Un Paese in attesa
Cuba, le sue sedie e un’instabile solidità

Cuba: un Paese in attesa

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Esiste una piccola isola addormentata tra l’oceano Atlantico ed il mar dei Caraibi, alle porte dell’America. Un luogo dove il tempo pare essersi fermato, cristallizzato in una narrazione storica in cui si identifica ma non si riconosce più.

Terra di contrasti, istantaneità ed attese. Cuba.

Immagine caratteristica ed estremamente rappresentativa del Paese sono le onnipresenti sedie, i cosiddetti sillones. Come spettrali spettatori testimoniano una dimensione economica semi industriale che dipende in toto dai movimenti del terziario globale, con cui fatica a stare al passo. Un Paese seduto ma di irriducibile resilienza, dove le nuove generazioni scalpitano fremendo sulla soglia del web, come un gas troppo a lungo compresso. Tra black out e reti instabili, internet ed in particolare Instagram sono vetrina di un mondo lontano, spesso unica fonte d’informazione.

Un abisso integernerazionale in un Paese fondato sul linguaggio e l’iterazione, dove ogni cosa dipende dalla capacità di negoziare, reinventare e reinventarsi. Le sedie rappresentano anche questo: l’ingegno e l’intraprendenza cubana, speranza e perseveranza. Ricordano la storia, la resilienza del suo popolo, la capacità di invenzione nel trarre il massimo da risorse limitate. Leonardo Padura, scrittore originario di Pinar del Rio, scrive a riguardo: “La sedia è un simbolo della capacità cubana di adattarsi, sopravvivere, creare, trasformare”.

Quella cubana è una dimensione temporale quasi opposta a quella occidentale, dove il capitalismo ha lasciato il posto al consumismo. L’investimento in un capitale presuppone in effetti uno sviluppo dello stesso, mentre assistiamo nel mondo occidentale ad un economia di iperfunzionalità volta semplicemente al consumo. In un simile tipo di cultura, dal fast food alla fast fashion, ogni cosa è prodotta per essere consumata e scartata, usata e gettata, a partire dal tempo. A Cuba tutto ciò risulta impossibile.

Repubblica socialista monopartitica, l’isola vive in una duplice morsa tra sanzioni americane e corruzione e povertà interne. Soggetta ad embargo commerciale, economico e finanziario dal 1962 da parte degli Stati Uniti in opposizione al regime castrista, vede un’eccezione nella parentesi di alleggerimento del bloqueo durante gli ultimi anni del mandato di Obama, presto terminata sotto la presidenza di Trump in nome del rispetto del Cuban democracy act che condiziona la fine dell’embargo allo svolgimento di libere elezioni nell’isola.

Tra la crisi del carburante, l’assenza di medicinali, il languire della produzione interna e le difficoltà nell’importazione ed esportazione, la popolazione risulta ridotta allo stremo.

A rendere ancora più complessa la situazione del pueblo cubano è la svalutazione della moneta locale, in un economia che preferisce la valuta straniera alla propria. L’emigrazione diventa l’unica via di fuga verso la libertà e le opportunità del capitale, che con il socialismo risultano negate.

Il controllo esercitato sui server e le forme di censura ancora dominanti non consentono un libero accesso all’informazione: i quotidiani locali riportano tutti i medesimi articoli, i programmi televisivi ripetono narrazioni fittizie, le stesse che si trovano sui cartelloni e sui muri delle strade. I musei, i luoghi di cultura, restano un privilegio del turista. É difficile se non improbabile dedicarsi a visite museali se impegnati a sopperire ai bisogni primari per la propria sussistenza.

Non esistono immagini pubblicitarie, se non scritte e ritratti di propaganda socialista. Si parla spesso di censura relativamente ai social, di fake news e disinformazione. Cosa succede quando l’unica fonte di informazione, la finestra sul mondo, è il social stesso? I fenomeni che qui risultano preoccupanti, risultano lì amplificati.

La televisione si definisce come un tipo di comunicazione erga omnes, ovvero rivolta ad una moltitudine, amplificatore dei messaggi trasmessi attraverso inquadrature differenti, colori e suoni. Il palinsesto è lo stesso per tutti, e per quanto si possa scegliere un canale la scelta risulta comunque all’interno della programmazione. La fruizione del web invece è differente. Tecnologia aperta, secondo l’idea stessa di rete, si tratta di una comunicazione ad personam, ovvero al singolo. L’individuo si ritrova a scegliere navigando secondo le proprie preferenze. Gli algoritmi su cui si regolano i canali di ricerca registrano di fatto queste scelte, proponendo ciò che risulti più coerente alle informazioni ricevute, sulla stessa rotta.

