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Il Ciad, ex colonia francese, è divenuto indipendente nel 1960 e, dalla proclamazione della nascita della Repubblica del Ciad ad oggi, la storia della nazione africana è stata caratterizzata da governi autocratici e da continue guerre. L’attuale presidente è Idriss Deby, in carica dal 1990 quando prese il potere attraverso un golpe militare, e il Paese è uno dei più poveri al mondo: 183° Paese su 187 nell’Indice di sviluppo umano, l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, il 9% ha accesso ai servizi sanitari adeguati, solo il 48% usufruisce di acqua potabile, l’analfabetismo va oltre il 50%, la speranza di vita supera a fatica i 53 anni e il tasso di mortalità infantile è tra i più alti del pianeta.
E oggi la nazione, cerniera tra il nord Africa e l’Africa subsahariana, sta affrontando anche il più complesso dramma umanitario della nostra contemporaneità: la desertificazione del Lago Ciad, la cui superficie si è ridotta del 90% rispetto gli ani ’60, e il terrorismo islamista di Boko Haram si sono uniti facendo della regione lacustre una delle are più vessate al mondo: stando ai dati dati dell’Ocha (l’Ufficio della Nazioni Unite per gli affari umanitari), il disastro umanitario ha causato oltre 2,3 milioni di profughi, sono 10 i milioni le persone che vivono nel bisogno e 500.000 i bambini che soffrono di malnutrizione.
Una luce inclemente abbaglia e disorienta lungo la strada che conduce da N’Djamena a Bol, il principale centro rivierasco: ciò che è umano è nemico a questa terra. L’acqua è un miracolo e la sete una costante, il cibo un miraggio e la fame una prerogativa, il vuoto una prigione senza possibilità di fuga e la solitudine una condanna senza abbuoni di pena. E poi il vento: violenza pura, che rende folli, non ha ostacoli e aggredisce chiunque incontri sul suo cammino, stringendosi alla gola come un cappio del bisogno.
Attraversando il Sahara si incontrano solo piccoli villaggi di terra; silenzio assoluto, muti santuari del dramma, necropoli dei viventi. Alcuni arbusti secchi e qualche dromedario, carcasse di vacche e capre e pochi, pochissimi uomini. Sono genti, quelle che si incrociano, che trascinano corpi ossuti e si muovono come ombre. E basta osservare loro per comprendere la crisi che in punta di silenzio e in sella al”abbandono sta martoriando quest’umanità.
Il viaggio nel deserto si conclude a Bol, un villaggio di seimila anime. Una strada di sabbia, capanne di arbusti e pagliericcio e alcune baracche che vendono pochi generi alimentari e bottiglie d’acqua minerale a peso d’oro. Poi c’è la casa dell’Imam, l’ufficio della polizia, la Moschea e l’unico Ospedale di tutta la regione. Ed è da qua che inizia la discesa nell’abisso. Punto di partenza per comprendere e immergersi in un dolore che contamina, che impone la responsabilità dell’assistere, che rende proprie le angosce altrui.
Ci sono dei bassifondi così sommersi che non sono stati raggiunti dall’indignazione mediatica, dalla presa di posizione dei social e dagli slogan dello sdegno. ”Non abbiamo media locali e non vengono neppure quelli internazionali a raccontare cosa sta succedendo. Questo è l’unico ospedale di tutta la regione e ci sono solo tre medici. Avete capito? Tre medici per un’intera regione.” A gridare la sua rabbia è il direttore generale dell’Ospedale, il medico Youssuf Saleh ”La popolazione sta morendo di Aids, di malnutrizione, di tubercolosi. Viviamo nella zona rossa; l’arrivo degli jihadisti di Boko Haram ha esasperato una situazione già critica. Il mondo sa quello che avviene in Siria o in Yemen, ma quello che sta succedendo qua no. Si sta consumando un dramma lontano dagli occhi di tutti e il tempo sta per scadere: Ong, governi europei, donatori internazionali venite. Venite a vedere: la catastrofe è alle porte”.
Le parole del dottore vaticinano quanto da lì a poco sta per paventarsi. Varcata la soglia del nosocomio si vedono pazienti assiepati in ogni dove, nelle camerate ormai colme e impregnate dell’odore di urina, sangue e vomito, in cortile sulla sabbia o per terra nei corridoi.
Una madre, facendo ricorso a tutte le sue forze, agita un ventaglio, cercando di lenire così il calvario di una figlia divorata dalla malattia, nel reparto di maternità una neonata è sdraiata tra le braccia della mamma che dopo aver partorito giace per terra e poi c’è Ousman Abakar, che ha 11 anni ed è in coma a causa delle meningite: e suo padre, seduto sul letto, gli stringe la mano e lo assiste immobile, come un asceta che affida al silenzio le urla del suo dolore.
”Manca tutto: attrezzature, mezzi e personale. E con l’arrivo di Boko Haram la situazione è diventata devastante. Ai problemi con cui da sempre ci troviamo a fare i conti se ne sono aggiunti altri che prima non c’erano”. A parlare è un altro medico Mahmat Hassan: ”Gli stupri, i bambini rapiti, i traumi psicologici. Per non parlare dell’Hiv. Il 7% dei pazienti sono sieropositivi, la miseria, lo spostamento continuo di genti e la povertà hanno causato un incremento dei fenomeni di prostituzione e diffusione della malattia”. Alla fine raccoglie dall’intimo della sua memoria una storia di pura tragedia e l’affida a un microfono nel tentativo estremo di impedire che anch’essa travalichi quell’argine che dà inizio all’indifferenza: ”Una bambina ha visto suo padre venire sgozzato davanti ai suoi occhi. Poi è stata stuprata dai miliziani islamisti ed ha contratto l’hiv. Lei quindi ha ingerito dei chiodi per suicidarsi. L’ho operata e oggi è sotto trattamento. Queste sono le storie che affrontiamo ogni giorno”.
Tra i pazienti ci sono i fratelli Mbokoiy e Chari Aumi. Due pescatori che hanno sfidato l’ordine imposto dall’esercito di abbandonare le isole e per questo, mentre erano intenti a sollevare le reti, sono stati catturati dai regolari ciadiani, che li hanno torturati accusandoli di essere degli jihadisti: appesi con le braccia legate dietro la schiena per una settimana e poi rilasciati perchè semplici pescatori mossi dalla fame. Ora Chari ha le braccia in necrosi e Mbokoiy, che è stato vittima di un amputazione, oggi è sdraiato tra la sabbia e le mosche.
E’ un’istantanea impietosa di un luogo dove gli affamati vengono seviziati perchè rei del proprio bisogno, i difensori della Patria fanno della paura l’antidoto al terrore, gli jihadisti annientano l’umanità nel nome di un Dio per il quale hanno rinunciato a tutto e le storie degli innocenti, coi loro nomi, i loro sguardi e i loro volti, scompaiono sotto una coltre di sabbia e oblio.