Nel 2003 il mondo intero, quasi senza saperlo, scampò al pericolo di una pandemia globale. Allora, come nel 2019, fu un coronavirus a mettere a repentaglio l’umanità. Gli scienziati chiamarono quel patogeno, apparso in Cina, nella provincia meridionale del Guangdong in circostanze mai del tutto chiarite, Sars. Un acronimo di Severe acute respiratory syndrome, visto che quel virus, quasi sicuramente proveniente da un pipistrello, provocata una strana polmonite atipica.

Il contagio si diffuse al di fuori del territorio cinese, toccando 30 Paesi e zone differenti. Senza alcun vaccino, e in circostanze misteriose tanto quanto la sua comparsa, il Sars sparì senza quasi lasciare traccia. Tra il novembre 2002 e il luglio 2003 furono registrati 8.096 casi e 774 decessi per un tasso di letalità finale pari al 9.6%. Un anno dopo l’epidemia di Sars, la comunità internazionale iniziò per la prima volta a interrogarsi seriamente su quali mosse mettere in campo per sconfiggere le prossime malattie emergenti.

Fu in una cornice del genere che, nel 2004, Hu Jintao e Jacques Chirac, all’epoca rispettivamente presidente cinese e francese, trovarono un inedito accordo scientifico. Francia e Cina decisero di costruire un laboratorio P4, cioè dotato del massimo livello di biosicurezza possibile, per studiare i virus altamente patogeni. La struttura sorse a Wuhan, dove era già presente un istituto di ricerca sulla virologia gestito dall’Accademia cinese delle scienze, il Wuhan Institute of Virology (WIV).

La genesi

Sulla cooperazione transalpina influirono anche i motivi storici, visto che il capoluogo della provincia dello Hubei, nell’Ottocento, era la sede della concessione francese. Ancora oggi, questa città ospita i bracci cinesi di numerose aziende e multinazionali transalpine, tra cui, soltanto per fare qualche esempio, Peugeot, L’Oréal, Eurocopter e Renault. Se Chirac e il premier Jean-Jacques erano soddisfatti per aver fatto avvicinare la Francia all’emergenza Cina, il ministero degli Affari Esteri di Parigi era a dir poco titubante per la concretizzazione della partnership franco-cinese sul laboratorio. Ampie fette del deep state francese vedevano come fumo sugli occhi l’idea di trasferire verso Pechino tecnologie sensibili. E non solo per il fatto di rafforzare un rivale, ma anche e soprattutto per l’incognita relativa alla sicurezza pubblica. I cinesi, data la loro sostanziale inesperienza in materia, sarebbero stati in grado di maneggiare strumenti del genere senza fare danni?

Grazie a un mix di finanziamenti cinesi e tecnologia ed esperti francesi, il cantiere del laboratorio terminò nel 2015, mentre la struttura entrò in funzione nel 2018. Proprio in concomitanza con la prima visita di Stato in Cina di Emmanuel Macron. A quel punto accadde qualcosa di inaspettato. I francesi, che stando agli accordi presi avrebbero dovuto visionare e controllare le ricerche svolte all’interno della struttura, sarebbero stati estromessi da ogni attività. Gli scienziati cinesi iniziarono quindi a maneggiare tecnologie altamente sensibili e virus pericolosissimi in completa autonomia.

Emanuel Macron e Xi Jinping durante la visita del presidente francese in Cina nel 2018.

Il sito della Chinese Academy of Science illustra l’obiettivo generale del progetto attuato a Wuhan. Le autorità cinesi avevano intenzione di costruire un polo di ricerca internazionale costituito da varie strutture, tra cui un laboratorio di biosicurezza ad alto livello, a sua volta basato su un rigoroso sistema di gestione e aperto in misura limitata agli scienziati nazionali. L’obiettivo è espressamente citato: formare una “piattaforma di ricerca relativamente indipendente in grado di ricercare due o tre tipi di infezioni fulminanti derivanti dai patogeni e sviluppare i rispettivi vaccini”. Potendo contare su un centro del genere, Pechino avrebbe compensato la “sostanziale debolezza” del sistema cinese in risposta alle emergenze per la salute pubblica.

