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Akhát: secondo l’antica religione Sami sono “Le madri”. Maderakka, Juksakka, Sarakka, Uksakka: questi i loro nomi. Danno la vita, scelgono chi partorirà un uomo, chi una donna. Si prendono cura delle famiglie, vivono con il popolo della terra, condividono gli spazi pur non mostrandosi all’occhio umano. Sono le divinità della natura. La natura che, in queste lande ghiacciate spazzate dal vento del Nord, tutto domina. Spiritualità e tradizione, innovazione e riscatto delle proprie radici, magia e realtà.Terra Madre di un popolo senza confini, Madre Terra per un popolo nomade.
Oltre il circolo polare artico, all’estremo Nord del mondo, fra Tromsø e Capo Nord, esiste un popolo dalle radici antiche e profondamente connesse alla Terra: i Sami. In una sorta di solidarietà mistica, il loro vivere segue il ritmo della natura e con essa fa i conti ogni giorno. Abitare una terra estrema, infatti, pone l’uomo in continua sfida con se stesso, più che con la natura. I Sami vivono a stretto contatto con la propria terra da centinaia di anni: lo testimoniano i graffiti rupestri di Alta, sito Unesco dell’omonima città, nello Stato norvegese del Finmark. Si tratta di rocce dalla composizione simile a quelle della Val Camonica, in Lombardia, che testimoniano come questo popolo antico abbia sempre abitato qui. Sebbene, oggi come oggi, la vita dei Sami sia perfettamente integrata con le abitudini moderne, resistono ancora mestieri di antica memoria, come l’allevamento delle renne, e credenze sussurrate sottovoce, come lo sciamanesimo.
Fra Tromsø e Capo Nord corre una “route 66” di ghiaccio. È la strada che si percorre per arrivare alla parte più settentrionale della Norvegia. Boschi, laghi, fiordi, montagne: uno scenario mozzafiato che obbliga a fermarsi più e più volte per respirarne a pieni polmoni la bellezza. Ma c’è un punto che è passaggio e confine. Frontiera non percepita.
È la valle di Manndalen: uno dei luoghi dove vivono i Sami della costa. Un caffè, un benzinaio e un supermercato, poco altro. Eppure, questa, è una terra ricca di storia, di tradizione, di magia. Da qui basta prendere una strada nascosta tra i boschi e salire per arrivare là dove la terra diventa simile alla superficie lunare e il cielo sembra così vicino da poterlo toccare: nella tundra.
Aquile reali, volpi artiche, renne e, all’orizzonte, qualche cabin, un recinto e pochi uomini. Sono i Sami della tundra, pastori nomadi dediti all’allevamento delle renne. Perché qui, sebbene sia Norvegia, è allo stesso tempo “Sápmi”. Il territorio “Sápmi”, infatti, è suddiviso in un’area che comprende le frontiere di quattro Stati: Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. L’area ha una propria bandiera i cui colori identificano le sue diverse zone: rosso per la Svezia, verde per la Finlandia, giallo per la Russia e blu per la Norvegia, dove vive la maggior parte dei Sami.
I Sami sono conosciuti anche come Lapponi ma pochi sanno che, in origine, questo era un termine dispregiativo. Lappone deriva infatti dal termine svedese Lapp il cui significato è “straccione, pezzente”. Attraversando la tundra norvegese si approda infine a Kautokeino e a Karasjok: capitale culturale dei Sami la prima, ove il 90% della popolazione parla Sami, sede del Parlamento Sami la seconda.
Tra il 1850 e il 1970, il popolo Sami è stato oggetto di una dura politica che ha preso il nome di “norvegesizzazione”. Durante questo periodo ai Sami residenti in Norvegia venne impedito di parlare la propria lingua e imposto di assumere un cognome norvegese per poter acquistare delle terre e integrarsi con il resto della popolazione. Appartenere al popolo Sami era un marchio d’infamia.
Gli adulti vennero assimilati al modo di vivere occidentale e, solo con estrema fatica, alcuni di loro – soprattutto i Sami della tundra – continuarono a lavorare con le renne e a preservare la loro tradizione.
