sfruttamento del Congo? I congolesi.

Quando andrete a Nyabybwe vedrete gli uomini, le donne e i bambini che lavorano nelle miniere del Congo. Lavorano in condizioni atroci, per una paga di pochi dollari. A volte, persone che hanno un lavoro in città o anche gli studenti, quando gli giunge notizia che è stata scoperta una nuova vena d’oro, lasciano la loro vita per andare a unirsi ai minatori nella speranza di poter arricchirsi trovando dei minerali. Nessun congolese è diventato ricco in questo modo. Anzi, la società si impoverisce, le famiglie si disgregano e spesso questi minatori infettati dalla ”febbre dell’oro”, muoiono nel silenzio globale a causa dei crolli, delle frane o dei massacri che vengono compiuti per il controllo delle cave. Il popolo congolese muore di fame e di fatica per dare le sue ricchezze al resto del mondo. E’ un atroce paradosso”.

Quanto dice il prelato congolese preannuncia ciò che ci si para davanti nel momento in cui facciamo l’ingresso nella miniera. Alcune donne, scalze, caracollano da un pendio trasportando sulla schiena sacchi contenenti pietre e terriccio. Le gerle pesano più di cinquanta chili e le portatrici non si fermano nemmeno un’istante per una breve intervista: ”Ci pagano in base a quanta cassiterite viene estratta. Più lavoriamo più c’è possibilità di guadagnare”. Spiega lapidaria una donna mentre rovescia il contenuto del suo carico in una pozza d’acqua dove una dozzina di uomini, con badili e setacci, immediatamente, inizia a lavare il materiale per separare i minerali dalle pietre grezze. La miniera funziona come una catena di montaggio della sofferenza: c’è chi trasporta, chi lava i minerali ma il settore più feroce è quello dell’estrazione.

Dai rivoli dove vengono lavate le pietre sino all’ingresso delle miniere occorre camminare ancora per un’ora. L’umidità incolla i vestiti alla pelle, i piedi affondano prima nel fango e poi scivolano sulle pietraie e intanto un gruppo i bambini, con ancora i badili in mano, su ordine del direttore della miniera, si nasconde nella boscaglia così che non si sappia dello sfruttamento minorile che si consuma sistematico nelle cave congolesi.

Poi, improvvisa, appare una voragine. Alcuni uomini stanno spalando, immersi nel limo fino al ginocchio, per cercare di creare degli scalini e intanto, altri uomini, equipaggiati soltanto di una pila frontale, a torso nudo e senza scarpe si calano in un tunnel profondo 50 metri. Una scala a pioli fatta con delle travi conduce nel ventre della montagna. L’unica misura di sicurezza è una sottile corda logorata e legata a una tanica dell’acqua incastrata tra due bastoni. Una volta dentro la miniera, il buio totale non permette di scorgere neanche una sagoma. Le sole fonti di luce sono quelle dei minatori in profondità, e si scende lentamente aggrappati alla scala e alla corda e più si scende più si è travolti da una paura primigenia che non si pensava più di conoscere: la paura del buio. E’ tutto nero, di un nero assoluto, e giunti in fondo alla galleria, provando a voltarsi e guardare l’ingresso della miniera, ci si rende conto che si è così in profondità che non si scorge né l’ingresso e neppure il più flebile e sottile spiraglio di luce.