Nel caso in cui fosse apparsa una nuova malattia infettiva simile alla Sars, si pensava, la Cina sarebbe stata in grado di prendere adeguate misure di prevenzione e controllo. Insomma, il fiore all’occhiello di Wuhan doveva svolgere un “ruolo fondamentale” e di “supporto tecnico” nella prevenzione e nel controllo delle principali nuove malattie infettive in Cina, soddisfacendo così “la grande domanda strategica della nazione e rivelando importanti questioni scientifiche”. Scendendo nel dettaglio, il laboratorio sarebbe diventata “una base per la ricerca sulle misure da adottare per la prevenzione e il controllo delle malattie emergenti in Cina”, un “centro di conservazione dei virus”, un “laboratorio di riferimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms)” e un “nodo per la rete delle malattie”. Non è finita qui, per quel sito avrebbe potuto e dovuto migliorare anche la capacità del Dragone di “prevenire e rispondere a guerre biologiche e attacchi terroristici”, nonché di “garantire la biosicurezza della Cina”.

Foto da lontano del laboratorio P4 del Wuhan Institute of Virology.

La struttura

Il laboratorio entrato in funzione nel 2018, il Wuhan National Biosafety Laboratory, è dunque solo una parte del Wuhan Institute of Virology. Questo ramo, costato circa 44 milioni di dollari, per fugare ogni problema di sicurezza è stato costruito al di sopra della pianura alluvionale locale, ed è stato dotato della capacità di resistere a un terremoto di magnitudo 7, sebbene l’area non abbia precedenti di forti terremoti. Lo scopo della struttura, come detto, è duplice: controllare le malattie emergenti immagazzinando virus purificati e fungere da laboratorio di riferimento dell’Oms grazie ai suoi collegamenti con altri laboratori simili sparsi in tutto il mondo. “Sarà un nodo chiave nella rete globale di laboratori di biosicurezza”, aveva affermato nel 2017 il direttore del laboratorio Yuan Zhiming.

Il Wuhan National Biosafety Laboratory nasce quindi come progetto internazionale di cooperazione scientifica e tecnologica nell’ambito di un accordo a due tra Cina e Francia sul coordinamento per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive emergenti. La parte principale dell’edificio del laboratorio BSL-4 ha quattro piani. Il piano terra è utilizzato per il trattamento delle acque reflue, il supporto vitale e le apparecchiature di protezione della distribuzione dell’energia.

All’altezza del secondo piano si trova la zona centrale dove vengono effettuati gli esperimenti. Essa comprende tre laboratori a livello cellulare, due laboratori per animali, una sala di dissezione e una sala di conservazione dei batteri (virus), che può svolgere contemporaneamente ricerche per tre agenti patogeni e svolgere valutazioni sulla patologia delle infezioni di animali di piccola e media taglia, nonché sull’efficacia dei farmaci. I laboratori, inoltre, sono in grado di conservare i “semi” del virus. Le pareti della zona sperimentale centrale sono state realizzate in acciaio inossidabile di forte resistenza alla corrosione, unite alla tecnologia di saldatura laser e sviluppate in modo indipendente dalla Cina. Raggiungono lo standard internazionale di prima classe.

Il terzo piano è per l’aria compressa e le tubazioni di ventilazione, mentre il quarto è per le apparecchiature HVAC (Heating, Ventilation and Air Conditioning, ovvero riscaldamento, ventilazione e aria condizionata) e il tubo collettore per l’aria compressa. Il personale di laboratorio è solito indossare una tuta protettiva a pressione positiva capace di rendere ogni singolo addetto totalmente isolato dall’ambiente circostante, alla stregua di un astronauta nello spazio. L’aria necessaria alla respirazione viene fornita agli addetti da un tubo controllabile proveniente dalla stazione di alimentazione. Gli addetti, prima di lasciare la struttura, devono completare la procedura di decontaminazione tramite doccia chimica. La comunità scientifica è stata rassicurata dal fatto che molti scienziati del laboratorio di Wuhan sono stati formati presso un laboratorio BSL-4 a Lione, in Francia. Le acque reflue della doccia chimica e le acque reflue tossiche generate dai lavori in laboratorio sono raccolte centralmente attraverso un sistema di tubi fognari a doppio strato, e sottoposte a disinfezione ad alta temperatura (135 ). Il laboratorio BSL-4 è infine dotato di un sistema direzionale a pressione negativa e un sistema di filtraggio a doppio strato per garantire che l’aria nel laboratorio possa essere scaricata solo dopo essere stata filtrata con un filtro ad hoc.

