LA STORIA DECAPITATA
Così spariscono le statue negli Usa

La storia decapitata: così spariscono le statue negli Usa

Viaggiare è diventato un sogno quasi irrealizzabile in tempi di Covid, tra tamponi, restrizioni e quarantene. Ma quando torneremo (perché a un certo punto torneremo) liberi di visitare altri Paesi, troveremo un mondo molto cambiato. Una delle mete turistiche preferite per gli italiani e per tutti gli europei, gli Stati Uniti, avranno un volto molto diverso, per chi li osserva con occhio da storico. È infatti negli Stati Uniti che si è abbattuta per prima la furia iconoclasta della “cancel culture“, la tendenza a rileggere e condannare la storia con gli occhi dell’antirazzismo. Molti dei monumenti che facevano parte del paesaggio urbano sono già stati rimossi, sia da manifestanti che dalle amministrazioni locali. L’uccisione di George Floyd, da parte di un poliziotto di Minneapolis, ha dato il via alla più grande ondata di abbattimenti.

Nel Sud degli Usa, negli Stati che dal 1861 al 1865 facevano parte della ex Confederazione degli Stati Americani, uscita sconfitta nella Guerra Civile, si possono notare i cambiamenti maggiori. Nel centro storico di Charleston, porto atlantico della Carolina del Sud, si stagliava un’alta colonna che reggeva la statua di John Calhoun (1782-1850). Politico e filosofo politico di primissimo piano nella prima metà dell’Ottocento, Calhoun viene ricordato soprattutto dai libertarians per la sua teoria libertaria della lotta di classe: la società non è divisa in borghesia e proletariato, bensì in produttori e consumatori di tasse. L’equilibrio politico viene meno (e inizia la tirannia) quando i consumatori di tasse superano per forza e numero i produttori di ricchezza e li assoggettano ai loro interessi parassitari. I sostenitori del federalismo e delle autonomie lo ricordano invece per la sua strenua difesa dei diritti degli Stati dal governo centrale.

Ora la sua statua non c’è più. Perché è stato abbattuto per volontà dell’autorità locale, dopo anni di dibattito e sulla spinta della protesta per la morte di George Floyd. La motivazione principale di tanto odio per un politico deceduto undici anni prima dello scoppio della Guerra Civile? Essendo un difensore dei diritti degli Stati, difendeva anche l’autogoverno della sua Carolina del Sud, quindi di uno Stato ancora schiavista. Letto con gli occhi antirazzisti di oggi, è dunque inaccettabile.

Sempre a Charleston, invece, è rimasto il monumento ai Difensori Confederati. Oltre ad essere la prima città a proclamare la secessione dall’Unione, un secolo e mezzo fa, Charleston è stata anche teatro della prima battaglia e del più lungo assedio della Guerra Civile: Fort Sumter fu dove si spararono i primi colpi della guerra, quando i Confederati conquistarono la fortezza dopo un breve bombardamento. Negli anni successivi gli Unionisti provarono a riconquistarla, ponendola sotto assedio, ma non vi riuscirono fino alla fine del conflitto. Per questa strenua resistenza, in anni molto più recenti (1932), in un punto molto suggestivo del lungomare che dà su Fort Sumter la città di Charleston eresse il monumento dedicato ai difensori e ai caduti dell’esercito confederato. I progressisti ne chiedono la rimozione e durante la protesta dopo la morte di George Floyd sono scoppiati, ai suoi piedi, tafferugli anche molto violenti, con tre arresti. Benché più volte vandalizzato, il monumento è ancora al suo posto (almeno finora).

A Charlottesville, in Virginia, lo scorso 11 luglio è stata rimossa la statua equestre del generale Robert E. Lee, comandante in capo delle forze confederate. Benché fosse personalmente contrario alla schiavitù, è ora diventato un odiato simbolo di razzismo per il ruolo che ricoprì allora. Il progetto di abbattere la statua, annunciato nell’estate del 2017, aveva provocato i drammatici scontri di Charlottesville, fra militanti di estrema sinistra e di estrema destra, che il 12 agosto di quell’anno causarono la morte di Heather Heyer, attivista di sinistra travolta e uccisa da James Alex Fields, un suprematista bianco.