Spesso i bambini nati durante il periodo della “norvegesizzazione” non imparavano neppure la propria lingua. I genitori, per preservarli e far sì che si integrassero con la popolazione norvegese, parlavano con loro solo nella lingua imposta dal governo. Ad oggi molti sono gli adulti che sentono di aver perso le proprie radici.
I più colpiti dalla politica di “norvegesizzazione”, detta “Fornorsking av samer”, sono stati i Sami della costa. Vivendo infatti lungo i fiordi che costellano il Paese, sono stati tra i primi a subire questo processo. Tra di loro, la percentuale di persone che non parla Sami è molto alta.
Mediamente le persone fra i 30 e i 60 anni di età non conoscono la propria lingua madre. Per ovviare a questo, sono in corso diverse iniziative per il recupero dell’identità: il parlamento Sami ha reintrodotto la propria lingua nelle scuole e, con essa, anche lo studio della propria storia e tradizione.
I Sami della tundra, invece, in quanto nomadi dediti all’allevamento delle renne, hanno subito meno la “norvegesizzazione” e, in città come Karasjok e Kautokeino, l’85% della popolazione parla Sami come prima lingua.
È il 1997 quando, in un discorso ufficiale, Sua Maestà il re di Norvegia Harald V, riconosce le azioni dello Stato norvegese e presenta le scuse ufficiali a nome del governo al popolo Sami.
“Lo Stato della Norvegia è stato fondato sul territorio di due popoli: i Sami e i norvegesi. La storia dei Sami è strettamente intrecciata con la storia norvegese. Oggi esprimiamo il nostro rammarico a nome dello Stato per l’ingiustizia commessa contro il popolo Sami attraverso la sua dura politica di norvegesizzazione”. È un momento fondamentale per i Sami: il primo riconoscimento ufficiale da parte del governo norvegese.
Catalogata in 11 differenti dialetti, di cui uno estinto nel 1800 e l’altro nel 2003, la lingua Sami è molto complicata. Solo sei dialetti hanno una storia letteraria cui attingere e dobbiamo pensare che spesso, per una singola parola, abbiamo decine di espressioni diverse. Un esempio concreto è la parola “neve”. Vivendo nell’artico – dove per circa sei mesi all’anno la neve, il ghiaccio e la poca luce fanno da padroni – è necessario poter definire al meglio uno dei componenti essenziali che determina la capacità di movimento e di lavoro di questi popoli in territori tanto duri come la tundra. E così, per descrivere una neve secca, o fragile, o farinosa, o ghiacciata si usano parole completamente diverse tra loro.
Sebbene i Sami siano per lo più luterani, il loro legame con la religione d’origine, lo sciamanesimo, resta estremamente forte. L’antica religione dei Sami abbraccia una gamma di tradizioni e costumi. Il credo, infatti, è di stampo naturalistico e non ha un fondatore né un insieme di norme che regolino le forme di culto.
Lo sciamanesimo era un culto politeista che traeva la propria ispirazione dalla natura. Tra le più antiche divinità troviamo la Madre Terra (colei che governa le nascite e dunque la vita) e il Dio del tuono. L’antica religione si basava su una percezione animistica del mondo e una forma di culto sciamanico in cui avevano particolare rilevanza il tamburo e l’esecuzione degli Joik, canti tipici ispirati dalla natura. Per gli sciamani la natura possiede un’anima ed è ritenuta un essere vivente al pari dei monti, dei laghi, delle rocce.
Per questa popolazione, il rispetto della Madre Terra resta la base di ogni azione. Prima della caccia, prima della pesca, e all’inizio della stagione della transumanza, si ringrazia e si chiede il permesso a Madre Terra per portare avanti la propria attività.
Saranno i missionari, tra il XIII e il XVI secolo, a mettere per iscritto alcune delle credenze pre-cristiane di questo popolo. Con l’avanzata dei coloni scandinavi e norvegesi, intere comunità Sami furono costrette ad abbandonare le pratiche religiose pagane e a diventare luterani o cattolici.
Proprio in Norvegia, nel 1716, nacque il Seminarium Lapponicum;L un’organizzazione con il compito di cristianizzare i Sami fornendo loro le Sacre scritture in lingua Sami. Questa iniziativa fallì in quanto la maggioranza ecclesiastica si oppose alla conservazione dei valori tradizionali (tra cui la lingua) e si procedette al sequestro e al rogo degli oggetti simbolici, come i tamburi, legati al culto pagano.