Gli studi controversi

Il WIV non è stato pensato per essere un laboratorio isolato. Al contrario, nel recente passato la struttura aveva forti legami con alcuni centri americani, come il Laboratorio Nazionale di Galveston della divisione medica dell’Università del Texas e (pare) lo US Army Medical Research Institute of Infectious Diseases (USAMRIID) di Fort Detrick, nel Maryland, e canadesi, tra cui il National Microbiology Laboratory. Date le “origini” occidentali del WIV, e le sue connessioni accademiche con altre strutture internazionali, è possibile supporre che all’interno del laboratorio cinese venissero realizzati studi simili a quelli effettuati nel resto del mondo.

Quali? Studi sui coronavirus, e in particolare studi gain-of-function. Al fine di sviluppare adeguate contromosse per frenare la futura evoluzione dei virus più temibili, come ad esempio la Mers e la Sars, gli esperti possono scegliere di rendere tali patogeni più forti e più trasmissibili mediante attività di laboratorio. Producendo virus “rafforzati” artificialmente è possibile studiare il meccanismo attraverso il quale si trasformano e interagiscono con l’ospite, sia esso animale o umano. Nel caso in cui la ricerca dovesse svolgersi senza intoppi, gli esperti potrebbero essere in grado di sfornare farmaci ad hoc per sconfiggere questi virus. Ma i rischi non mancano, e gli incidenti sono dietro l’angolo. Già, perché se durante un esperimento il virus rafforzato dovesse diffondersi tra i ricercatori, o tra gli animali coinvolti nelle attività, allora potrebbe accade il pandemonio.

Da qui nasce la teoria dell’ipotetica fuoriuscita del Sars-CoV-2 dal laboratorio di Wuhan in seguito a un incidente. In ogni caso, prima di approfondire questa ipotesi, vale la pena approfondire i legami tra il WIV e le strutture americane. Shi Zhengli, una delle più note virologiche cinesi, conosciuta anche con il soprannome di Bat Woman per i suoi studi sui coronavirus derivanti dai pipistrelli, ha realizzato alcuni paper scientifici molto interessanti. A capo del Center for Emerging Infectious Diseases, Miss Shi potrebbe essere riuscita a convertire con successo un coronavirus simile alla Sars, il virus SHCO14-C0V, dai pipistrelli ad altri animali.

La ricercatrice Shi Zhengli nota anche con il soprannome di Bat Woman

Un report pubblicato dal Wall Street Journal e realizzato dall’intelligence Usa, ha ipotizzato l’eventuale fuga di questo virus dalla struttura a causa di standard di sicurezza non propriamente eccelsi, oppure per via di un errore umano. Il dossier, fin qui classificato, sostiene che nel novembre 2019 – cioè circa un mese prima del primo contagio ufficiale registrato dalle autorità cinesi – tre ricercatori dell’Istituto cinese di virologia di Wuhan si sarebbero gravemente ammalati, tanto da richiedere persino le cure ospedaliere. Quale malattia avevano contratto? Una malattia che avrebbe generato in loro “sintomi coerenti sia con il Covid-19 che con la comune malattia stagionale”.

