Il virus nascosto
Tutti i silenzi della Germania

I silenzi sul Covid

La mappatura genetica del virus che ha infestato Codogno e il Lodigiano parla chiaro. L’infettivologo Massimo Galli punta il dito contro quel focolaio che è scoppiato alle porte di Monaco di Baviera nella seconda metà di gennaio. Non teme di essere smentito. I risultati scientifici che ha in mano non possono essere confutati e ci spiegano come l’epidemia italiana sia “figlia” del contagio che il 20 gennaio è divampato nella sede di Stockdorf della Webasto Group, un’azienda che produce componenti di ricambio per automobili. “L’arrivo nel nostro Paese in contemporanea di un ceppo molto simile per altra via sembra francamente improbabile”, ci spiega via mail rispedendo al mittente svariati comunicati stampa in cui la società bavarese si vanta di aver contenuto il contagio e di non aver avuto alcun contatto con l’Italia e con le due loro sedi che operano a Molinella (Bologna) e a Venaria Reale (Torino).

Per ricostruire con attenzione la catena del contagio bisogna fare un salto indietro. È il 19 gennaio. Da Shanghai arriva una dipendente cinese della Webasto China, che ha appena festeggiato il Capodanno con i genitori di Wuhan. Ha il Covid ma ancora non lo sa. I primi sintomi non si sono ancora manifestati, e dal 20 al 22 gennaio, giorno in cui riprende l’aereo per tornare a casa, partecipa a una serie di meeting aziendali durante i quali incontra diversi colleghi. La febbre inizia a salirle durante il volo che la riporta in Cina. Ma a quel punto è ormai troppo tardi per contenere la diffusione del virus. L’effetto domino è iniziato e non può essere arrestato. Il primo ad ammalarsi è un 33enne che le siede accanto alla prima riunione, quella del 20 gennaio. Tre giorni dopo accusa già brividi, mal di gola e dolori muscolari, l’indomani la febbre sale oltre i 39 gradi e inizia la tosse secca. Nel giro di qualche giorno gli infetti salgono a otto. Tra questi, secondo alcune ricostruzioni fatte nei mesi scorsi, ci sarebbe anche il paziente che, tra il 24 e il 26 gennaio, sarebbe transitato (sempre per lavoro) per i paesini del Lodigiano. Il condizionale è d’obbligo. Perché non è così facile ricostruire i “contatti stretti” dei contagiati dal momento che i sintomi vengono fuori dai due ai sette giorni dopo. Durante questo lasso di tempo, infatti, il malato finisce per diffondere il virus a tutte le persone che incontra senza che lo si possa prevenire.

Alla Webasto di Stockdorf si accorgono di avere un problema il 26 gennaio quando arriva il risultato (positivo) del tampone a cui si è sottoposta la collega cinese. Si corre a farlo anche al collega tedesco che nei giorni precedenti è stato male. Risulta positivo anche lui. “Entrambi stanno abbastanza bene, considerate le circostanze”, assicura il ceo Holger Engelmann in un primo comunicato stampa annunciando l’interruzione dei viaggi aziendali “da e per la Cina” e consentendo a tutti i dipendenti a “lavorare da casa”. Il 28 gennaio, però, la situazione si aggrava: altri tre dipendenti vengono trovati positivi al virus. Di questi solo uno è entrato in contatto con la “paziente 0”, ovvero la dipendente cinese. Gli altri due (il “paziente 3” e il “paziente 4”) hanno avuto contatti solo con il 33enne tedesco.

L’azienda si vede quindi costretta a chiudere, anche se solo temporaneamente, la sede alle porte di Monaco, ad annullare tutti i viaggi di lavoro sia all’estero sia in Germania e a sottoporre al tampone chiunque abbia avuto un contatto con le persone contagiate. I vertici corrono anche a sanificare tutti gli uffici. “Siamo stati in grado di interrompere la catena di infezioni – dice, con soddisfazione, Engelmann il 29 gennaio – il fatto che non abbiamo ancora avuto un caso di coronavirus in uno degli altri siti della Webasto dimostra l’efficacia delle nostre misure”. E, nonostante nei giorni successivi il numero dei contagiati salga a otto, dopo le due settimane di quarantena il sito di Stockdorf riapre i battenti con il plauso del presidente dell’authority bavarese per la Salute. “La coerenza con cui la società ha agito in queste circostanze eccezionali è encomiabile”, commenta il presidente dell’istituzione, Andreas Zapf. “Sin dall’inizio siamo stati in stretto contatto e abbiamo scambiato informazioni in modo molto aperto e continuo – spiega – le conoscenze acquisite attraverso la stretta collaborazione con la Webasto ci aiuteranno anche nell’analisi dell’epidemia”.

