La vita eterna dei giovani mujahideen
Beirut la notte è una città in stato d’assedio. Una metropoli in stato di guerra che non sa da dove possa sbucare il nemico. E che per questo vigila sul territorio, controlla ogni movimento, scruta ogni passante. L’esercito è presente ovunque: macchine corazzate e carri armati formano continui posti di blocco, militari in divisa mimetica, basco in testa e mitra tra le braccia fermano ogni macchina, guardano negli occhi i passeggeri ed eseguono controlli. I sanguinosissimi attentati dell’Isis che si susseguono da mesi hanno creato uno stato di allerta massima tra le autorità, che per questo controllano minuziosamente il territorio. La gente ne sembra abituata e rassegnata, non mostra insofferenza per le continue perquisizioni e popola le strade per tutte le ore del giorno e della notte. Allegra, spensierata e rumorosa. La vita prosegue, sprezzante del pericolo e dello Stato islamico.
Entrando nel Sud della città, però, l’atmosfera cambia improvvisamente. Le strade sono deserte, l’esercito è scomparso e con lui i posti di blocco. Il silenzio è assordante: l’unico rumore proviene dallo sventolio delle migliaia di bandiere gialle che, in ogni strada e dalle finestre di ogni casa, si muovono col vento. Su ogni muro sono appesi manifesti che ritraggono i volti di giovani ragazzi sorridenti che indossano divise militari. Ad ogni incrocio campeggiano grandi poster ritraenti il viso di un signore sorridente, con i capelli scuri e un capo in testa: Hassan Nasrallah, leader politico e guida spirituale di Hezbollah, il Partito di Dio.
Siamo a Dahyie, quartiere sciita di Beirut. 700 mila persone vivono in queste strade, nelle quali l’esercito regolare non si addentra mai. Il controllo del territorio è nelle mani di Hezbollah, il partito sciita che fa parte dell’attuale coalizione di governo del Libano e le cui milizie stanno combattendo in Siria contro l’Isis e i ribelli anti-regime, insieme alle truppe di Bashar al Assad e all’aviazione russa. Pur sembrando deserte le strade sono controllatissime e si è costantemente osservati. Quando arriviamo alla nostra meta, infatti, siamo attesi pur non avendo annunciato il nostro arrivo. A riceverci sono 3 ragazzi di circa 20 anni: carnagione chiara, capelli scuri e pettinati, modi di fare cortesi ed educati, vestiti in maniera ordinata con polo o camicie dai colori sobri. Potrebbero essere scambiati per dei comunissimi ragazzi italiani, se solo uno di loro non imbracciasse un lungo kalashnikov.
Sono tre giovani mujahideen che vigilano l’ingresso di Rawdat al Shahidayen, il cimitero dei “martiri del partito”. Dagli anni Ottanta, infatti, Hezbollah combatte senza tregua su più fronti: contro i jihadisti, contro il Califfato, contro Israele e il Mossad. Il numero dei suoi caduti è altissimo e continua ad aumentare. Il culto dei morti ed il ricordo delle loro azioni è ciò che maggiormente ispira la condotta dei suoi miliziani. Le centinaia di volti stampati sui manifesti per le strade, infatti, raffigurano i soldati caduti, dei quali la gente del quartiere si prende cura ogni giorno.
Il cimitero si trova all’interno di un’ampia stanza illuminata, pulita e ordinata, interamente ricoperta di lapidi, ognuna delle quali è sovrastata da una grande foto di un giovane sorridente. Esse sono ricoperte di fiori, biglietti, oggetti appartenuti al defunto, ceri accesi. Sullo sfondo una grande libreria ricolma di libri di canti e preghiere, a disposizioni per chiunque voglia omaggiare i caduti. Il silenzio è accompagnato dal canto melanconico di un ragazzo seduto di fianco ad una lapide: accanto a sé ha aperto un libro, la sua mano destra è appoggiata alla foto del defunto, un giovanissimo ragazzo che sorride spensierato imbracciando un’arma. “È il figlio di Nasrallah” mi dice Jamal, uno dei ragazzi che ci ha accolto e che ci sta accompagnando. “È caduto in un’imboscata israeliana qualche tempo fa”.
I “martiri” sono giovanissimi, molti di loro non hanno ancora raggiunto i 18 anni. Sono tantissimi, tutti caduti negli ultimi mesi. Il cimitero ha superato la sua capienza massima, per cui ne è stato inaugurato un altro a poca distanza, Rawdat al Hawra. Più ampio e spazioso, si trova sotto una tettoia senza pareti esterne, bandiere verdi e nere campeggiano ovunque. Anche qui lo sfondo è coperto da una grande libreria. Le lapidi sono simili a quelle precedenti, ma occupano solo la metà dello spazio disponibile. “Tra un mese sarà tutto pieno” mi dice Jamal,L’ultima persona sepolta è un ragazzo di 23 anni, caduto quattro giorni prima in Siria. Il suo corpo è stato appena sotterrato, intorno alla lapide siedono quattro suoi amici. Sorridenti, chiacchierano a bassa voce e trascorrono la notte insieme all’amico caduto. Di fronte al mio segno della croce mi sorridono e mi offrono dei datteri e una tazza di the, ringraziandomi per il gesto. “Eravamo con lui quando è stato abbattuto” mi racconta uno di loro indicando la lapide. “Stavamo liberando Aleppo ed è stato colpito. È morto da eroe e per questo sarà sempre con noi”. Un altro di loro, sorridendo, piange. Al mio sguardo risponde con una breve frase: “Non sono morto per il partito di Dio”.
“Non siamo tristi o rammaricati per i nostri caduti” dice Jamal, “perché non moriranno mai. La vita non si interrompe con la morte terrena, continua invece nelle azioni di chi si ispira a te. Queste persone continuano a vivere in noi. Quando morirò io vivrò in chi mi avrà conosciuto, se me lo sarò meritato. La vita è bellissima per questo: è una scelta e noi abbiamo scelto di studiare e combattere per il Partito di Dio”.
Cosa spinge così tanti ragazzi, giovanissimi, puliti e ordinati, aimbracciare un kalashikov e sognare il martirio in nome del Partito di Dio? Sicuramente qualcosa che molto loro coetanei occidentali non comprenderebbero. A guardarli, infatti, non sembrano assolutamente delle persone disagiate che non abbiano nulla da perdere. Parlando con loro, poi, mostrano di avere un’ottima preparazione culturale: mi raccontano della religione sciita e dei suoi legami con il cattolicesimo, di filosofia, di politica. Hanno tutti studiato all’università, nessuno ha atteggiamenti aggressivi o esaltati. Vestiti bene, potrebbero passare il proprio tempo nei quartieri mondani di Beirut, studiare in un’università europea o americana e rincorrere con successo le ragazze occidentali. E invece preferiscono starsene seduti a terra, con una tazza di the e un piatto di datteri, passando la notte ad accudire un compagno d’armi che li ha appena lasciati.