
Il genocidio dimenticato
Il genocidio (dimenticato) degli yazidi
Prima li hanno intimoriti, con tutti i mezzi possibili. Poi hanno rastrellato i loro villaggi, separando gli uomini dalle donne e chi non è stato ucciso, e gettato subito in una fossa comune, è stato venduto o ceduto. Esattamente come si fa con una merce. Le loro case sono state distrutte e svuotate, derubate di ogni cosa: ricordi, giornali, fotografie, effetti personali, gioielli, utensili, abiti. A determinare i loro destini sono stati il sesso, l’età e, qualche volta anche l’aspetto e il grado di avvenenza. Alle ragazze e, persino, alle bambine è andata peggio: vendute come schiave sessuali, sono state vittima di violenze e stupri quotidiani. Tutti documentati da una serie di testimonianze fornite da chi è sopravvissuto.
Li hanno definiti infedeli, miscredenti, promiscui, adoratori del diavolo e delle tenebre. Dei loro villaggi è rimasto poco, perché diversi edifici sono stati sventrati, compresi alcuni importanti siti religiosi e luoghi di culto (distrutti e poi pazientemente ricostruiti da chi è riuscito a tornare). Molte abitazioni non hanno più i proprietari, perché o sono già morti, oppure si trovano dispersi tra la Siria, l’Iraq e la Turchia. E annessi campi profughi.

Il 3 agosto del 2014, la minoranza yazida ha vissuto il suo 74° genocidio, riconosciuto dalle Nazioni Unite, il Parlamento europeo, il Consiglio d’Europa, la camera dei rappresentanti degli Stati Uniti e i governi di diversi Paesi del mondo (tra cui l’Armenia, l’Australia, il Canada, la Francia, la Scozia e il Regno Unito). Vittime dello Stato islamico, gli yazidi sono stati brutalizzati dai suoi miliziani che, attraversando le aree montuose dove questa comunità è stanziata da secoli, hanno raggiunto le loro città e le hanno occupate, distruggendo un’identità che ancora oggi, a sei anni da quell’invasione, fatica a ricomporsi.
Nell’agosto del 2014, infatti, circa 12mila yazidi sono stati assassinati, torturati e rapiti dalle milizie di Daesh e si stima che circa 6.800 persone, in particolare donne e bambini, siano state deportate e sottoposte ad abusi sessuali e ogni genere di violenza. Tremila yazidi risultano ancora dispersi e ciò che lo Stato islamico ha fatto loro è riconosciuto, a livello internazionale, come uno sterminio, realizzato mediante distruzione metodica. È accaduto nell’area che si sviluppa attorno a Sinjar, zona situata nell’Iraq nord-occidentale, vicina al confine con la Siria, dove questa comunità vive da secoli e dove lo Stato islamico si è imposto con omicidi di massa, sequestri e conversioni forzate.
Chi sono gli yazidi
Gli yazidi sono una minoranza di etnia curda, ma ciò che li distingue dai curdi è il credo. La comunità più nutrita occupa le aree attorno a Sinjar, ma anche parte del nord della Siria, il sud est della Turchia, il Caucaso e l’Iran. Censirli, oggi, è molto complicato, soprattutto dopo quanto accaduto sei anni fa, ma come riportato in un articolo pubblicato dalla rivista scientifica Plos medicine, incentrato sulle stragi compiute dallo Stato islamico tra il 2014 e il 2015, per le Nazioni Unite, il gruppo conterebbe circa 400mila persone, che vivono principalmente in due aree dell’Iraq: i distretti di Badinan e Dohuk e i monti del Jebel Sinjar, luoghi simbolo dell’identità yazida. Tra il 1987 e il 1988, anche Saddam Hussein scatenò una ferocissima repressione nei confronti di questa comunità, ordinando la loro deportazione. E soltanto dopo la sua morte, nel 2003, i curdi richiesero che gli yazidi fossero riconosciuti come parte del proprio popolo. Credono nello yazidismo, uno dei tre rami dello Yazdanesimo (detto anche “culto degli angeli”, una religione pre-islamica nativa di questa popolazione). Sono monoteisti e anche se in molti li identificano come una “setta” musulmana, la dottrina yazidi, per gli esperti, non sembrerebbe avere molto di islamico, nonostante il vocabolario religioso sia simile a quello sufi. Compiono abluzioni sacre, hanno regole alimentari, praticano la circoncisione, il digiuno e i pellegrinaggi devozionali e credono nell’interpretazione dei sogni e nella trasmigrazione della anime. Il mercoledì è sacro, nonostante sia il sabato a essere considerato il giorno di riposo e la preghiera, da effettuare due volte al giorno, sempre in direzione del sole, non può essere recitata in presenza di persone estranee al culto.
