Testo
Foto e video
Il Paese più giovane del mondo travolto dalle piaghe più antiche dell’umanità. È questo il paradosso, o forse il sunto, del Sud Sudan, la nazione africana nata il 9 luglio 2011 con un referendum che ne ha sancito l’indipendenza dal Sudan e che oggi è attraversata da una delle crisi umanitarie più spietate dei nostri tempi, in particolare nelle regioni dei Lakes e dell’Equatoria dove si vive, si uccide e si muore per il bestiame, per il cibo e per l’acqua.
È notte a Kapoeta, città del Sud Sudan vicino ai confini con l’Etiopia, il Kenya e l’Uganda, e decine di bambini vagano soli per le vie polverose della città. Si trascinano in gruppi che sembrano branchi, hanno 5, 6, 7, massimo 10 anni. Ognuno porta con sé un cartone o un sacco vuoto con cui allestire un precario giaciglio per trascorrere la notte. Poi all’alba, sempre in piccoli gruppi, incominciano a vagare tra i banchi dei mercati con una latta o una vecchia tanica di plastica, mendicano, o forse sarebbe meglio dire supplicano, qualche centesimo, un avanzo di cibo, un sorso d’acqua, un rimasuglio di pietà.
L’abbandono dei figli maschi è una delle conseguenze più spietate della crisi alimentare che sta attanagliando lo Stato africano e nella popolazione di allevatori dei Toposa, uno dei 64 gruppi etnici che compongono la nazione africana, l’allontanamento dei minori è divenuta una problematica estremamente drammatica e intrinseca nelle famiglie. “Questa secondo me è una delle piaghe peggiori che stanno colpendo la zona di Kapoeta. I bambini che vedete che vagano per le vie di Narus o Kapoeta, è bene specificarlo, non sono orfani, ma vengono allontanati dai loro genitori perché questi non sono in grado di mantenerli e quindi per i figli la vita si riduce a una ricerca continua di resti di cibo. La situazione è estremamente grave e non è sostenibile. Il governo non è in grado di far fronte a questa emergenza e il solo soccorso offerto a questi bambini viene dai presidi dei missionari che hanno delle scuole e dei dormitori”. A spiegare la situazione è Roberto Trisciani, 33 anni, da 8 anni in Sud Sudan, capo progetto dell’ong italiana Avsi. Avsi è presente nel Paese africano, regione di Great Kapoeta, dal 2017 con lavori sull’agricoltura e sull’educazione. E negli ultimi anni l’organizzazione non governativa ha incrementato i suoi sforzi nel portare aiuto alla popolazione sud sudanese.
L’instabilità politica, l’isolazionismo dettato dalla pandemia del Covid-19, i danni provocati dal cambiamento climatico che in Sud Sudan ha causato l’alternarsi di una stagione arida e di una di piogge alluvionali e la difficoltà di reperimento delle materie prime e del grano a causa della guerra in Ucraina e dell’ultima crisi nel confinante Sudan, hanno esasperato una situazione già estremamente fragile. Nel 2021 si è infatti verificata la peggior crisi alimentare mai vista dall’indipendenza del Paese ad oggi, e circa il 60%della popolazione tuttora versa in uno stato di bisogno e oltre 7 milioni di persone sono in una condizione di insicurezza alimentare acuta.
Dal punto di vista sociale la crisi ha comportato un incremento dell’utilizzo di strategie di sopravvivenza negative tra la popolazione come il matrimonio precoce al fine di ottenere un reddito, e l’abbandono scolastico forzato per impiegare la manodopera minorile in attività di sussistenza. Inoltre, l’investimento statale in servizi essenziali è minimo e l’accesso a quelli di base, quali educazione, sanità, protezione e tutela legale, è quasi inesistente.
“Nell’area in cui ci troviamo la gente non ha assolutamente accesso ai servizi principali come la sanità, l’educazione o la reperibilità di acqua potabile. E gran parte della popolazione non sa cosa sia una scuola, il tasso di alfabetizzazione raggiunge appena il 2% e i bambini e le bambine non vengono indirizzati verso strutture scolastiche.” Ha spiegato Trisciani che poi ha proseguito dicendo: “Il progetto Iniziativa di emergenza in supporto all’integrazione socioeconomica delle popolazioni sud sudanesi sfollate, ritornanti, rifugiate vittime della crisi umanitaria protratta in Sud Sudan, Etiopia e Uganda che ora Avsi sta realizzando in partnership con Intersos con il finanziamento dell’Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo, mira proprio all’aiuto e al supporto delle fasce più deboli e riguarda l’educazione scolastica e l’agricoltura, due fattori estremamente connessi”.
