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L’incedere del tempo, le logiche della scienza, il concetto di futuro, l’avvenirismo della medicina: scordatevi tutto questo, dimenticate le certezze acquisite, le garanzie di guarigione, le ipoteche di invecchiamento. È tutto crollato, franato, quaggiù nelle regioni del Nord Kivu, le terre dell’ebola. C’è solo una certezza: la paura.
Siamo tutti esposti, tutti a rischio, tutti condannati in potenza al morbo, all’infezione, al male atavico. Non ci sono garanzie, né difese, contro l’epidemia del virus: c’è solo una costante convivenza con la morte, che rende i destini individuali una sorte condivisa. L’egualitarismo della dannazione colpisce tutti, non si può prevedere il fato, si scommette con la sorte e non ci sono leggi, probabilità o statistiche a infonderci speranza. La stessa scienza balbetta qui, nell’epicentro dell’epidemia, dove i cortei funebri scandiscono il passare delle ore, battono il tempo della fine e attaccano i nervi, ricordando che si è soli, indifesi, in balia delle proprie psicosi, travolti dall’impazienza del presente e privati del diritto di concepire il futuro.
Si è prigionieri della malattia e della separazione, torturati, ininterrottamente, da un flagello che obbliga alla distanza, all’abbandono, all’ingiustizia della divisione e delle barriere. Quanta vergogna nell’immergersi nel dolore degli altri con occhiali e guanti, quanta frustrazione ingoiata nel sillabare condoglianze dietro mascherine: ma non c’è soluzione. È il prezzo da pagare per poter raccontare la peste d’oggi: infettarsi di mortificazione e di avvilimento e non riuscire, neppure tardivamente, a saldare i conti con sé stessi perché misericordia e sopravvivenza non potranno mai condividere lo stesso spazio nella coscienza. Ma non c’è soluzione o alternativa, ed è assistendo ai funerali che il dolore e l’impotenza raggiungono il loro parossismo.
Nell’obitorio di Beni i corpi sono tutti in fila: bare di diverse dimensioni e colori si succedono nell’angusta sala, dove un operatore della protezione civile, guarito alla malattia e quindi immune al virus, continua a innaffiarle con una soluzione di acqua e cloro. È questo il momento di massima esposizione al contagio perché i corpi, con le loro secrezioni, sono altamente infettivi e basta un contatto, un ultimo bacio o una carezza al prossimo per ammalarsi e contagiare di nuovo. Fuoristrada e camion non smettono di trasportare uomini donne e bambini vittime di ebola.
Intorno all’obitorio si sollevano urla ieratiche, disperate, che si mischiano con i singhiozzi dei pianti. Gli sguardi dei parenti e delle amiche di Acha Masimengo terrorizzano: sono occhi di gente che ha ricevuto in eredità dalla storia un dolore senza fine, che sopravvive alle epoche e agli uomini. Acha aveva 32 anni, è morta dopo quattro giorni di agonia e si è ammalata mentre assisteva la sua migliore amica. Le foto della ragazza sono strette tra le mani della sorella e della madre, che si trascinano per le strade tra grida e lamenti, ricordando che si è stati spinti nell’inferno equatoriale, dove qualsiasi logica e valore è stato sovvertito dal morbo.
In cielo, nuvole gonfie di piogge tropicali battagliano con un timido sole; in terra, preghiere salmodiate accompagnano un’altra bara in un camposanto poco fuori dalla città dove la foresta assedia l’antica compassione di qualche fiore disseminato tra le croci. In questo cimitero, nato con l’esplosione dell’epidemia, ci sono tombe appena scavate. Sono ammassate una accanto all’altra e persino lo spazio per seppellire i morti si sta esaurendo. Una fossa è appena stata ultimata e gli addetti alla sepoltura, dopo essersi preparati indossando tutte e guanti, trasportano il feretro e lo calano all’interno.
La ragazza deceduta si chiama Esperance Kavira Balikwisha, aveva 13 anni. Mentre uomini dell’esercito e delle polizia nascosti da mascherine presiedono il rito funebre, intanto il padre, solo, accompagna la bara della figlia. Cammina lento, trascinandosi il peso di una pena infinita e di una croce su cui è scritto il nome della ragazza. “Mia figlia aveva la malaria ed è andata in un ospedale per farsi curare. È stato all’interno del presidio ospedaliero che ha contratto poi l’ebola”. Parla con un sottile filo di voce e prosegue spiegando: “L’hanno portata nel centro di trattamento e ho pregato per tre giorni perché si salvasse, ma non ce l’ha fatta”.
Il funerale volge al termine e cala anche la sera: resta solo il padre, in ascetico silenzio, a guardare la tomba appena ricoperta di terra. È solo, statuario, senza consolazione o appigli, immobile e con lo sguardo perso nel vuoto. È un’ombra che passa in rassegna i ricordi e sulla tomba della figlia impercettibilmente muove le labbra, recitando un ultimo saluto alla sua bambina. Ecco il lutto più doloroso, il male che ferisce l’anima, il dramma che fa perdere l’innocenza, la consapevolezza di una tragedia che ha piallato il presente, riducendolo a un’uniforme plaga di supplizio.
E questo dolore diviene insopportabile all’indomani, quando nel cortile dell’obitorio è raccolta una folla di persona per la cerimonia funebre di Liliane Kapinga Ebaribi. Il feretro della piccola viene appoggiato all’esterno dalla camera mortuaria e la madre i parenti e gli amici, tenendosi a distanza di qualche metro, sfilano intorno alla salma per dare un ultimo saluto alla bambina.
La mamma è sorretta dalle sorelle, la nonna si ferma per qualche secondo e con la mano saluta la nipotina, il papà si arresta e le manda un bacio. Il corteo si dirige verso il cimitero, un lento canto, dolce, commovente, che smuove lacrime e suppliche, si arresta nel verde di un campo dove un soldato, con gesti lenti per non disturbare l’assoluta sacralità della funzione, sta finendo di scavare la piccola fossa. Il sole sta tramontando e il tramonto è rapido, immediato, quasi non volesse concedere spazio alla retorica dei tramonti africani.