Il culto del dio Pavone
Gli yazidi credono in un Dio primordiale, creatore dell’universo, che si è manifestato nei sette “Grandi Angeli”. Il più importante di essi è il dio pavone, Melek Ta’ us, che deriverebbe dall’antico culto pre-islamico proprio del popolo curdo. Secondo i loro testi sacri, l’angelo pavone si sarebbe ribellato al suo creatore (elemento che superficialmente lo avvicina all’angelo ribelle della tradizione biblica e coranica, cioè Lucifero), ma pentendosi della sua scelta si sarebbe poi redento, spegnendo con le proprie lacrime le fiamme dell’inferno. I riti, percepiti spesso come celebrazioni esoteriche, sono diventati l’oggetto di interpretazioni superficiali, che non hanno fatto altro che emarginare gli appartenenti a questa religione. La forma con cui è conosciuto oggi lo Yazidismo è il risultato della predicazione di Adi Hakkari, noto anche come Adi Musafir, un teologo del XI° secolo, che si stabilì non lontano da Mosul, luogo dove iniziò la sua predicazione. Ritenuto dai suoi seguaci un “inviato” del dio Pavone, dopo la sua morte, secondo la tradizione yazida la sua anima si sarebbe unita a quella di Melek Ta’ us, attraverso la trasmigrazione. Da allora, la sua tomba a Lalish, in provincia di Dohuk, è meta di pellegrinaggi, a cui sono chiamati tutti i devoti di questo credo. Ed è proprio nel celebre santuario di Lalish, il luogo considerato più sacro, che dopo il 2014, le ragazze yazide riuscite a scappare dai carcerieri dello Stato islamico sono state mandate per celebrare il proprio ritorno. Nel tempio, le funzioni di riconversione delle giovani, mediante una sorta di battesimo, sono servite a riaccogliere le tante vittime di Daesh e a farle sentire di nuovo parte di quella comunità.
La società yazida divide i suoi appartenenti in laici e religiosi, tutti guidati da un capo spirituale. L’attacco perpetrato dallo Stato islamico, sei anni fa, nei villaggi di questa comunità ha lasciato più di un segno. Che emerge ogni volta che i sopravvissuti cercano di commemorare i propri morti. Di molte famiglie yazide non è rimasto più niente, se non frammenti di ossa di chi è stato ucciso dai combattenti di Abu Bakr al-Baghdadi e che, al momento, si trovano nelle fosse comuni sparse in vari punti del territorio. Secondo quanto riportato da Avvenire, nel 2014, per giorni, quasi mezzo milione di yazidi hanno provato a scappare verso Dohuk ed Erbil, a piedi o a bordo di carovane. “Durante quell’offensiva io lavoravo come infermiere diplomato in un ospedale di Sinjar, nella città vecchia. Tutta la mia famiglia si trovava lì e sapeva che l’Isis stava attaccando gli yazidi dal lato meridionale di quella zona e che aveva conquistato diverse aree del territorio. Mi dissero che tutti li avevano abbandonati, perché i nostri vicini arabi, con cui abbiamo sempre avuto ottimi rapporti, si erano uniti a Daesh e che le forze di sicurezza non erano più in grado di garantire la difesa. Così dissi ai miei familiari di lasciare la casa e di andare sulle montagne, per fuggire”, spiega a Inside Over Saad Murad, 34enne della comunità yazida, che dei giorni dell’attacco di Daesh ricorda ogni dettaglio. Oggi è un rifugiato negli Stati Uniti ed è responsabile della comunicazione dell’associazione non governativa Yazda. Nella sua città non torna da anni, anche se sente la mancanza dei familiari, degli amici e delle persone care, che spera un giorno di poter “portare in America”. La sua famiglia, per fuggire alla furia dello Stato islamico, ha lasciato la propria casa, portando via soltanto qualche vestito, un po’ di cibo e dell’acqua. “Eravamo