In fuga da Boko Haram

In fuga da Boko Haram

Le immagini del racconto prendono vita nitidamente, come se l’incubo si stesse materializzando davanti a noi. I particolari della tragedia ci fanno sprofondare in un vortice di orrore, in cui veniamo trascinati, sempre più a fondo, in preda a un’angoscia dettata dalla violenza della narrazione.

È l’agosto del 2014 e nella città di Gwoza, al confine col Ciad, si sentono degli spari in lontananza. È mattina e i colpi provengono da lontano; può essere l’esercito, oppure i guerriglieri di Boko Haram. I colpi a poco a poco si fanno più nitidi e gli spari secchi degli Ak 47 ormai sono vicini e iniziano a cadere verso le abitazioni della città nigeriana. È chiaro: è un’incursione degli jihadisti di Abubakar Shekau; ora non ci sono dubbi.

Non si odono solo i crepitii secchi dei kalashnikov; i miliziani islamisti attaccano anche con armi pesanti: i proiettili dell’artiglieria e dei fucili d’assalto viaggiano in tutte le direzioni e dalla boscaglia e dai campi intorno alla città si incominciano a scorgere i soldati del Califfato d’Africa. Sagome che avanzano nei cespugli, sulle piste di terra battuta, sbucano da dietro alberi e arbusti e queste figure, dagli occhi satirici e dalle barbe spettrali, diventano sempre più definite. Alcuni hanno delle divise militari, altri solo delle giacche mimetiche, molti indossano abiti civili e kefiah al collo. Urlano ”Allah u Akbar”, salmodiano i versi del Corano e intanto sparano; non conoscono tregua: avanzano e sparano. La gente di Gwoza inizia a scappare, corre sui monti e anche i militari dell’esercito nigeriano, dopo una debole resistenza, si danno alla fuga sull’altipiano.

La città è in mano ai soldati di Shekau. Non appena prendono controllo del centro abitato, hanno inizio le esecuzioni sommarie. Gli uomini, con le mani legate dietro la schiena, vengono assassinati con un colpo in testa e poi gettati nel fiume; le donne, invece, vengono rapite. Tra loro c’è anche Sara Tuzakaria: ha 43 anni e 4 figli; viene portata in piazza e poi, con i suoi bambini, caricata su un pick up. Il fuori strada si mette in coda ad altri mezzi, una bandiera nera sventola su ciascuno di essi e le jeep, infine, si inoltrano verso gli accampamenti della guerriglia. Una volta arrivati nel primo campo di Boko Haram, Sara viene separata dai suoi figli. E da quel momento la sua vita diviene un riflesso terreno della morte. Imprigionata nell’accampamento, i ribelli la costringono a lavorare, a cucinare e a pregare. È cristiana: e gli jihadisti lo sanno. La frustano e più volte le ordinano di convertirsi. Non ha più risposte, non sente più nemmeno il dolore fisico, non ha più desiderio di vita, ma solo un’esigenza totalizzante, assoluta, primigenia, materna: sapere dove sono e come stanno i suoi figli. Con insistenza lo chiede ai miliziani, li supplica di essere portata da loro, ma nessuna concessione viene fatta da quegli uomini che odiano con fierezza, che dell’eresia hanno fatto una fede, che in punta di coltelli e di mitra vogliono esportare il totalitarismo dell’orrore, facendo della miseria il carburante con cui animare la propria guerra santa.

