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Gli Usa alla prova del Covid-19
Gli Usa alla prova del Covid-19
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In un mondo geometrico perfetto, la società americana somiglierebbe a un triangolo scaleno. I tre vertici ineguali e opposti sono legati l’un l’altro da rapporti di dipendenza. Ogni angolo, nella sua solitudine, ha in sorte il contrarsi e l’espandersi secondo la logica della contiguità. Tre anime, o meglio tre coscienze, della comunità statunitense. C’è l’America superba e autoreferenziale; quella solidale e attivista; oppure quella retorica e sfacciata. Ed è questo insieme che crea forma e ordine.
Lo scorso marzo la giornalista Liz Wheeler nel suo Tipping Point sul canale ultra-repubblicano Oan spiegava all’America perché gli Stati Uniti non sono come l’Italia nella risposta al Covid-19. Sono cinque i punti sciorinati a supporto della sua tesi: “Punto numero uno, l’Italia ha la più vecchia popolazione in Europa… punto numero due, l’Italia ha un’alta percentuale di fumatori… punto numero tre, l’Italia ha un diverso problema di trasmissione (del virus, ndr) dagli Stati Uniti, come ad esempio l’usanza di baciarsi… (poi, ndr) l’Italia fa parte delle Vie della Seta… punto numero quattro, il sistema sanitario nazionale italiano sta fallendo, con una scadente assistenza sanitaria di base, quindi le persone non si fanno visitare dal proprio dottore ma vanno direttamente al Pronto Soccorso… il Pronto Soccorso non ha fatto gli sforzi necessari per isolare i pazienti contagiati… ovviamente qui negli Stati Uniti è diverso, e il nostro Pronto Soccorso non è collassato anche se abbiamo abbondantemente passato i dieci giorni dal contagio… punto numero cinque, l’Italia non sta utilizzando la combinazione di farmaci antivirali che è stata efficacemente utilizzata nella Corea del Sud… solo perché questa combinazione (di farmaci, ndr) non è quella “ufficiale” per trattare il Covid-19”.

La visione di una parte dell’America sta tutta qui, nella condizione consolidata di acquisita eccezionalità. Non c’è bisogno di elencare cinque, dieci o venti ragioni del perché, oggi, gli Stati Uniti sono il paese più colpito dal virus, con i suoi due milioni di casi e 110 mila morti. Eppure qualcosa da sottolineare c’è, ed è la stratificazione del contagio su classi sociali. Chissà se il governatore di New York, Andrew Cuomo, ne era cosciente quando in un discorso agli inizi della crisi epidemica ripeteva, come incoraggiamento, “sarà solo il 5% di noi ad essere colpito”.

Di sicuro ci aveva preso. A metà marzo, infatti, c’è stata la fuga dalla “Grande Mela” verso le seconde case in Upstate o in Connecticut. Chi ha potuto ha scelto giustamente di auto-isolarsi. Gli abitanti dei quartieri “popolari” del Bronx, di Brooklyn, di Staten Island e del Queens hanno forzatamente scelto di restare. Proprio in queste popolose e popolari aree urbane si è concentrata la percentuale prevista da Cuomo.

I dati del New York City Department of Health and Mental Hygiene mostrano un’incidenza altissima nelle zone sopracitate, a maggioranza afroamericana, latina o di immigrati.
Il numero di decessi in questi boroughs è il più alto degli Usa.
Il contagio è maggiore nelle aree con un basso PIL pro capite. In più, da dati governativi, è chiarissima la fatalità distribuita secondo le classificazioni proprie del sistema anglosassone, su race e poverty.
Questi sono i numeri dell’America degli squilibri e dell’individualismo, dove notoriamente si accede alla sanità, ai tamponi e alla giusta informazione solo se si è parte “produttiva” del sistema. Tuttavia queste esclusioni sono la causa di un vigoroso attivismo partecipativo. L’ipotesi è che un sistema che funziona su gerarchie sociali monolitiche, con minimo aiuto statale, produca i necessari anticorpi all’interno della comunità stessa. Molte associazioni hanno riempito il vuoto di Stato, organizzando catene di solidarietà.

Sul sito mutualaid.nyc si possono trovare decine di organizzazioni no-profit che offrono servizi di tutti i generi. La Vision Urbana Inc. è una di queste. Fino a qualche mese fa si occupava solo di anziani degenti. Nel mese di aprile l’associazione ha organizzato una catena di distribuzione di cibo gratuito per chi ha perso il lavoro o vive in condizioni precarie nel Lower East Side di Manhattan. Interi condomìni hanno fatto la richiesta online. Le derrate provengono dalla no-profit Food Bank, mentre la logistica è stata offerta dal gruppo di investimento Blackstone, che aveva chiuso gli uffici della Downtown offrendo pro tempore i propri furgoni alla causa.

Addentrandosi nelle comunità newyorkesi si assiste al moltiplicarsi di gesti solidali. Dal food-truck che offre tacos gratuiti al “Friendly Fridge” dove donare alimenti, ai ristoranti che offrono cibo specificamente per il Ramadan in un quartiere a maggioranza pakistana di Coney Island. Ma soprattutto ci sono moltissimi giovani volontari, che rappresentano il senso autentico e sublime di una società dal basso che essi stessi provano a modellare.

Solo a New York circa un milione di persone hanno perso il lavoro e molti hanno scelto di investire il proprio tempo nel volontariato. Janet è stata licenziata dalla famosa catena di librerie Barnes & Nobles, ed ora ha “molto tempo libero” per fare volontariato poiché vorrebbe “che lo facessero con me se mi trovassi in condizioni disperate”.

Il lockdown di New York è stato dichiarato solo il 22 marzo. La città ha avuto davvero paura nella prima settimana. In quei giorni il pericolo, finora visto in televisione o sul cellulare, si è fatto subito reale. Sono stati allestiti campi di terapia intensiva a Central Park. La nave-ospedale militare “Usns Comfort” è approdata a Brooklyn a fine mese. L’isteria ha lasciato gradualmente il posto alla rassegnazione, poi all’abitudine. Dopo le prime due settimane la gente ha ricominciato ad uscire. Certo, i ristoranti e i bar erano chiusi, ma ci si convince che è preferibile ammalarsi invece che rinunciare alla libertà.

Lo stato di New York non ha intenzione di limitare gli spostamenti e preferisce dissimulare un egoistico libertarismo come un sacro diritto civile del singolo individuo. Dopo la seconda settimana di lockdown qualcuno è già nei parchi, nei fine settimana, a fare picnic. Altri giocano a calcio o a pallavolo, o fanno yoga sul lungofiume, o si organizzano piccole feste tra amici sui tetti delle abitazioni. Ma intanto i contagiati e i decessi continuano a crescere. Se avessimo potuto leggere le menti di quelle persone, magari al parco, un qualsiasi sabato o una domenica, avremmo sentito una voce come una coscienza collettiva ripetersi “non a me”.

Si arriva così a giugno: le mascherine spariscono man mano e il pericolo Coronavirus sembra ormai passato. Temi più impellenti hanno preso residenza nella coscienza dei newyorkesi. Lo si percepisce nei discorsi della maggioranza della popolazione, che parla al passato di qualcosa che è ancora tra loro.