poveri, non avevamo nemmeno una macchina”, ha chiarito Murad, che ha raccontato come i suoi familiari abbiano camminato per giorni su quelle alture prima di riuscire a mettersi in salvo. La catena montuosa del Jebel Sinjar è stata, non solo per la famiglia di Murad, un passaggio obbligato per provare a mettersi in salvo dalla violenza dell’Isis: “La mia famiglia, rimasta su quelle alture per circa otto giorni, ha visto molti bambini morire per mancanza di cibo e di acqua”. Poi, l’apertura di un corridoio verso la Siria ha permesso l’attraversamento del confine e l’arrivo nella regione del Kurdistan, dove i familiari di Murad hanno trovato rifugio. “Quando li ho incontrati mi sono parsi molto stanchi e provati. Ho visto diverse persone piangere”, ha spiegato l’infermiere 34enne. Che racconta di come tanti concittadini siano stati uccisi dai soldati dello Stato islamico. “Ho cercato di capire come poter essere utile a chi attraversava le montagne dello Sinjar: ero un infermiere, così a Dohuk ho chiesto farmaci e forniture mediche che sapevo potessero aiutare chi stava scappando. L’Isis controllava tutta l’area e l’unico modo per raggiungere i miei concittadini su quelle alture era utilizzare l’aviazione irachena. Ci sono rimasto circa 20 giorni e lì ho visto centinaia di persone intrappolate, senza niente: non avevano cibo, acqua o vestiti. Ho visto persone mangiare alberi e piante, pur di poter ingerire qualcosa. Abbiamo aiutato circa 200 persone al giorno, inclusi i sopravvissuti alla prigionia di Daesh. Ed è stata una situazione davvero tragica”. Chi non è riuscito a mettersi in salvo, invece, è diventato una vittima del macabro “rito” dei miliziani dello Stato islamico: rastrellare i “miscredenti”, raggrupparli in punti di aggregazione e disporre delle loro esistenze.

La classificazione
Una volta raggiunti i centri abitati yazidi, la dinamica compiuta dalle milizie di al-Baghdadi era quasi sempre la stessa: prendere nota dei nomi e delle identità dei prigionieri, scattare loro delle fotografie e “classificarli”. Il metodo appariva ancora più meticoloso con le ragazze, che venivano divise in base al loro stato civile. Nubili o sposate. All’inizio, centinaia di donne e bambini catturati sono stati dati “in dono” ai combattenti di Daesh, che per primi hanno preso parte all’offensiva dello Sinjar, come bottino di guerra. “Eravamo costrette a fare tutto quello che ci veniva chiesto”, è il commento più frequente tra le sopravvissute che, in alcuni casi, al momento della cattura, erano praticamente bambine e che, in certe circostanze, al loro ritorno, non hanno potuto disporre nemmeno di un aiuto psicologico adeguato per superare quei ricordi.
Molte di loro, in maggioranza diventate schiave sessuali dei gerarchi dell’autoproclamato Stato islamico, non riescono nemmeno a ricostruire i fatti, a dare un ordine agli eventi o a raccontare gli stupri e le violenze subite. Alcune giovani salvate dalle organizzazioni non governative sono state reinserite in programmi di protezione in Europa e necessitano di cure specifiche per superare tutti i traumi. Molte di queste si sono ammalate e c’è stata anche chi non è più riuscita a dire una sola parola. Le chiamano “le ritornanti” e sono rientrate con cicatrici sul corpo e nella mente. Tra loro c’è anche chi, una volta liberata, si è tolta la vita perché incapace di superare lo choc. O chi si è ammalata, perché sfregiata e irriconoscibile. Le ragazze che non sono riuscite a scappare dai loro carcerieri e che quindi mancano ancora all’appello potrebbero trovarsi ancora in Turchia o in Siria. E sono tante.