La ricerca si rivela allora una sorta di stanza degli specchi, dove non si troveranno altre voci se non limitate al proprio universo, che apparirà di conseguenza maggioritario. Rispetto alla televisione, dove si genera una comunicazione collettiva, da cui l’idea di opinione di massa, si avrà dunque una massa di opinioni individuali sempre più frammentate e specifiche. Anche il tempo dell’informazione è differente, sempre più rapido. Ne consegue una profonda spaccatura intergenerazionale, isolamento di individui appartenenti allo stesso contesto, per frammentazione del patrimonio culturale collettivo e della diversa percezione del tempo.

Se nel mondo occidentale avvertiamo le conseguenze di tutto questo in forma più sottile, per la graduale introduzione delle nuove tecnologie, la radicalità del cambiamento in un tempo ristretto ed un simile regime di controllo comporta risultati e conseguenze naturalmente più marcati. L’avvento del web segna una frontiera tra passato e presente, rimarcando l’inadeguatezza di un sistema politico ed economico ormai insostenibile. L’ideologia romantica non ha mezzi sufficienti per fermare quell’apertura sul mondo che la tecnologia stessa della rete, con i suoi pro ed i suoi contro, porta con sé.

É solo con la nomina di Raul Castro nel 2008 che prende piede la liberalizzazione del mercato di telefoni cellulari, dvd, computer, introducendo il popolo cubano ad una rapidità nelle comunicazioni che tutt’ora risulta nuova ai più.

Sarà un artista a portare Google nell’isola, commuovendo l’azienda informatica statunitense al punto da fare del suo studio il primo centro del server nella nazione. Alexis Leiva Machado, in arte Kcho, nato a Cuba negli anni settanta, conquista l’attenzione internazionale esponendo in numerose biennali di tutto il mondo a partire dal ’95. Vicino alla scena politica castrista per motivi famigliari e personali, è l’artista vivo e residente nell’isola più conosciuto del Paese a livello internazionale.

In un ottica di bonifica, rivalutazione e recupero del territorio, adibisce a studio lo spazio della discarica che si trovava nel barrio, alla periferia della capitale. La speranza è quella di creare un contesto di crescita ed educazione per gli abitanti della zona, soprattutto i più giovani. Lo spazio è pubblico, sede di laboratori di disegno e di teatro per bambini ed adulti. Qui la rete Wi-Fi ad alta velocità, così rara a Cuba, è gratuita per i locali a partire dal 2013, come strumento di informazione, di studio e di libertà.

Il tempo della narrazione, come in letteratura, spesso è differente da quello cronologico. Quello in cui si orienta oggi Cuba è il tempo della necessità, dove diviene difficile sviluppare progettualità a lungo termine. Il tempo dell’illegalità o del mercato nero è quello a cui sempre più sovente le persone si sentono costrette a rivolgersi. L’occasione, si dice, fa l’uomo ladro. L’assenza di medicinali unitamente agli stipendi da fame del personale ospedaliero, insufficienti a pagare un affitto o ad arrivare a fine mese, ha portato molti operatori a trafugare farmaci dagli ospedali stessi per rivenderli illegalmente a prezzi più alti.

Coloro che invece hanno deciso di opporsi all’illegalità si sono ritrovati costretti a cercare lavoro al di fuori della propria sfera di competenza, il più delle volte nel campo del turismo. Così accade non solamente nell’ambito della salute, in un costante reinventarsi del lavoratore. Un riciclo a tutto tondo dai beni di consumo al posto di lavoro, intimato non solo dalle condizioni politiche ma anche geografiche del luogo.

Tra supermercati semi vuoti e prezzi troppo alti per gli stipendi o le divisioni collettive mensili dei beni alimentari e di prima sussistenza elargite dallo Stato, non esiste possibilità di spreco. Anche la spazzatura diviene fonte di guadagno.

A Cuba il dictat è il riutilizzo. Ognuno ripara le proprie cose da sé. Siano esse macchine, sistemi idraulici o indumenti. In un isola l’idea stessa di consumo è differente, per evitare di ritrovarsi su una discarica galleggiante, dove lo smaltimento degli scarti risulterebbe impossibile. Questo rappresentano le sedie cubane, a vegliare i portici di ogni casa. Nei loro colori, nella solidità del legno e la cura delle persone nell’aggiustarle con pezzi recuperati allorquando si rompano.

La capacità creativa della popolazione trova sfogo nello spirito di adattamento e rielaborazione di ogni materiale disponibile. Dalle sedie alle vecchie Lada, le bottiglie vuote appese ai soffitti come decorazione, ogni scarto diviene risorsa per l’acuto ed ironico spirito d’osservazione tipico del luogo. L’idea di rendere un gabinetto rotto un vaso per le piante, modalità che compare in foto d’epoca precedenti all’orinatoio di Duchamp, è chiaro segnale di questo modus vivendi. La necessità definisce la possibilità di effettuare spostamenti di senso, di uso, di luogo a seconda della situazione, in un continuo e fluido riadattarsi.