La statua, in sé, è comunque rimasta al suo posto fino a questo mese, per altri quattro anni. Resta ancora al suo posto, invece, un altro monumento equestre estremamente contestato, quello dedicato al generale John Brown Gordon, di fronte al Campidoglio di Atlanta, Georgia. Fu uno dei più brillanti generali della Confederazione, poi però accusato di aver capitanato segretamente il Ku Klux Klan georgiano, ma l’accusa non venne mai dimostrata. Per il suo ruolo in guerra e i sospetti successivi al conflitto, il suo monumento è stato anch’esso vandalizzato dai contestatori che ne chiedono la rimozione. Caso particolare, quello della memoria del generale Gordon: anche 44 discendenti dell’alto ufficiale confederato chiedono che la statua sia abbattuta, con una lettera aperta al governatore Kemp nella quale si legge: “Lo scopo principale del monumento era quello di celebrare e mitizzare il suprematismo bianco della Confederazione”.

La politicizzazione delle statue confederate è un dibattito molto recente. Le rimozioni sono avvenute soprattutto nel 2017 e nel 2020. Nella prima ondata di proteste razziali e in risposta alla contro-protesta Unite the Right furono 36 i monumenti rimossi in tutto il Sud. Poi con le proteste a seguito dell’uccisione di George Floyd, altri 94 sono stati abbattuti nel solo 2020. Casi di rimozione erano molto rari prima del 17 giugno 2015, quando un suprematista bianco sparò ai fedeli afro-americani in una chiesa metodista di Charleston. Fu quell’episodio che spinse alcuni governatori (fra cui Nikki Haley, futura ambasciatrice all’Onu) a cancellare le bandiere confederate quali simboli ufficiali dei loro Stati.

Attualmente la più nota bandiera confederata (quella con le stelle degli Stati secessionisti disposti a croce di sant’Andrea blu in campo rosso) è stata vietata anche in manifestazioni molto popolari al Sud, come le corse automobilistiche Nascar.

La contestazione parte dal presupposto che le statue dedicate ai personaggi storici sudisti siano frutto di un periodo di revival confederato e del suprematismo bianco, sorti negli stessi anni della prima metà del Novecento in cui veniva applicata la segregazione razziale. Il fatto che movimenti di estrema destra, fra cui il Ku Klux Klan siano fra i maggiori difensori di questi simboli, non fa che rafforzare questa idea. Tuttavia rischia di sfuggire un altro aspetto molto importante: la riconciliazione post-bellica.

Dai decenni successivi alla fine della Guerra Civile, la politica trasversale di tutti i presidenti americani si è basata sulla riunificazione del Paese lacerato e sul rispetto della memoria degli ex nemici. Non è stato un compito facile, soprattutto considerando il grado di devastazione della Guerra Civile: con i suoi 650mila morti fu il più sanguinoso conflitto dell’Ottocento e la prima guerra totale propriamente detta, con tanto di mobilitazione dell’industria a scopo bellico e il coinvolgimento pieno delle popolazioni civili. Gli Stati Uniti hanno un federalismo autentico, non un centralismo all’europea, dunque anche la preservazione della tradizione locale è parte integrante dei diritti degli Stati alla loro autonomia. Così si può ammirare, forse ancora per poco, un monumento di Grant al Nord e di Lee al Sud, acerrimi nemici nella Guerra Civile (anche se si rispettavano cavallerescamente e ammiravano umanamente), ciascuno dei quali difendeva la propria terra.

Inoltre, la “cancel culture” non si limiterà a colpire la Confederazione e la sua memoria storica. Punta decisamente alla rimozione di tutta la memoria “bianca” (intesa come tradizione europea nel nuovo lessico antirazzista). Stanno infatti abbattendo le statue di Cristoforo Colombo, reo di aver portato gli europei sul continente americano. E anche quelle di anti-razzisti convinti, incluso lo stesso Abraham Lincoln: un monumento a lui dedicato, inaugurato nel 1875, è stato rimosso a Boston nel dicembre 2020, perché l’immagine dello schiavo liberato, in ginocchio ai suoi piedi, era ritenuta “offensiva”.