Traditi, venduti e “ri-comprati”
Negli ultimi anni, lo Stato islamico avrebbe rilasciato 3.500 schiavi yazidi, molti dei quali, per poter tornare effettivamente in libertà, sono stati “ri-comprati” dalle loro famiglie. Tuttavia, secondo quanto comunicato dall’ufficio rapiti nella regione autonoma curda dell’Iraq, più di 2.900 persone risultano ancora disperse e tra questi 1.300 sono donne e bambini. Chi è riuscito a tornare e, oggi, è in grado di raccontare la propria prigionia lo fa con lo sguardo spento. Molti yazidi ritengono che i loro vicini arabi sunniti, con i quali, fino a quel momento, la convivenza era stata pacifica, siano i principali responsabili dei massacri perpetrati nel 2014. Sono in molti, infatti, a credere di essere stati traditi e “venduti” ai miliziani di al-Baghdadi. Lo conferma anche Murad: “Nessuno ci ha difeso, siamo stati abbandonati da tutti. I nostri vicini sono diventati membri dell’Isis e ci hanno attaccato insieme a loro, nonostante avessimo buone relazioni sociali con loro. Ricordo, per esempio, che sia io, sia i miei familiari avevamo parecchi amici arabi: ci venivano a trovare spesso e viceversa”.

La strage di Kocho
Quando i soldati dell’autoproclamato Stato islamico sono arrivati a Kocho, un villaggio a sud delle montagne di Sinjar, nel governatorato di Ninive, l’ultimatum alla popolazione di convertirsi all’islam non aveva sortito alcun effetto. Nessuno aveva voluto lasciare le proprie case, né rinnegare la propria fede. Così, il 15 agosto 2014, un convoglio di uomini armati di Daesh aveva assediato il piccolo centro e radunato la popolazione nella scuola del villaggio. Lì, come sempre, avevano separato gli uomini dalle donne. Come riportato da L’Espresso, organizzati in gruppi di 30, i maschi del centro erano stati fatti salire su alcune auto, per simulare una deportazione in montagna, ma una volta arrivati a destinazione erano stati assassinati. Qualcuno era riuscito a sopravvivere alla sparatoria e, nascondendosi in mezzo ai cadaveri, era riuscito a salvarsi. Donne e bambini, inseriti nelle “categorie” tipiche dei registri dello Stato islamico, erano stati inviati a Tal Afar (a lungo una roccaforte di Daesh) e a Mosul, per essere comprati e distribuiti tra i soldati. Con quell’operazione centinaia di yazidi erano diventati definitivamente di proprietà del Califfato. Letteralmente in mano agli uomini di al-Baghdadi anche le donne di Kocho sono state brutalizzate, perché considerate delle “infedeli”. Le milizie filo-sciite Hasd al-Shaabi hanno cacciato lo Stato islamico da quel villaggio nel maggio del 2017, ma in quell’area molte abitazioni e aziende agricole, dopo il passaggio di Daesh, risultano ancora inagibili. E chi si è salvato ha timore a tornare nelle proprie case. Oggi, il 90% degli edifici, comprese scuole e luoghi pubblici, risultano completamente distrutti e le organizzazioni non governative portano via chi è rimasto. Perché spesso ricostruire non si può, visto che il luogo non è ritenuto abbastanza sicuro per la comunità. Nel 2019, per esempio, alcuni reduci dello Stato islamico hanno continuato la personale “crociata” verso la comunità yazida, rapendo tre persone e uccidendone altre, attraverso un attacco kamikaze. Al responsabile dello sterminio di Kocho del 2014 corrisponde un nome e un cognome: si tratta di Abu Hamza, un emiro locale dello Stato islamico, morto in seguito a un incidente stradale, che non rinnegò mai quella strage. All’assalto del villaggio a pochi chilometri dal monte Sinjar, dove si erano rifugiati migliaia di yazidi poco prima dell’irruzione di Daesh, sono sopravvissute soltanto 19 persone. Tra queste c’è anche Nadia Murad Basee Taha.