Al netto della veridicità dell’informazione (smentita dalle autorità cinesi), non vi è, dunque, alcuna certezza che gli addetti in questione avessero contratto il Sars-CoV-2. La fonte del rapporto Usa è sconosciuta. Non è da escludere che l’intero documento sia stato classificato come top secret in quanto gli Stati Uniti sarebbero riusciti a ottenere le suddette indiscrezioni da contatti diretti coltivati a Wuhan, o perfino all’interno della struttura scientifica.

La Lab Leak Theory

Aleggiano dubbi sugli studi effettuati dai ricercatori cinesi, e ancora oggi non si conoscono i particolari. Non dovrebbe esserci niente di cui stupirsi, visto che nessun governo, neppure quello americano, si sognerebbe mai di comunicare ai media le ricerche altamente sensibili realizzate in strutture del genere. Sappiamo tuttavia che nel laboratorio di Wuhan gli scienziati cinesi erano soliti maneggiare i coronavirus di pipistrelli. Sia chiaro: questo non significa automaticamente che il virus sia per forza uscito dall’edificio. Eppure, ben presto, la pista della Lab Leak Theory, iniziò a circolare con una certa insistenza.

In un primo momento l’ipotesi appariva come fantascientifica. Anche perché spesso si confondeva l’eventuale fuoriuscita accidentale del patogeno dal WIV, magari avvenuta in seguito a un errore umano, con l’esplicita volontà del governo cinese di aver “liberato” un virus contagioso per danneggiare, nella migliore delle ipotesi, gli altri Paesi del mondo. Quest’ultima teoria fu subito considerata una fake news dalla comunità scientifica, mentre la prima, ovvero l’ipotesi dell’errore umano, fu bollata dall’Oms come “estremamente improbabile”. Per quale motivo, allora, la teoria del laboratorio è tornata in auge? Sono state le rivelazioni pubblicate dai media statunitensi a riaccendere i riflettori sul WIV.

A fine maggio il presidente americano Joe Biden ha chiesto ai funzionari di raddoppiare gli sforzi per indagare sulle origini della pandemia di Covid-19. Ogni singola ipotesi dovrà essere presa in esame, compresa la Lab Leak Theory. Nel giro di tre mesi le agenzie Usa dovranno “riferire” cosa avranno scoperto, le strutture nazionali del Paese dovranno assistere alle indagini mentre l’intelligence è chiamata a preparare domande specifiche da rivolgere al governo cinese. I servizi segreti americani hanno davvero nelle loro mani nuovi elementi con i quali inchiodare la Cina sul laboratorio, oppure quella di Washington è soltanto una strategia per mettere pressione su Pechino? Difficile dare una risposta, se non che, almeno nel momento in cui scriviamo, non ci sono ancora elementi che consentano di verificare al 100% la Lab Leak Theory.

Il presidente Usa Joe Biden in visita a un laboratorio di analisi a Bethesda, Md. Al centro un modello del Sars-Cov2

La guerra di dossier

Lo scorso gennaio un team di esperti dell’Oms è atterrato a Wuhan per raccogliere quanti più indizi possibili per fare luce sulle origini del coronavirus. Lavorando assieme ai colleghi locali (secondo alcuni: controllati a vista), gli scienziati hanno trascorso 28 giorni nel primo epicentro noto di Covid al mondo nel tentativo di riordinare le tessere del puzzle. Al termine della missione l’équipe ha stilato un rapporto di oltre 120 pagine e intitolato WHO-convened Global Study of Origins of SARS-CoV-2: China Part. Joint WHO-China Study.

L’Oms non è riuscita a risolvere il mistero, ma ha messo sul tavolo quattro possibili ipotesi di trasmissione del Covid: trasmissione zoonotica diretta, trasmissione all’uomo tramite ospite intermedio seguita da zoonosi, trasmissione mediante i prodotti alimentari della catena del freddo e, infine, diffusione del virus in seguito a un incidente di laboratorio. In merito all’ipotesi numero quattro, l’Oms ha effettivamente preso in esame un’ipotetica infezione accidentale capitata a un membro dello staff di un laboratorio, ma ha escluso categoricamente “l’ipotesi di rilascio deliberato o bioingegneria deliberata di Sars-CoV-2” tra l’altro scartata anche “da altri scienziati a seguito di analisi del genoma” del virus. Gli incidenti di laboratorio possono avvenire, anche se teoricamente risultano piuttosto rari.

