Bilancio di uno Stato cuscinetto

Bilancio di uno Stato cuscinetto

Peja/Peć, Kosovo. «Abbiamo mandato un treno, non un carrarmato!». È stato questo il commento del Presidente della Repubblica di Serbia Aleksandar Vučić pronunciato durante una conferenza stampa sul il viaggio del treno che avrebbe dovuto inaugurare la tratta ferroviaria tra Belgrado, capitale della Serbia, e Mitrovica, “capoluogo” del Kosovo del Nord. È il 15 gennaio 2017. Le forze della “Policia e Kosovës” si schierano armate lungo il confine con la Serbia per impedire il transito di un treno di fabbricazione russa che trasporta i passeggeri diretti verso Mitrovica, la città a maggioranza serba ancora oggi spaccata in due da un ponte sul fiume Ibar che separa la parte nord serba da quella meridionale abitata invece da kosovari albanesi. Stampato in 21 lingue diverse il claim “Il Kosovo è Serbia” decorava il guscio esterno del convoglio che per l’occasione era stato anche tinteggiato con i tre colori della bandiera serba. Agli occhi della polizia e dei politici kosovari il décor grafico e multiculturale del treno era apparso come un chiaro segno di provocazione. Ma ciò che ha scosso maggiormente la comunità kosovara e ridestato le animosità sopite era l’arredamento interno delle carrozze, un tributo all’iconografia sacra serba che vedeva protagoniste le riproduzioni degli affreschi dei principali luoghi di culto della chiesa ortodossa presenti in Kosovo, come il Monastero patriarcale di Peć, il Monastero di Visoki Dečani e quello di Gračanica. Il gesto provocatorio di un treno che vuole oltrepassare il confine protetto dalla risoluzione Onu numero 1244 del 1999 lasciava spazio alla consapevolezza che il problema investiva l’ordine del simbolico: l’iconografia religiosa celebrata all’interno del treno apparteneva, infatti, a quei monumenti sacri considerati nevralgici durante la guerra del 1996-1999, che erano divenuti teatri di scontri e di violenze nel 2004 e che oggi sono sotto il controllo della missione Nato “Kosovo Force” (KFOR).

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Veduta del Monastero di Visoki Dečani

 

L’episodio del treno si aggiunge a un elenco puntato di situazioni al limite che hanno generato nuove instabilità nel fragile equilibrio politico dei due Paesi, come il ritorno in Pristina dell’ex comandante dell’UCK e pluricondannato per crimini di guerra Ramush Haradinaj, la proposta di un esercito autonomo in Kosovo, eventi condannati sia dai cittadini di etnia albanese, sia dalla minoranza serba che vive sparpagliata e scollegata nelle varie enclave del Paese. Il ping-pong di provocazioni tra gli Stati non è mai cessato: le istigazioni politiche procedono da entrambe le parti e continuano a sollevare animosità tra le etnie. Le tensioni seguitano a serpeggiare silenziosamente, tenute a bada in uno territorio militarizzato da vent’anni.

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Peja/Peć, Kosovo. Base del Multi National Battle Group West (MNBG-W) della Missione KFOR che opera nella zona Ovest del Kosovo.

 

«Nei giorni successivi l’evento del treno molti serbi che vivevano nella zona ovest hanno rimosso la targa dalle loro automobili per evitare problemi con la popolazione albanese. Era facile incrociare dei veicoli che andavano o tornavano da Peć sprovviste della targa». La voce è quella del giornalista radiofonico Milić Petrović di Radio Goraždevac, l’unica voce serba del Kosovo per i serbi presenti in Kosovo.

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Goraždevac, Peja/Peć, Kosovo. Milić Petrović durante una trasmissione in diretta. «Nei giorni successivi l’evento del treno molti serbi hanno rimosso le targhe dalle loro auto per non avere problemi con la popolazione di etnia albanese».