A collegare Stockdorf al Lodigiano è proprio Galli che, sulla base delle evidenze molecolari, ipotizza una “parentela” tra il virus isolato a Monaco e quello circolato a Codogno. “Tutta l’epidemia iniziale nella zona rossa – spiega – viene da quel contatto lì, che ha potuto consentire al virus di aggirarsi di nascosto e sottotraccia per quasi quattro settimane prima che si scoprisse l’esistenza del problema in quell’area geografica e anche oltre”. Una tesi condivisa anche da Trevis Bedford, ricercatore al centro Fred Hutch di Seattle, che seguendo la pista genetica del nuovo coronavirus arriva fino in Germania: “È il diretto progenitore degli altri virus comparsi successivamente”. Ma queste “accuse” vengono tempestivamente smentite dal quartier generale della Webasto.

“L’esplosione del contagio nella nostra sede ha comprensibilmente creato molta preoccupazione”, controbatte pubblicamente Engelmann il 10 marzo. “Ma, in stretta collaborazione con le autorità sanitarie, siamo stati in grado di interrompere la catena dell’infezione all’interno della nostra azienda grazie alle misure rapide e decisive che abbiamo intrapreso”. Affermazioni che, negli stessi giorni, vengono confermate anche dalle autorità sanitarie tedesche. Rigettando l’ipotesi di una connessione diretta tra il focolaio bavarese e la diffusione del virus in Lombardia l’azienda specifica che “nessuno dei colleghi infettati, e neppure i loro contatti diretti, sono stati in Italia dal 27 gennaio 2020”. Nessuna informazione, però, viene fornita sul periodo precedente a quella data, lo stesso in cui secondo il virologo milanese il Covid sarebbe approdato nel Lodigiano. Ad una nostra richiesta di chiarimenti l’ufficio stampa della Webasto ribadisce via mail che il “paziente 1”, ovvero il 33enne, “e gli altri colleghi che sono risultati positivi al tampone in un secondo momento, non sono stati in Italia a gennaio o febbraio”.

Non solo. L’azienda ha due siti in Italia, uno con sede a Molinella (in provincia di Bologna), dove si producono sistemi di raffreddamento per le automobili, e uno con sede a Venaria Reale (in provincia di Torino), dove si producono sistemi di copertura per automobili. L’ufficio di Colturano, a pochi chilometri da Milano, è stato invece chiuso ormai da nove anni a questa parte. “Inoltre – fanno notare da Monaco – le due sedi Webasto in Italia hanno applicato tutte le misure previste dal ministero della Salute italiano, nonché le disposizioni dei decreti del governo, per contenere la diffusione del virus e continuare a funzionare come al solito”.

Mistero chiuso? Tutt’altro. Massimo Galli non è, infatti, disposto ad arretrare. Lo studio che ha in mano, insieme ad un altro che uscirà nei prossimi giorni, dimostrano “una evidente affinità tra le prime sequenze italiane e quella tedesca”. “Qualcuno, o infettato da uno dei dipendenti, o dalla stessa signora di Shanghai che ha ‘importato’ l’infezione in Germania (in un bar? in aeroporto?) ha poi trasferito l’infezione in Italia – spiega a InsideOver – l’arrivo nel nostro Paese, in contemporanea, di un ceppo molto simile per altra via sembra francamente improbabile”.

Il primo lavoro, a cui fa riferimento l’infettivologo, è “Genomic characterization and phylogenetic analysis of Sars-CoV-2 in Italy” e si basa sull’analisi di “tre genomi completi isolati da tre dei primi sedici pazienti osservati in Italia, nessuno dei quali ha riportato una storia recente di viaggi all’estero”. Senza tediarvi sulla parte tecnico-scientifica dello studio, i risultati portano dritto al “focolaio segnalato tra il 20 e il 24 gennaio” a Monaco. “Tuttavia – si legge – i nostri dati non ci consentono di formulare ipotesi sulle possibili rotte seguite dal virus per raggiungere l’Italia perché, dato il numero limitato di sequenze campionate nell’albero è impossibile stabilire la direzionalità della trasmissione”. Alcuni punti fermi, però, possiamo metterli. Innanzitutto il Covid-19, o almeno il ceppo più virulento, è entrato nel Nord Italia “tra la seconda metà di gennaio e l’inizio di febbraio”, diverse settimane prima del “paziente 1” di Codogno. In secondo luogo, “i dati epidemiologici mostrano che i primi casi in Germania hanno preceduto i primi casi in Italia di quasi un mese” e che, quindi, quel ceppo è “prima entrato in Germania e poi in Italia”.