Abbiamo introdotto la figura di Shi Zhengli. L’11 marzo 2020, quando la pandemia di Covid era già iniziata, la Signora dei pipistrelli ha rilasciato una lunga intervista alla rivista Scientific American. Miss Shi ha accennato, molto vagamente, all’ipotesi secondo la quale il virus potesse essere sfuggito proprio dall’Istituto in cui la donna stava prestando servizio. La scienziata sembrava stupita da quanto accaduto nelle settimane precedenti. Perché mai un nuovo coronavirus avrebbe dovuto diffondersi a Wuhan, in una zona urbana? Gli studi di Shi parlano chiaro: le aree in cui vi è un maggiore rischio di zoonosi sono quelle subtropicali dello Yunnan, del Guandong e del Guanxi. All’idea, successivamente smentita, che la causa delle polmoniti atipiche potesse essere un patogeno arrivato dal laboratorio, Bat Woman ha rivelato di non aver “chiuso occhio per giorni”.

Nel WIV, in effetti, si studiavano i coronavirus. Il più simile al Sars-CoV-2 è il RaTG13 (alcuni lo hanno definito anche BtCoV / 4991), che condivide il 96.2% di somiglianza con la sequenza genetica del patogeno responsabile del Covid. Il parente più stretto del nuovo coronavirus è stato sequenziato presso il Wuhan Institute of Virology dopo esser stato rilevato, probabilmente nel 2013, in alcuni pipistrelli Rhinolophus affinis presenti nelle province dello Yunnan e dello Zhejiang. In particolare, RaTG13 è stato ottenuto da Rhinolophus affinis trovati nello Yunnan; Bat CoV ZC45, altro parente strettissimo del Sars-CoV-2, viene invece da un’altra specie di pipistrello, la Rhinolophus sinicus, rinvenuta nella provincia dello Zhejiang. Insomma, nel WIV si studiavano virus molto simili al nuovo coronavirus. Tutto questo, data la misteriosa origine del Sars-CoV-2, è bastato per puntare il dito sul laboratorio di Wuhan. Non ci sono ancora prove assolute, ed è importante ribadirlo, però, al tempo stesso, sono progressivamente emerse indiscrezioni in merito all’eventuale fuoriuscita del patogeno dalla struttura da tenere per lo meno in considerazione.

Sul tema è tornata recentemente la stessa Shi, in particolare dopo immagini e documenti inediti pubblicati da Sky News Australia, che testimonierebbero la presenza di pipistrelli vivi e almeno 15mila campioni da pipistrelli asiatici e africani all’interno del laboratorio di Wuhan prima dello scoppio della pandemia. Il New York Times ha pubblicato un’intervista alla scienziata che in maniera secca e decisa respinge categoricamente la possibilità che la pandemia di Covid possa aver avuto origine dal laboratorio di Wuhan. “Come potrei mai offrire prove di qualcosa per cui non esiste prova?” ha risposto (in forma scritta). Che, secondo il resoconto del quotidiano americano, si è prestata alle domande senza celare la propria frustrazione. Shi ha inoltre negato tassativamente i recenti resoconti dell’intelligence Usa.  “Non comprendo come il mondo possa essere giunto a questo punto, a gettare costantemente fango su scienziati innocenti”, ha aggiunto Bat Woman.
Il Sars-CoV2 visto al microscopio

La ricerca del paziente zero

Una ricerca effettuata da Gilles Demaneuf, uno scienziato dei dati presso la Bank of New Zealand di Auckland, sottolinea come dal 2004 si sarebbero verificati quattro incidenti nei laboratori in cui si stava la Sars, due dei quali a Pechino. In merito al laboratorio di Wuhan, Demaneuf sostiene che il sito non dovrebbe essere considerato un edificio di massima sicurezza nella sua interezza. Soltanto uno dei tanti laboratori sarebbe in possesso dei protocolli di massima sicurezza, mentre gli altri si baserebbe (il condizionale è quanto mai d’obbligo) su protocolli paragonabili a quelli di uno studio dentistico.

