
La capitolazione dell’Artsakh e l’effetto domino
La rabbia della piazza armena
Terzo giorno di vivaci proteste a Yerevan davanti al palazzo del governo in piazza della repubblica. Dopo la capitolazione della repubblica dell’Artsakh, avvenuta quasi beffardamente in concomitanza con la festa dell’indipendenza del Paese, i manifestanti chiedono a gran voce le dimissioni del primo ministro Nikol Pashinyan, colpevole a detta dei manifestanti di non saper gestire la situazione e garantire la sicurezza di 145mila armeni che vivono nel Nagorno-Karabakh.
La polizia presidia il palazzo governativo in tenuta antisommossa e scudi di ferro. I camion della nettezza urbana vengono fatti girare per la piazza con la scusa di pulire ma con l’intento di disperdere i manifestanti. Proprio tra questi incontriamo Anna, 24 anni studia psicologia comportamentale. È euforica e preoccupata: “Siamo qui a chiedere che i nostri fratelli in Nagorno-Karabakh non vengano abbandonati, Pashinyan pensa di scambiare la pace con la vita degli Armeni dell’Artsakh ma si illude, i prossimi siamo noi se non facciamo qualcosa”.
Vicino a lei un’altra ragazza giovanissima Yeva, 22 anni studia per diventare maestra elementare, i suoi genitori vivono nel Nagorno-Karabakh: “Non li vedo da un anno e ora non riesco a contattarli, l’Azerbaigian non si fermerà finché non avrà raggiunto i suoi scopi, stiamo rischiando un secondo genocidio”. Mentre parliamo passa un poliziotto con un berretto rosso e ci chiede di allontanarci, le ragazze ci raccontano che proprio i militari dal cappello rosso che quella mattina e nei giorni precedenti hanno attaccato i manifestanti arrestando centinaia di persone.
I sentimenti che pervadono la piazza passano dalla preoccupazione alla rabbia in maniera repentina, infatti ci si para davanti Yovhannes, un tassista di 50 anni che tira fuori il telefono e mostra la foto di un ragazzo in divisa che regge un mitra. Non parla bene inglese e una ragazza si offre di tradurre: “Questo è mio figlio! sta combattendo in Artsakh. Al governo non importa di lui, Pashinyan non serve più la Repubblica di Armenia è ormai un vassallo della Turchia!”.
La voce gli si rompe e si ferma, poi riprende e dice una frase sola: “Siamo soli, nessuno verrà, dobbiamo aiutarci da soli”.
Non tutti però sono in piazza a protestare, allontanandoci dai tumulti in fila per prendere i mezzi pubblici parliamo con Razmik, programmatore informatico: “Non voglio prendere parte alle proteste, siamo tutti armeni e tutti stiamo soffrendo, vorrei solo andare a casa e non guardare più le notizie ma ho parenti coinvolti e anche se spengo il telefono il pensiero è sempre lì. Non so come ne usciremo la situazione è intricata.”