Nadia, la sopravvissuta
Quando i soldati dello Stato islamico raggiunsero Kocho e sterminarono parte della sua famiglia, Nadia Murad aveva soltanto 21 anni. Catturata insieme a molte altre donne yazide, era stata portata a Mosul, dove subì ogni genere di violenza. Ustioni, pestaggi e abusi sessuali. Nel novembre del 2014, Nadia riuscì a mettersi in salvo, grazie alla distrazione di uno dei suoi carcerieri, che aveva dimenticato di chiudere a chiave la porta dell’abitazione in cui era tenuta segregata. Dopo aver chiesto sostegno a una famiglia della zona, che la aiutò raggiungere un campo profughi nel nord dell’Iraq, la giovane riuscì a mettersi in salvo e a raggiungere l’Europa. Nel dicembre 2015, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in America, Nadia raccontò quanto le fosse accaduto. Menzionando ogni tipo di sofferenza. Nel 2016 è diventata ambasciatrice di Buona volontà Onu e due anni dopo le è stato assegnato il premio Nobel per la Pace. Grazie alla sua straziante testimonianza, la ferocia di quel genocidio (che rischiava di rimanere ignoto) è entrata nelle case di tutti. Anche perché storia di Nadia Murad Basee Taha è praticamente identica a quella di molte altre donne yazide. Di tutte le età.
La schiava personale di al-Baghadi
“Mi hanno picchiato e mi hanno venduto. Poi mi hanno fatto di tutto”. Ha i capelli raccolti e la mano destra sopra la bocca. Anche se l’espressione del suo volto non si vede, la sofferenza nel suo sguardo si intuisce. Catturata, pestata e venduta, di lei non si conosce il nome, ma si sa che durante gli anni di prigionia è stata stuprata da circa una dozzina di “proprietari”.

Abu Hareth, un predicatore locale dello Stato islamico iracheno, possedeva diversi schiavi yazidi e alla Associated Press aveva dichiarato che molti combattenti di Daesh non avevano mai registrato le “vendite” dei propri prigionieri presso i tribunali perché non era una pratica obbligatoria. A conferma del fatto che la vita di un membro di quella comunità aveva un valore nettamente inferiore a quello di un qualsiasi tipo di merce. Il responsabile riconosciuto della persecuzione e, soprattutto, della messa in schiavitù della minoranza yazida irachena è Abdullah Qardash, uomo dai molti nome e altrettanti volti, attualmente numero uno dello Stato islamico, le cui sorti risultano ancora poco chiare (è notizia di qualche giorno fa del suo presunto arresto in Iraq). “È molto difficile descrivere ciò che ci è capitato: io continuo a ricordare tutto, non posso dimenticare niente”, spiega Murad dallo telecamera dello schermo del suo telefono. È coinvolto, ma non versa una lacrima, né si mostra arrabbiato, nemmeno quando racconta della morte del fratello trentenne, nel 2015: “Quando è stato ferito a morte dall’Isis io ero in ospedale, perché stavo lavorando. L’ho visto morire mentre i medici cercavano di salvarlo. E la stessa cosa è successa a migliaia di famiglie yazide. Quanto ci è accaduto mi ha ricordato gli ebrei in Germania”.
“Era sposato e aveva un figlio”, continua a descriverlo Murad. Si augura che le cose possano andare meglio in futuro, “per ricominciare a vivere le nostre vite”, ma il processo è difficile, anche perché secondo l’attivista la situazione in Iraq continua a non essere buona: “C’è corruzione ovunque, manca l’istruzione e la nostra area è al centro di vari conflitti, perché è controllata da milizie diverse”. Conferma di stare bene in America, ma attende di poter riabbracciare i suoi familiari, che vivono ancora all’interno di un campo profughi, perché la loro città di provenienza non è ancora un luogo sicuro: “Nel 2016, ho incontrato alcuni rifugiati palestinesi in Giordania: indossavano una chiave al collo e quando ho chiesto loro il significato di quella chiave, mi hanno detto che era il simbolo del ‘ritorno’.