La comunità cristiana a rischio emarginazione
“L’arabo libanese è nato dall’unione della lingua araba con il siriaco, dialetto aramaico parlato dai monaci che evangelizzarono questa terra nel 900” racconta con un sorriso orgoglioso Fra Elie Rahmé, subito dopo la messa dell’Immacolata nel convento dei frati cappuccini di Beirut. Quando i francescani arrivarono in città, nel 1626, in linea con la politica dell’ordine, si istallarono in periferia. A Bab Idris non c’erano ancora i palazzoni delle banche e i condomini esclusivi che caratterizzano oggi il centro finanziario di Beirut e che, a due passi dal moderno e sfavillante suk a ‘downtown’, finiscono per nascondere la meravigliosa chiesa. “Il Libano era chiamato il Vaticano del Medio Oriente”, dice con voce velata di malinconia il frate. Oggi i cristiani cattolici ‘latini’ sono appena 15 mila in tutto il Libano. “La nostra cultura e le tradizioni fanno parte di questo paese”, afferma. Ma da quando la comunità cristiana ha perso ‘sponsor’ internazionali, con il potere di quelli islamici sunniti e sciiti in costante crescita, nell’arco di pochi decenni potrebbero essere solo un ricordo. Il legame tra cristianesimo e Libano è a rischio di finire dissolto tra le trame dei grandi giochi geopolitici che investono il paese, il bilanciamento dei poteri istituzionali sempre meno favorevole alla comunità cristiana e differenze culturali che portano la comunità islamica a crescere poderosamente rispetto a quella cristiana. Questioni culturali, economiche e politiche, più che di sicurezza legate al fondamentalismo islamista, potrebbero in Libano avere gli effetti che altrove sono generati dalla ferocia del terrorismo. Un conflitto demografico che i cristiani stanno perdendo.
Nel corso della storia, la convulsa politica interna, la guerra civile, e i conflitti e scontri religiosi che si riverberano nel paese a causa dell’asfissiante confessionalismo libanese, hanno portato a un cambio demografico netto. “Contro di noi non ci sono persecuzioni come si conoscono altrove – dice il vescovo Melkita di Sidone Elie Haddad – però c’è un ambiente ostile. Eravamo 100mila prima della guerra, oggi siamo meno della metà. Il numero di cristiani qui diminuisce sempre più, anche perché le opportunità di lavoro sono sempre meno, soprattutto nelle amministrazioni e nel governo, dove è grande la competizione dei musulmani”. Vertici istituzionali, posti nel governo e in parlamento, amministratori locali, sindaci, dipendenti pubblici, esercito, polizia: tutto il Libano è diviso in base al credo religioso. La diminuzione del potere politico e il numero sempre inferiore di cittadini della comunità cristiana hanno portato a una flessione anche in questo bacino. Il lavoro è meno e intere famiglie vanno via. “Non sappiamo come uscirne, è una sfida. Cerchiamo di fare tutto e di recuperare. E allora – continua il vescovo Haddad – se il pubblico non ci accoglie come si deve e ci vengono sottratti posti prima garantiti ai cristiani, cerchiamo di aiutare a trovare lavoro nel settore privato: banche, ospedali, scuole” anche questi, ovviamente, cristiani. “Qui la chiesa svolge compiti molto più ampi di quelli meramente religiosi” sottolinea il Vescovo Elie Haddad.“Cerchiamo di arrestare la migrazione che minaccia i cristiani, tentati di andare via, per questioni economiche e per sfuggire all’integralismo che regna nella regione mediorientale. Seguendo l’esortazione ‘Nuova speranza per Libano’ di Giovani Paolo II, mettiamo le proprietà della chiesa a servizio della comunità. Diamo in gestione la terra, ricostruiamo chiese e cerchiamo di dare sicurezze ai nostri fedeli trovando loro posti di lavoro. Finora ne abbiamo trovati già 450. Per la chiesa dare lavoro ai fedeli è pesante. Questo – prosegue Haddad – sarebbe compito dello Stato, che è assente in questo campo”. Risalendo da Sidone, sul mare, prima di arrivare al convento ortodosso cattolico melkita del Santissimo Salvatore, si attraversano decine di piccoli villaggi. Qui prima della guerra i cristiani rappresentavano il 60%. Ora sono il 10% circa
L’attuale maggioranza è islamica di credo sciita. Comunità che fa del culto della personalità una voce importante della propria propaganda. A differenza delle aree druse, le bandiere di Amal e di Hizbullah e le foto dei leader Nasrallah e Nabih Berri sono numerose come le moschee che si incontrano. “Qui la chiesa è dentro la società dall’inizio. Poi guerre e persecuzioni, debolezza e mancanze dei cristiani, hanno portato a una diminuzione drastica. Per questo ora la missione per i cristiani è un’altra. “L’impegno per la nostra comunità è – sottolinea Padre Abdo Raad – aiutare i cristiani a rimanere nelle proprie terre. A tornare qua e rimanerci. Dobbiamo fare qualcosa per tutelare i cristiani, far si che migliori il livello di educazione per i figli e migliorare la giustizia sociale. Non è lavoro che la chiesa dovrebbe fare, non è un lavoro che può fare. E’ responsabilità dello Stato- afferma- noi possiamo al massimo fare pressione affinché lo Stato garantisca giustizia per tutti. Solo così possiamo incoraggiare i cristiani a tornare dicendo loro che hanno ancora una missione, perché senza cristiani – sottolinea – il Libano non sarà più quel messaggio di cui parlava il santo padre Giovanni Paolo II”. Ma a tutti questi si aggiunge un altro problema. I cristiani che tornano e quelli che restano, a causa della differenza culturale e dello standard di vita più alto, tendono a fare sempre meno figli. Uno, massimo due a famiglia. Le scuole private (cristiane) e tutti gli altri servizi privati sono carissimi e quindi sostenere la spesa per molti bambini diventa difficile. “I musulmani al contrario – ricostruisce il prete maronita Elia Rizh – si accontentano delle scuole pubbliche gratis, si adattano a vivere dove possono e alimentarsi come possono e così possono fare tanti figli”. Per loro vale poi un fattore culturale in più. I musulmani, soprattutto sciiti, tendono a procreare molto perché sentono come una missione quella di dare combattenti per la propria causa, comunitaria e religiosa. “Hanno bisogno di molti bambini per la guerra: devono procreare, sono obbligati, perché devono mandare i propri figli a combattere”.