La tortura imposta a Sara Tuzakaria, come ad altri prigionieri, è studiata e non causale. Svuotare ogni uomo e ogni donna di ciò che li rende vivi, privarli di ciò che dà loro sensibilità, idee. Si tratta di una strategia fatta per annientare ogni spigolo dell’individualità umana, una tecnica di annichilimento esistenziale, che conduce a un’eutanasia del raziocinio e che converte le persone in automi del grande Califfato. Se c’è chi, privato di ogni riferimento, cede e bacia la bandiera di Shekau, c’è anche chi, invece, non sogna altro che la morte: ed anche Sara, quindi, dopo aver perso ogni speranza di rivedere i suoi figli, prova a togliersi la vita, smettendo di bere e mangiare. ”Non volevo più vivere, non c’era nessuna ragione che mi facesse stare al mondo”. Oggi, seduta nel campo profughi allestito nella parrocchia di Santa Teresa a Yola, racconta quei momenti e svela cos’è accaduto dopo. ”Una notte però ho di nuovo sognato tutti i miei figli e mi sono svegliata promettendomi che li avrei rivisti. Così una sera, approfittando del buio e dell’assenza di alcuni guerriglieri, sono fuggita e ho camminato per giorni nella foresta”. Da quel momento la donna ha iniziato a visitare tutti i campi profughi nella regione, andando alla ricerca dei suoi bambini. È stata in più di 20 tendopoli, è andata persino in Camerun, poi è arrivata a Yola e qua il vescovo Steven Dami Mamza ha deciso di darle un alloggio e aiutarla nel perseguire il suo obiettivo. ”Per adesso nessuno ha saputo dirmi nulla di loro, ma io so che li troverò; ne sono certa!”.

Quella di Sara Tuzakaria è solo una delle innumerevoli storie permeate dall’incubo che si incontrano nella tendopoli di Yola. Dal settembre 2014, all’interno della parrocchia di Santa Teresa, è stato allestito un campo profughi che ospita famiglie cristiane, ma anche musulmane, in fuga dagli jihadisti. I rifugiati provengono dagli stati del Borno di Adamawa e al momento del loro arrivo, due anni fa, il vescovo non ha avuto dubbi: aprire le porte della cattedrale per ospitare, indiscriminatamente, chiunque ne avesse bisogno, uomini, donne e bambini.

La chiesa e il campanile si manifestano da lontano, ma è solo una volta che si entra nel campo e si supera il controllo delle guardie che si scopre che nel cortile retrostante sono accampate più di 800 persone. Un albero regala una zona d’ombra e alcune famiglie sono sedute sotto le fronde. Ci sono donne che cantano, altre che curano i bambini e altre ancora che provvedono a preparare il riso che verrà distribuito all’intera tendopoli. Ma il visibile è solo un velo d’apparente normalità: è al di là dello sguardo che è invece accampato l’incubo del terrorismo, celato nel recondito dei sopravvissuti. Padre Maurice Kwairanga passeggia nel campo e apre la porta di quello che un tempo era il salone della parrocchia. Una ragnatela di zanzariere e coperte travolge l’intera stanza. Bidoni dell’acqua, sacchi di farina, materassi per terra: ed è qua che vivono gli sfollati. La luce filtra dalle finestre, su un muro c’è un dipinto della crocifissione di Cristo e in un angolo si intravede una donna. È seduta, fissa il vuoto e non muove un solo muscolo, ma nel silenzio assoluto sembra comunque parlare, come se i pensieri urlassero e la sua resa dei conti personale con in fantasmi del passato assorda più di ogni grido di supplica, per un orrore che non cessa di perseguitarla.

“Molte di queste persone hanno visto le peggio efferatezze e sono vittime di traumi. Chi ha perso i figli, chi è stato ferito, chi è stato abusato, tutti hanno abbandonato le proprie case e la propria terra. E non hanno pace, perchè Boko Haram colpisce anche nei campi profughi e la paura è una costante nella vita di queste persone”.

Scende il tramonto e un uomo, seduto nel cortile della parrocchia, accende la radio per ascoltare il notiziario; un’ altra donna, con un figlio legato sulla schiena e un secchio in testa si appresta a lavare dei vestiti; le lampade ad olio, intanto, come dei fuochi fatui, brillano nella parrocchia. Il rituale della notte sopraggiunge: vengono sciolte le matasse delle zanzariere, vengono preparati i giacigli e il campo sembra divenire così un atavico presepe d’Africa, senza però un’epifania di speranza, ma saturo di ombre che tolgono il sonno e il fiato.

Tra esse, ci sono anche quelle che assaltano ogni notte Cecilia Pita, che ha 36 anni e continua a rivedere le sagome lugubri, dagli occhi iniettati di fiele e dalla febbrile eccitazione, che la tengono ferma nella sua casa di Madagali e la obbligano ad assistere alla decapitazione di suo marito. Trascorre la notte e Cecilia si sveglia; ma l’incubo non svanisce: resta e rimarrà, per sempre.