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Alle periferie delle città, lungo sentieri di campagna, nei villaggi in montagna e sulla costa adriatica, tra le altalene dei parchi giochi e le lapidi dei cimiteri. Dappertutto in Albania spuntano come funghi in cemento armato i bunker frutto della paranoia di Enver Hoxha. “Ogni goccia di sudore versata per la fortificazione del Paese è una goccia di sangue risparmiata sul campo di battaglia”, soleva dire il dittatore comunista che nell’arco di un decennio fece del Paese delle aquile una vasta linea Maginot. Settecentomila bunker per difendersi da un’invasione che non avrà mai luogo. Eppure l’Albania doveva essere sempre pronta, “gjithmone gati“, pronta a difendersi tanto dall’imperialismo occidentale, quanto dall’imperialismo sovietico. Una sindrome da accerchiamento scattata nel 1968 all’indomani dell’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’Unione sovietica e degli alleati del Patto di Varsavia.
Era isolata, allora, l’Albania. Scismi ideologici e politici avevano portato Tirana a rompere le relazioni prima con la Jugoslavia di Tito, poi con l’Unione sovietica del dopo Stalin. Non era rimasta che la Cina della rivoluzione culturale, l’unica a preservare il comunismo nella sua purezza ideologica. E fu proprio Pechino a sostenere il programma di bunkerizzazione deciso da Hoxha a difesa di un Paese in cui il ricordo dell’occupazione fascista era ancora vivido. Alle forze armate italiane ci erano voluti cinque giorni per piegare la resistenza albanese. Quell’aprile 1939 non avrebbe dovuto ripetersi, mai più. Così suonò il campanello della mobilitazione generale. In caso di attacco ogni albanese avrebbe dovuto controllare strade e villaggi. Per anni la popolazione venne addestrata a questo scopo. Il sistema di fortificazioni consisteva di bunker di diverse dimensioni connessi tra loro da una rete di comunicazione. C’erano i qendër zjarri, le linee di fuoco, che contenevano gruppi da due-tre persone, e i pikë zjarri, i posti di comando, bunker più grandi progettati per resistere a un fuoco di artiglieria continuo a distanza ravvicinata. E ancora trincee e depositi per munizioni, viveri, vestiti, petrolio. Un processo, quello della bunkerizzazione dell’Albania, che drenò le risorse di un Paese già provato dalla miseria e dall’arretratezza economica.
A Kepi i Rodonit i bunker si stagliano sulla spiaggia come statue soprannaturali di un passato che ha marchiato a fuoco l’identità del Paese. Una ferita profonda che sta lì a testimoniare la surreale brutalità del comunismo di Enver Hoxha. Eppure l’Albania di oggi quel passato vuole archiviarlo. I bunker, distrutti, riconvertiti, lasciati all’incuria, divengono la cartina di tornasole del rapporto controverso con gli anni del comunismo, e delle contraddizioni del presente.
Una decina di chilometri a sud di Durazzo, le spiagge assolate e ventose di Golem sono un sovrapporsi di ferite vecchie e nuove. Sul lungomare devastato dall’inquinamento e dall’abusivismo edilizio, spuntano i relitti dell’isolazionismo comunista riconvertiti in caffè, ristoranti, complessi alberghieri. È la storia di Kujtim Roci, idraulico, che alla caduta del regime lasciò il suo lavoro per distillare raki in un pikë zjarri vicino casa. Quel bunker è stata la sua fortuna. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione dal ministero della Difesa, Roci ci costruì su un ristorante e un hotel. In molti hanno seguito il suo esempio. E così la paranoia di ieri si fa attrazione turistica oggi, soverchiata da quello stesso capitalismo da cui cercava di difendersi. Questi silenziosi resti del passato comunista sono stati impiegati nei modi più disparati. Nelle aree rurali del Paese non è raro vedere i bunker trasformati in rifugi per animali o in cantine per conservare gli alimenti. La maggior parte però è andata distrutta. La vendita del ferro che se ne estrae può fruttare a bunker fino a 300 euro, lo stipendio medio in Albania.
Ad oggi manca un piano nazionale che miri a preservare almeno alcuni dei bunker più significativi sul piano storico. Negli ultimi anni però si sta facendo strada l’esigenza di conservare queste memorie del passato. Un’esigenza che ha portato alla conversione in musei di due bunker della capitale, i più grandi mai costruiti in Albania.
Una luce innaturale illumina il Bunk’Art 1, il rifugio antiatomico realizzato per ospitare l’intera nomenclatura comunista nell’eventualità di un attacco: membri del politburo, parlamentari dell’assemblea del popolo, i vertici delle forze armate. Tremila metri quadri di stanze, cunicoli e sale scavate nelle viscere delle colline che circondano Tirana ai piedi del monte Dajti. Un luogo fatto di cemento, piombo e vetro, pensato per permettere alla classe dirigente di continuare a guidare il Paese per mesi, forse per anni, seppellita viva sottoterra.
Attraversate le docce che servivano a lavar via le radiazioni, l’appartamento scarno e austero del dittatore Hoxha e di sua moglie. Uno studio, una camera da letto, un bagno. Nei 13 anni che trascorsero dalla sua costruzione al crollo del comunismo, Hoxha non passò nemmeno una notte in quel covo. Stanze più piccole si aprono su corridoi infiniti, tutti uguali, claustrofobici.
Ora quelle stanze, un centinaio, ospitano immagini, videoproiezioni, cimeli d’epoca, testimonianze della storia nazionale, dall’invasione ottamana all’occupazione fascista, dalla resistenza al regime comunista. Un museo sepolto come sepolto si vorrebbe quel passato.
Rruga Abdi Toptani, affolatta di turisti e uomini d’affari. Alle spalle del Teatro nazionale e a pochi metri da piazza Skanderbeg si svela agli occhi il Bunk’art 2, mille metri quadri di rifugio antiatomico che sarebbe servito a dare riparo ai vertici della polizia e al personale del ministero degli Interni in caso di un’invasione. Una ventina di stanze ora divenute un museo delle forze di polizia, un luogo per riflettere sui metodi impiegati in particolare dal Sigurimi, la polizia segreta albanese operativa durante il comunismo. Arresti preventivi, false incriminazioni, confessioni estorte con la tortura. Un’impressionante lista di nomi ricorda le vittime di 45 anni di comunismo: 6,027 condannati a morte, 34mila prigionieri, più di 50mila deportati nei campi di internamento.
Una breccia si apre nella cupola in cemento del bunker. Un anno dopo l’apertura del museo al pubblico nel 2014 la struttura è stata presa d’assalto durante una manifestazione indetta dal Partito democratico di Sali Berisha. Il museo, è l’accusa, è un modo per il Partito socialista del premier Edi Rama che ne ha deciso la costruzione, di celebrare una pagina buia della Storia. I segni della distruzione sono stati lasciati lì per volontà del governo.
Un’area militare abbandonata inutilizzata per vent’anni, offre una vista spettacolare sulle montagne intorno a Tirana. Qui un gruppo di studenti di studi europei orientali alla Freie Universitat di Berlino in collaborazione con lo spazio d’arte alternativo Tirana Ekspres ha dato vita a Tek Bunkeri, un progetto di riqualificazione che trasforma i bunker in nuovi spazi culturali.