 

Goraždevac è un villaggio situato a una manciata di km ad est di Peć. Qui i serbi, poco meno di un centinaio, vivono in casette sparpagliate tra le campagne e sotto il controllo dei soldati della missione KFOR che pattugliano il sobborgo in ottemperanza ai mandati della risoluzione Onu. Vivere in un’enclave significa risiedere in un territorio appartenente a uno stato diverso da quello che ha la sovranità su di esso, significa vivere entro i confini di un Paese differente da quello cui si appartiene politicamente e linguisticamente. Vuol dire riceve educazione scolastica, assistenza sanitaria, diritti e doveri serbi. Chi abita in una enclave sopravvive con i frutti del proprio orto, allevando animali da cortile o facendo qualche piccolo lavoro artigianale. In una parola: emarginati.

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Orahovac, Prizren, Kosovo. Tomić, 48 anni, con le pecore al pascolo.

 

«Quella mattina ci hanno telefonato in molti, informandoci dell’accaduto. Chiedevano consiglio su come comportarsi per non avere problemi. […] Nessuno di noi in questa zona è stato minacciato, ma l’evento ci ha fatto ricordare i massacri e il periodo di coprifuoco scattato subito dopo la fine della guerra» continua a raccontare Milić. Qui la provocazione politica ha abbandonato l’ordine del simbolico e si è trasformata in un agente di disturbo reale che ha rischiato di minare l’insperata conquista antropologica di due comunità differenti che si ritrovano a convivere nel medesimo spazio dopo una guerra, scontri etnici e continue istigazioni da parte della politica. «Si ci sono state delle conseguenze: alcuni di noi hanno ricevuto insulti e minacce. Ma non avevamo nessuna colpa. […] Ci sono voluti anni per farmi riconoscere la casa e adesso ho di nuovo paura che la situazione possa sfuggirmi di mano con un niente». Zorban Čembić è tornato a vivere a Istok nel dicembre del 2016. Era fuggito nel 1997 assieme a migliaia di serbi che scappavano dalle persecuzioni albanesi. Vive al di fuori del piccolo centro urbano e trascorre tutta la giornata a lavorare la terra. La sera si rilassa sorseggiando grappa all’albicocca che produce a settembre. C’è Radmilo a fargli compagnia, un gatto randagio che al suo ritorno era seduto sull’uscio di casa.

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Istok, Kosovo. Zorban Čembić, 48 anni, accarezza con il suo gatto Radmilo. «Sono tornato in Kosovo nel dicembre 2016. […] Ci sono voluti diversi anni per farmi riconoscere la casa dal governo kosovaro».

La comunità serba trova molta difficoltà nell’inserimento sociale e istituzionale o ad avere accesso a posizioni lavorative di peso: «In Kosovo la partecipazione delle minoranze nel processo decisionale a livello delle municipalità è molto limitata data la mancanza di forti legami di comunicazione tra i leader dei comitati comunitari e i membri delle minoranze che invece dovrebbero essere consultati sulle questioni che gli riguardano» (G. Stevens, Filling the Vacuum: Ensuring Protection and Legal Remedies for Minorities in Kosovo, Minority Rights Group International, 2009). Nonostante il conflitto contro la Serbia sia finito da vent’anni, la vita per la popolazione serba è ancora molto difficile. Padre Sava Janjic, egumeno del Monastero di Visoki Dečani e massima autorità della chiesa ortodossa in Kosovo, si esprime con parole cariche di disappunto: «La vita dei serbi del Kosovo non è facile. Naturalmente dobbiamo considerare che oltre i 2/3 della popolazione serba dell’anteguerra non è più qui, ed è molto dura per loro ritornare perché anche se ora non sono direttamente perseguitati, uccisi o rapiti come accadeva subito dopo la guerra, ci sono molti ostacoli amministrativi da parte della autorità locali che rendono molto difficile farli tornare qui e vivere in maniera appropriata, come assicurare la scolarità, il diritto alla salute e un normale accesso alle istituzioni. […] Vorremmo che le persone serbe avessero più diritti, più giustizia, ottenere le loro proprietà e avere completa libertà di movimento. Sfortunatamente abbiamo diversi casi in cui i serbi non sono neppure ammessi nei posti in cui prima abitavano». L’isolamento geografico e culturale dei serbi è percepito con maggior incisività se si volge lo sguardo alla controparte albanese che ha faticato non poco per accaparrarsi una nuova identità. Subito dopo la fine della guerra, infatti, molti investitori hanno finanziato progetti per lo sviluppo. Oggi non mancano complessi industriali, infrastrutture, aziende vinicole e centri per il turismo che squarciano il paesaggio bucolico della Metochia.