Lancet sostiene che il primo paziente a cui sarebbe stato diagnosticato il Covid-19, nel dicembre 2019, sarebbe stato un 70enne di Wuhan affetto da Alzheimer. Dell’anziano, ricoverato il 29 dello stesso mese presso il Jinyintan Hospital, dopo un peggioramento delle sue condizioni di salute, si sarebbero poi perse le tracce. Il South China Morning Post ha scritto che il primo contagiato potrebbe essere un 55enne della provincia dello Hubei che avrebbe mostrato i primi sintomi a partire da metà novembre. Il Mirror ha fornito una versione ancora differente, secondo cui la prima persona ad aver contratto il Sars-CoV-2 sarebbe una donna cinese 61enne soprannominata Patient Su.

La signora abiterebbe a circa tre miglia dal WIV, ovvero dal famigerato laboratorio finito al centro della Lab Leak Theory. Proprio da qui, a detta di alcuni esperti guidati dal citato Gilles Demaneuf, il patogeno potrebbe essere fuggito grazie a un insetto non meglio specificato. Lo stesso insetto avrebbe in qualche modo – anche qui mancano i dettagli – infettato la donna. Patient Su, inoltre, abiterebbe in Zhoudaoquan Street, la strada che passa accanto ai laboratori cittadini, non distante dalla linea 2 della rete metropolitana, e situata nei pressi di un ospedale dell’Esercito Popolare di Liberazione (che avrebbe curato alcuni degli altri primi casi di Covid). La suddetta linea della metropolitana, insomma, potrebbe aver contribuito a diffondere il virus contratto dalla signora in tutta la megalopoli. Ipotesi molto complessa e debole, ma da segnalare.

La costruzione del nuovo ospedale a Wuhan nel gennaio del 2020

Il vaccino misterioso

Un’altra indiscrezione degna di nota è arrivata dall’Australia. Secondo quanto riferito da The Australian, in Cina, qualcuno avrebbe depositato un brevetto per un vaccino anti Covid il 24 febbraio 2020, ben prima che fosse dichiarata la pandemia globale. Autore dell’ipotetica azione: Yusen Zhou, uno dei più noti scienziati cinesi che nella sua carriera può vantare di aver lavorato anche per l’Esercito di Liberazione del Popolo (PLA) e di aver collaborato a stretto contatto con i colleghi del Wuhan Institute of Virology (WIV), tra cui Shi Zhengli.

Il brevetto sarebbe stato presentato a nome dell’Institute of Military Medicine, Academy of Military Sciences of the PLA. Attenzione ai particolari. Innanzitutto, se davvero Zhou ha depositato un brevetto a febbraio, significa che in quel periodo gli esperti cinesi stavano effettuando studi sul patogeno da (almeno) qualche settimana. E perché, sempre nel caso in cui la storia fosse confermata, nessuno di loro ha avvisato il resto del mondo? Il signor Zhou avrebbe depositato il brevetto dell’eventuale vaccino solo cinque settimane dopo che Pechino aveva confermato la trasmissione umana del coronavirus. In teoria è possibile avere un vaccino in un lasso così breve. Ma, al di là della tempistica, è interessante soffermarci su un altro particolare. Tre mesi dopo aver depositato il presunto brevetto Zhou sarebbe sparito dai radar, o peggio, sarebbe morto.

La mano dell’esercito

La (presunta) longa manus di Zhou lascia ipotizzare una connessione tra il WIV e l’esercito cinese. Ipotesi, tra l’altro, confermata da David Asher, che sotto l’amministrazione Donald Trump, dal settembre 2020 al gennaio 2021, ha diretto l’inchiesta del dipartimento di Stato Usa sulle origini del Covid. “A mio parere le autorità cinesi hanno tentato di controllare un incidente di laboratorio avvenuto a ottobre 2019, forse prima, e non ci sono riuscite”, ha spiegato Asher in un’intervista riportata da La Repubblica. A cavallo tra il 22 e il 23 gennaio, il caso di Wuhan, ormai esploso, sarebbe passato nelle mani dell’esercito, a conferma dei solidi legami che sarebbero intercorsi tra la struttura e la ricerca militare cinese.