Uno degli obiettivi del progetto di Avsi è l’introduzione dell’aratro a traino animale nelle comunità dei Toposa. L’aratro, per quanto possa sembrare uno strumento antico, ad oggi è un attrezzo quasi del tutto sconosciuto in Sud Sudan. E il suo inserimento nelle comunità agricole, sebbene richieda molto tempo, potrebbe però avere un impatto rivoluzionario sia in termini di resa agricola, poiché permetterebbe di avere un incremento considerevole del raccolto, ma anche in termini sociali portando a un vero e proprio cambiamento delle comunità. Per i Toposa le vacche hanno un valore assoluto; sono merce di scambio, di sopravvivenza, un’ipoteca di esistenza e a pagare le spese di questa “sacralizzazione” dei bovini sono in primis le bambine che vengono date agli anziani leader locali in cambio di capi bestiame, divenendo così vittime di matrimoni precoci e poi, a tutti gli effetti, delle schiave sessuali.
La rivoluzione agricola che provocherebbe l’aratro, qualora riuscisse a divenire uno strumento di uso comune, sarebbe sostanziale e strutturale poiché frutterebbe una maggior resa di prodotti con un minore utilizzo di manodopera e di conseguenza, disponendo di più risorse, nelle comunità si ridurrebbe drasticamente l’abbandono dei minori poiché le famiglie avrebbero molti più mezzi per il mantenimento dei figli. In sintesi, l’aratro sarebbe lo strumento attraverso il quale si avvierebbe una rivoluzione copernicana in grado di porre fine all’abbandono scolastico e alla cessione delle bambine.
“Dare un bambino a un vecchio, significa uccidere il bambino!”. Josephine è seduta nel dormitorio del centro scolastico di Kapoeta, è una bambina e intorno a lei tanti altri bambini con divise color porpora e quaderni in mano scrivono, disegnano, giocano, si riappropriano di un’infanzia che non hanno mai avuto. “Quando ero a scuola i miei zii un giorno sono venuti a prendermi perché volevano riportarmi al villaggio dal momento che la dote di mia madre non era completa e quindi mi volevano dare a un uomo affinchè lui in cambio desse alla mia famiglia delle mucche”.
È un racconto destabilizzante e che toglie il fiato quello della giovane ragazza sud sudanese che oggi studia in un centro sorto grazie al contributo di Avsi. “Ho chiesto alla suora che gestiva la scuola se potesse ospitarmi per non tornare al villaggio e lei così ha fatto. E oggi sono qua”. La storia di Josphine è analoga a quella di altre decine di bambini e bambine fuggiti o abbandonati dalle loro famiglie e che ora, grazie alla scuola e al dormitorio che li ospita, vivono il proprio presente e sognano un futuro.
Non rischiano più di essere uccisi dai razziatori di bestiame mentre portano al pascolo le greggi e nemmeno di divenire le mogli bambine di vecchi capi villaggio. Studiano, imparano, vivono, costruiscono speranza. “È un Paese che non cambierà mai, un Paese in cui ci saranno sempre guerre e violenze e bambini che muoiono di fame…è questo quello che comunemente si dice e si pensa del Sud Sudan”, ha chiosato Roberto Trisciani che poi, prima di accomiatarsi, ha concluso dicendo: “Ma lavorando sulle persone e lavorando con tutti quelli che vogliono cambiare la loro terra, io sono certo che qualcosa qui cambierà. Sì in Sud Sudan, qualcosa cambierà!”.
Sogni di fare il reporter ma non sai da dove partire?
Parti da qui: entra nella Newsroom Academy e iscriviti al corso di reportage con Daniele Bellocchio.
Realizza subito un reportage, che potrebbe essere pubblicato. E potresti partire per un assegnato con Bellocchio
Questo reportage è stato realizzato con il sostegno dei lettori. Qui di seguito tutte le ricevute delle spese sostenute dal reporter