Valle di Orahovac, Kosovo. Un centro di stoccaggio di un’azienda vinicola nel sud del Paese.
Valle di Orahovac, Kosovo. Un centro di stoccaggio di un’azienda vinicola nel sud del Paese.

 

Tuttavia dieci anni dopo la dichiarazione di indipendenza dalla Serbia il Kosovo risulta essere un paese ancora povero (lo stipendio medio è di 350,00 euro circa), con la disoccupazione ferma al 40% e un tasso di corruzione tra i più alti d’Europa. A questo scenario si aggiunge poi la minaccia jihadista, sempre più imprimente nell’area. E sono fioccate sovvenzioni anche per i media già presenti e per la nascita di nuovi, i cui finanziatori, ex membri dell’UCK, sono nascosti nello statuto societario: «politici e uomini d’affari hanno usato questo modello per infiltrarsi nella struttura proprietaria dei mezzi di comunicazione esistenti, o per lanciare nuovi media al fine di strumentalizzarli per i propri interessi» (Isuf Berisha, Media Integrity Report: Media Ownership and Financing in Kosovo, South East European Media Observatory, 2015). Si tratta di imprenditori – molto spesso “lobby” di ricche famiglie vicinissime alle linee politiche dominanti – che creano nuovi contenitori mediatici per un paese che continua a celebrare però le rivoltose ideologie del passato anche attraverso l’iconografia dei “vecchi” uomini di potere che hanno combattuto per esse.

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Deçan/Dečani, Kosovo. Un poster dell’ex generale dell’UCK Ramush Haradinaj sulla faccia di un edificio nella piazza principale della città.

 

«Quindici anni fa l’unica voce che si poteva ascoltare in Kosovo era la trasmissione radiofonica della missione Nato KFOR che trasmetteva news, bollettini e musica. Oggi invece la situazione è completamente diversa: a Pristina e in altre città del paese ci sono emittenti televisive e radiofoniche statali e altre private. Sono aumentati i quotidiani e ci sono stati investimenti per i media digitali e per le nuove generazioni che sono in grado di usarli bene e con velocità, come richiede la nostra epoca». Mentre Krenare Shala, caporedattrice dell’emittente privata RTV Dukajini di Peja, pronuncia queste parole, nello studio accanto si svolgono le prove di registrazione della rubrica cinematografica “CineMania”.

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RTV Dukajini, Peja/Peć, Kosovo. Renata Gafuri, editor e presentatrice, durante la registrazione della rubrica cinematografica.

 

Gli stimoli culturali del Kosovo d’oggi sono questi, contrastanti e incoerenti. Da una parte ci sono gli investitori, le istituzioni, le municipalità e i media che si sforzano di disegnare i tratti di una comunità storica che usa gli strumenti del «soft power» per celebrare il raggiungimento di una nuova identità molto simile a quella degli altri dirimpettai europei. Dall’altra invece ci sono le minoranze, la militarizzazione del paese, le provocazioni politiche e le ideologie del partito UCK che fino al ‘99 era bollato come un’organizzazione terroristica, mentre oggi i suoi combattenti sono celebrati come eroi nei cimiteri e attraverso loghi e monumenti sparsi lungo le strade. Segni evidenti, questi, di un nazionalismo ideologico ancora vivo, forte e imprimente. Padre Sava Janjic: «In Kosovo ci sono ancora leader politici albanesi che inneggiano nuovamente all’integrazione del Kosovo con l’Albania e questo è molto provocatorio. L’idea di un intervento internazionale qui non dovrebbe essere funzionale al progetto di una “Grande Serbia” o di una “Grande Albania”. Le persone dovrebbero vivere insieme dove sono e non dovremmo permettere in nessun modo la persecuzione della gente, a maggior ragione su basi etniche o religiose».

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Deçan/Dečani, Kosovo. Un pompiere dinanzi la ex sede di una brigata dell’UCK oggi utilizzata come stazione dei Vigili del Fuoco.