Fu con l’arrivo di Lars Levi Laestadius, nel XIX secolo, che avvenne una vera svolta. Questo pastore luterano di origine Sami fondò un suo movimento, il “laestadianesimo”. Il primo precetto di questo movimento era la remissione dei peccati e l’incontro con lo Spirito Santo.
Dopo l’arrivo dei coloni – complice il forte cambiamento di vita con l’imposizione di nuove abitudini, l’esproprio forzato dai terreni, la perdita della lingua madre – molti Sami caddero nella spirale dell’alcool, usato in precedenza per le pratiche sciamaniche in quanto fondamentale per cadere in trance.
Laestadius, grazie alla fondazione del suo movimento religioso, aiutò i Sami a trovare una nuova salvezza dalla spirale di abbruttimento nel quale erano caduti dopo l’invasione dei coloni, ma allo stesso tempo impose loro concetti molto restrittivi creando fratture all’interno della comunità.
Chi non si convertiva veniva guardato con sospetto e messo in qualche modo al bando dalla comunità.
Ad oggi, molti Sami seguono il cristianesimo, anche se continuano a conservare figure come il “guaritore”. La differenza con il passato è che, se una volta il guaritore/sciamano utilizzava il tamburo per mettersi in collegamento con gli dei e guarire una persona, oggi la guarigione viene operata tramite l’uso della Bibbia e di Gesù. Questa mescolanza tra cristianesimo e paganesimo è ancora più forte quando scopriamo che alla celebrazione del Natale i Sami affiancano il «Nissetoget» per la celebrazione del Capodanno.
Di questo rito che avviene nella valle di Manndalen, non si trova traccia scritta e non sono dunque chiare le origini. Si tratta di una celebrazione che inizia diversi giorni prima del 31 dicembre con la costruzione di maschere mostruose. Per realizzarle, si utilizzano principalmente materiali naturali come pelli, ossa di animali e teschi. I manufatti creati devono essere spaventosi in quanto rappresentazioni dei demoni o comunque del male.
Le maschere così realizzate vengono indossate la notte del 31 dicembre. Non è dato sapere chi vi si celi dietro ma c’è una regola ben chiara: senza una maschera non si può prendere parte alla processione. Chi dovesse provarci si troverebbe suo malgrado attaccato dai “demoni” e forzato ad andarsene.
Arrivata la mezzanotte la processione giunge al momento finale: il grande rogo simbolico. Qui i Sami ancora mascherati danzano attorno al fuoco e ad un preciso gesto si tolgono la maschera e la bruciano, per poi gettare nelle fiamme anche il resto del costume. Questo rito rappresenta l’allontanamento del male e serve a rivolgere le proprie preghiere agli dei affinché si possa trascorrere l’anno che verrà serenamente.
Bisogna tornare ancora una volta nella tundra o tra valli solitarie per trovare quelle che vengono definite “Stallo”. Si tratta di rocce dalla forma prominente, dotate, secondo le credenze Sami, di poteri soprannaturali.
Su di esse vengono lasciate offerte come monete, corna di renna, pesce o carne, al fine di ingraziarsi gli dei della natura, ottenere una buona pesca o un buon anno di caccia o di allevamento. Ancora oggi, nessun Sami osa toccare un’offerta posta su una di queste pietre: si crede infatti che porti cattiva sorte e che gli spiriti degli antenati tornino per vendicarsi. A chetare gli spiriti può essere solo la restituzione di ciò che si è trafugato.
Per i Sami, il legame con gli antenati è importantissimo: la morte, che è vista come passaggio che fa parte della vita, non è la fine di tutto. Secondo questa popolazione, chi ci ha preceduto è in qualche modo eternamente presente.
Oltre alle pietre del sacrificio, restano ancora oggetto di culto altre rocce: un tempo, infatti, prima dell’avvento del luteranesimo, i Sami identificavano come luogo sacro dove ritrovarsi a pregare delle pietre di forma particolarmente allungata verso il cielo, luoghi che simboleggiavano l’unione tra terra e mondo invisibile.