A capo delle operazioni sarebbe stato piazzato il generale di divisione Chen Wei, specialista in armi biologiche; il suo vice sarebbe stato il colonnello Cao Wuchun, uno dei massimi esperti di epidemiologia dell’EPL, nonché “principale consigliere dell’Istituto di virologia di Wuhan”. Ritorniamo alle origini sino-francesi del laboratorio P4. Perché, dal 2003 in poi, gli Stati Uniti non avrebbe dato alcun peso a quanto stava accadendo a Wuhan? Non è dato saperlo.

È però certo, come confermato dallo stesso Asher, che, dopo l’estromissione di Parigi, il National Institute of Healt, la Usaid e il dipartimento della Difesa avrebbero cercato di ampliare il loro ruolo nel capoluogo dello Hubei “quasi come se volessero approfittare dell’assenza della Francia”. In realtà, ha svelato il Washington Post, nel gennaio 2018, l’ambasciata americana a Pechino inviò più volte (procedura insolita) i propri addetti scientifici presso l’Istituto di virologia di Wuhan. Nei messaggi inviati a Washington, la delegazione Usa, guidata dal console generale a Wuhan, Jamison Fouss, espresse tutta la sua preoccupazione per la scarsa sicurezza riscontrata in quegli stessi laboratori.

I finanziamenti internazionali

A ben vedere, il WIV ha ricevuto diversi finanziamenti occidentali per effettuare una discreta mole di ricerche. Una delle più importanti rivelazioni proviene dal Daily Mail che, dopo aver visionato dati del governo federale Usa, ha tratteggiato uno scenario inaspettato. Stando alla documentazione del quotidiano anglosassone, il Pentagono ha donato 39 milioni di dollari all’Eco Health Alliance (EHA), una ong che a sua volta, tra il 2013 e il 2020, avrebbe finanziato la ricerca sul coronavirus presso il WIV. EHA avrebbe ricevuto dal governo americano un totale di 123 milioni di dollari, 64.7 milioni dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e 13 milioni dallo Health and Human Service (che include il National Institutes of Health e i Centers for Disease Control).

Tra il 2017 e il 2020 la maggior parte delle sovvenzioni provenienti dal Dipartimento della Difesa Usa sarebbe provenuta dalla Defense Threat Reduction Agency (DTRA), un ramo militare con la missione di “contrastare e scoraggiare le armi di distruzione di massa e le reti di minacce improvvisate”. Insomma, l’EHA avrebbe usato finanziamenti federali americani per sostenere la ricerca sui coronavirus effettuata da scienziati cinesi presso un laboratorio cinese. Altro dettaglio: a capo di questa ong troviamo Peter Daszak, scienziato britannico che ha avuto modo di lavorare spalla a spalla con Shi Zhengli. Daszak, nonostante i presunti conflitti di interesse con il WIV, era inoltre uno degli esperti scelti dall’OMS per partecipare alla missione di Wuhan al fine di stabilire le origini del Covid.

Sempre in merito ai finanziamenti ricevuti dal WIV, pare che la lista non comprenda soltanto soldi americani. È stato lo stesso Daily Mail, lo scorso febbraio, a sottolineare un fatto passato inosservato: dal 2005 in poi l’Unione europea avrebbe finanziato il laboratorio di Wuhan con sovvenzioni dal valore complessivo di 700 mila euro. In quelle settimane un portavoce Commissione europea commentò così la vicenda: “L’Ue non ha finanziato ricerche mirate sui virus dei pipistrelli a Wuhan. L’Istituto di virologia di Wuhan funge da partner internazionale nella collaborazione globale sulle risorse virali. È stato questo partner di Wuhan a identificare a gennaio il virus SARS-CoV2”.